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Giovanni Pascoli

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Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli (1855 – 1912), poeta italiano.

Citazioni di Giovanni Pascoli

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  • Cercava sempre, ed era ormai vegliardo. | Cercava ancora, al raggio della vaga | lampada, in terra, la perduta dramma. | L'avrebbe forse ora così sorpreso | con quella fioca lampada pendente, | e gliel'avrebbe con un freddo soffio | spenta, la Morte. E presso a morte egli era! [...] | Ed e' vestì la veste rossa e i crudi | calzari mise, e la natal sua casa | lasciò, lasciò la saggia moglie e i figli, | e per la steppa il vecchio ossuto e grande | sparì [...].[1]
  • Chi ha toccato una volta un'ingiuria – di sangue e di morte – non cesserà mai di toccarne di nuove. Piove sul bagnato: lagrime su sangue, e sangue su lagrime.[2]
  • Conoscere e descrivere la mente di Dante sarà mai possibile? Egli eclissa nella profondità del suo pensiero: volontariamente eclissa.[3]
  • Delle città dove sono stato, Matera è quella che mi sorride di più, quella che vedo meglio ancora, attraverso un velo di poesia e di malinconia.[4]
  • Di quercia caduta ognuno viene a far legna. E tagliato l'albero, così grande e bello, perché hanno a sopravvivere i novelli?[5]
  • [Giosuè Carducci] Egli sembra, anche nell'aspetto, una di quelle foreste sul lido del suo mare, le quali anche nella più quieta serenità pare che si contorcano alle raffiche del libeccio.[6]
  • [Viggiano] Il paese non è grande, ma nemmeno piccolo; l'aria ottima; pittoreschi i dintorni: le rovine di Grumentum a pochi passi; arpeggiamenti per tutto, che fanno di Viggiano l'Antissa della Lucania.[7]
  • Il sogno è l'infinita ombra del Vero.[8]
  • Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra.[9]
  • La poesia consiste nella visione d'un particolare inavvertito, fuori e dentro di noi.[10]
  • [...] la parte alta della città che sembra voglia svincolarsi dal declivio collinoso su cui riposano le sue case, e forse desiosa di azzurro e di verde tende a stendersi, risalendo coi suoi fabbricati, ancora in alto, verso le montagne presilane che poi azzurramente cupe degradano sino, a poco a poco, a raggiungere le acque silenziose del classico golfo di Squillace. È sempre bello a vedere questo giardino, nei tepidi pomeriggi di autunno e nelle primavere aulenti, nelle fresche mattine d'estate e nelle luminose giornate d'inverno…[11]
  • [A Matera] Non c'è libro qua: da vent'anni che c'è un Liceo a Matera, nessuno n'è uscito con tanta cultura da sentire il bisogno d'un qualche libro; i professori pare che abbiano tutti la scienza infusa; e perciò libri non se n'è comprati. Ci vorrebbe un sussidio del Governo, ma il Governo probabilmente non ne vorrà sapere nulla.[12]
  • [Sullo stretto di Messina] Questo è il luogo dove si stringono due mani invisibili. È lo stretto e, mi si perdoni il bisticcio, la stretta. Qui la penisola si tende verso l'isola col suo selvoso Aspromonte; qui la Sicilia si protende verso l'Italia col suo candido Faro. La Calabria e la regione Mamertina sono le due mani, che l'Italia e la Sicilia si stringono: sono, se volete meglio, le due labbra con le quali si danno un bacio d'amore indissolubile.[13]
  • Ridon siringhe del color di lilla | sopra la mensa e odorano viole: | la capinera è tra gli aranci: brilla | tremulo il sole. || Tu pur, poeta, hai rifiorito il cuore | e trilli e frulli hai nella fantasia. | Le ignave brume e l'umile dolore | sorgi ed oblìa.[14]

Canti di Castelvecchio

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  • Al mio cantuccio, donde non sento | se non le reste brusir del grano | il suon dell'ore viene col vento | dal non veduto borgo montano. (da L'ora di Barga)
  • Che torbida notte di marzo! | Ma che mattinata tranquilla! | che cielo pulito! Che sfarzo | di perle! Ogni stelo, una stilla | che ride: sorriso che brilla | su lunghe parole. (da Canzone di marzo)
  • Egli coglieva ed ammucchiava al suolo | secche le foglie del suo marzo primo | (era il suo nuovo marzo), il rosignolo, || per farsi il nido. E gorgheggiava in tanto | tutto il gran giorno; e dolce più del timo | e più puro dell'acqua era il suo canto. (da L'usignolo e i suoi rivali)
  • Io sono una lampada ch'arda | soave! | La lampada, forse, che guarda, | pendendo alla fumida trave, | la veglia che fila; || e ascolta novelle e ragioni | da bocche | celate nell'ombra, ai cantoni, | da dietro le soffici ròcche | che albeggiano in fila. (da La poesia)
  • Per le faggete e l'abetine, | dalle fratte e dal ruscello, | quel canto suona senza fine, | chiaro come un campanello. | Per l'abetine e le faggete | canta, ogni ora ogni dì più, | la cinciallegra e ti ripete: | tient'a su! tient'a su! tient'a su! (da La partenza del boscaiolo, III)
  • La vergine dorme. Ma lenta | la fiamma del puro alabastro | le immemori palpebre tenta; | bussa alla chiusa anima . (da Il sogno della vergine)
  • Lascia che guardi dentro al mio cuore | lascia ch'io viva del mio passato; | se c'è sul bronco sempre quel fiore, | s'io trovi un bacio che non ho dato! | Nel mio cantuccio d'ombra romita | lascia ch'io pianga sulla mia vita! (da L'ora di Barga)
  • Mentre pensavo, e già sentìa, sul ciglio | del fosso, nella siepe, oltre un filare | di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio | truce, un lampo, uno scoppio... ecco scoppiare | e brillare, cadere, esser caduto, | dall'infinito tremolìo stellare, | un globo d'oro, che si tuffò muto | nelle campagne, come in nebbie vane, | vano; ed illuminò nel suo minuto | siepi, solchi, capanne, e le fiumane | erranti al buio, e gruppi di foreste, | e bianchi ammassi di città lontane. | Gridai, rapito sopra me: Vedeste? | Ma non v'era che il cielo alto e sereno. | Non ombra d'uomo, non rumor di péste. | Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno | di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso | mi parve quanto mi parea terreno. (da Il bolide, 1983, p. 102)
  • Nascondi le cose lontane, | tu nebbia impalpabile e scialba, | tu fumo che ancora rampolli, | su l'alba, | da' lampi notturni e da' crolli | d'aeree frane! (da Nebbia)
  • Oh! Valentino vestito di nuovo, | come le brocche dei biancospini! | Solo, ai piedini provati dal rovo | porti la pelle de' tuoi piedini || Porti le scarpe che mamma ti fece, | che non mutasti mai da quel dì, | che non costarono un picciolo: in vece | costa il vestito che ti cucì. (da Valentino)

L'ultimo viaggio

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Ed il timone al focolar sospese
in Itaca l'Eroe navigatore.
Stanco giungeva da un error terreno,
grave ai garretti, ch'egli avea compiuto
reggendo sopra il grande omero un remo.

Citazioni

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  • Sonno è la vita quando è già vissuta: | sonno; chè ciò che non è tutto, è nulla. | Io, desto alfine nella patria terra, | ero com'uomo che nella novella | alba sognò, né sa qual sogno, e pensa | che molto è dolce a ripensar qual era. | Or io mi voglio rituffar nel sonno, | s'io trovi in fondo dell'oblio quel sogno. (Ulisse: X, vv. 31-38)
  • E non vide la casa, né i leoni | dormir col muso su le lunghe zampe, | né la sua dea [Circe]. Ma declinava il sole, | e tutte già s'ombravano le strade. (XVII, vv. 23-26)
  • E il vecchio vide che le due Sirene, | le ciglia alzate sulle due pupille, | avanti se miravano, nel sole | fisse, od in lui, nella sua nave nera. | E su la calma immobile del mare, | alta e sicura egli inalzò la voce. | "Son io! Son io, che torno per sapere! | Che molto io vidi, come voi vedete | me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo, | mi riguardò; mi domandò: Chi sono?" (XXIII, vv. 29-38)
  • Ed ecco [Calipso] usciva con la spola in mano, | d'oro, e guardò. Giaceva in terra, fuori | del mare, al piè della spelonca, un uomo, | sommosso ancor dall'ultima onda: e il bianco | capo accennava di saper quell'antro, | tremando un poco; e sopra l'uomo un tralcio | pendea con lunghi grappoli dell'uve. | Era Odisseo: lo riportava il mare | alla sua dea: lo riportava morto | alla Nasconditrice solitaria, | all'isola deserta che frondeggia | nell'ombelico dell'eterno mare. | Nudo tornava chi rigò di pianto | le vesti eterne che la dea gli dava. (XXIV, vv. 33-46)

Ed ella [Calipso] avvolse l'uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l'udia nessuno:
– Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! –

Myricæ

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Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.

E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l'infinita nuvolaglia.

Citazioni

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  • Sempre un villaggio, sempre una campagna | mi ride al cuore (o piange), Severino: | il paese ove, andando, ci accompagna | l'azzurra visïon di San Marino: | sempre mi torna al cuore il mio paese | cui regnarono Guidi e Malatesta, | cui tenne pure il Passator cortese, | re della strada, re della foresta. (frammento dalla poesia Romagna, da Ricordi)
  • Da' borghi sparsi le campane in tanto | si rincorron coi lor gridi argentini: | chiamano al rezzo, alla quiete, al santo | desco fiorito d'occhi di bambini. (frammento dalla poesia Romagna, da Ricordi)
  • Dal profondo geme l'organo | tra 'l fumar de' cerei lento: | c'è un brusio cupo di femmine | nella chiesa del convento: || un vegliardo austero mormora | dall'altar suoi brevi appelli: | dietro questi s'acciabattano | delle donne i ritornelli. || [...] || Per noi prega, o santa Vergine, | per noi prega, o Madre pia; | per noi prega, esse ripetono, | o Maria! Maria! Maria! (Le monache di Sogliano) [preghiera]
  • Al camino, ove scoppia la mortella | tra la stipa, o ch'io sogno, o veglio teco: | mangio teco radicchio e pimpinella. (O vano sogno, da L'ultima passeggiata)
  • Al rio sottile, di tra vaghe brume, | guarda il bove coi grandi occhi: nel piano | che fugge, a un mare sempre più lontano | migrano l'acque d'un ceruleo fiume. (da Il bove)
  • San Lorenzo, io lo so perché tanto | di stelle per l'aria tranquilla | arde e cade, perché sì gran pianto | nel concavo cielo sfavilla. (da X Agosto)
  • E tu, Cielo, dall'alto dei mondi | sereni, infinito, immortale, | oh! d'un pianto di stelle lo inondi | quest'atomo opaco del Male. (da X Agosto)
  • E cielo e terra si mostrò qual era: || la terra ansante, livida, in sussulto; | il cielo ingombro, tragico, disfatto. (da Il lampo)
  • Io la [felicità] inseguo per monti, per piani, | pel mare, pel cielo, nel cuore, | io la vedo, già tendo le mani, | già tengo la gloria e l'amore. (da Felicità)
  • Quando brillava il vespero vermiglio, | e il cipresso pareva oro, oro fino, | la madre disse al piccoletto figlio: | Così fatto è lassù tutto un giardino. | Il bimbo dorme e sogna i rami d'oro, | gli alberi d'oro, le foreste d'oro; | mentre il cipresso nella notte nera | scagliasi al vento, piange alla bufera. (Fides)
  • Stavano neri al lume della luna | gli erti cipressi, guglie di basalto, | quando tra l'ombre svolò rapida una | ombra dall'alto: | orma sognata d'un volar di piume, | orma d'un soffio molle di velluto, | che passò l'ombre e scivolò nel lume | pallido e muto: | ed i cipressi sul deserto lido | stavano come un nero colonnato, | rigidi, ognuno con tra i rami un nido | addormentato. (La civetta)
  • Udia tra i fieni allor allor falciati | de' grilli il verso che perpetuo trema, | udiva dalle rane dei fossati | un lungo interminabile poema. (frammento della poesia Romagna, da Ricordi)
  • Sembra un vociare, per la calma, fioco, | di marinai, ch'ad ora ad ora giunga | tra 'l fievole sciacquio della risacca. (frammento da I puffini dell'Adriatico, da Ricordi)
  • Scendea tra gli olmi il sole | in fascie polverose; | erano in ciel due sole | nuvole, tenui, róse: | due bianche spennellate | in tutto il ciel turchino. | Siepi di melograno, | fratte di tamerice, | il palpito lontano | d'una trebbïatrice, | l'angelus argentino... (frammento della poesia Patria, da Dall'alba al tramonto)
  • Manina chiusa, che nel sonno grande | stringi qualcosa, dimmi cosa ci hai! | Cosa ci ha? cosa ci ha? Vane domande: | quello che stringe, niuno saprà mai. (Morto, da Creature)
  • Come un'arca d'aromi oltremarini, | il santuario, a mezzo la scogliera, | esala ancora l'inno e la preghiera | tra i lunghi intercolunnii de' pini. (frammento da Il santuario, da Ricordi)
  • Allora... io un tempo assai lunge | felice fui molto; non ora: | ma quanta dolcezza mi giunge | da tanta dolcezza d'allora! (frammento dalla poesia Allora, da Dall'alba al tramonto)
  • Nel campo mezzo grigio e mezzo nero | resta un aratro senza buoi, che pare | dimenticato, tra il vapor leggero. (Lavandare, 1-3)
  • Nella soffitta è solo, è nudo, muore. | Stille su stille gemono dal tetto | [...] La notte cade, l'ombra si fa nera; | egli va, desolato, in Paradiso. (Abbandonato, da Creature)
  • Più bello il fiore cui la pioggia estiva | lascia una stilla dove il sol si frange. (Frammento da Pianto, da Pensieri)
  • Noi mentre il mondo va per la sua strada, | noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l'affanno, | e perché vada, e perché lento vada. (Il cane, da L'ultima passeggiata)
  • Odi, sorella, come note al core | quelle nel vespro tinnule campane | empiono l'aria quasi di sonore | grida lontane? (da Campane a sera)
  • Quanti quel roseo campanil bisbigli | udì, quel giorno, o strilli di rondoni | impazienti agl'inquieti figli. (da Quel giorno)
  • Rosa di macchia, che dall'irta rama | ridi non vista a quella montanina, | che stornellando passa e che ti chiama | rosa canina; (da Rosa di macchia)
  • Sappi – e forse lo sai, nel camposanto – | la bimba dalle lunghe anella d'oro, | e l'altra che fu l'ultimo tuo pianto, | sappi ch'io le raccolsi e che le adoro. (da Anniversario)
  • Vien per la strada un povero che il lento | passo tra foglie stridule trascina: | nei campi intuona una fanciulla al vento: | Fiore di spina! (da Sera d'ottobre)
  • Gemmea l'aria, il sole così chiaro | che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo l'odorino amaro | senti nel cuore... || Ma secco è il pruno, e le stecchite piante | di nere trame segnano il sereno, | e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante | sembra il terreno || Silenzio, intorno: solo, alle ventate, | odi lontano, da giardini ed orti, | di foglie un cader fragile. È l'estate, | fredda, dei morti. (Novembre)
  • Anch'io; ricordo, ma passò stagione; | quelle bacche a gli uccelli della frasca | invidiavo, e le purpuree more; | e l'ala, i cieli, i boschi, la canzone: | i boschi antichi, ove una foglia casca, | muta, per ogni battito di cuore. (da La Siepe)
  • E nella notte nera come il nulla, || a un tratto, col fragor d'arduo dirupo | che frana, il tuono rimbombò di schianto: | rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo, | e tacque, e poi rimareggiò rinfranto, | e poi vanì. Soave allora un canto | s'udì, di madre, e il moto di una culla. (Il tuono, da Tristezze)
  • Per te i tuguri sentono il tumulto | or del paiolo che inquïeto oscilla; | per te la fiamma sotto quel singulto crepita e brilla; || tu, pio castagno, solo tu, l'assai | doni al villano che non ha che il sole; | tu solo il chicco, il buon di più, tu dài alla sua prole; || ha da te la sua bruna vaccherella | tiepido il letto e non desìa la stoppia; | ha da te l'avo tremulo la bella fiamma che scoppia. || Scoppia con gioia stridula la scorza | de' rami tuoi, co' frutti tuoi la grata | pentola brontola. (da Il castagno, vv. 41-56)

Citazioni su Myricæ

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  • Di questo libro che giunge ora alla sua sesta edizione, non rincresca al lettore, e specialmente alla soave lettrice, un po' di storia.
    Le più vecchie poesie del volume sono Il maniero (Ricordi IV) e Rio salto (ib. III), che furono fatti e, mi pare, anche pubblicati prima dell'80. Viene poi Romagna (Ricordi I) che è dell'80 o giù di lì. Fu poi pubblicata nella Cronoca bizantina, ma non so in qual numero: non la vidi mai. Poi ci fu un intervallo. Ero stretto dalle necessità della vita, e il canto non usciva dalla gola serrata. (Giovanni Pascoli, dalla Nota bibliografica, Massa settembre '86, in Myricae, Oscar Mondadori, 1967)

Nuovi poemetti

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  • Chi prega è santo, ma chi fa, più santo. (da E lavoro)
  • Dolore è più dolor, se tace. (da Il prigioniero)
  • Il poco è molto a chi non ha che il poco. (da La piada)

Odi e inni

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  • E nella notte giovinetto insonne | vidi la luce postuma, lo spettro | dell'alba: tremole colonne | d'opale, ondanti archi d'elettro. || E sotto i flessili archi e tra le frante | colonne vidi rampollare il flutto | d'un'ampia chiarità, cangiante | al palpitare del gran Tutto. (da L'aurora boreale)
  • Di fronte | m'eri, o Sicilia, o nuvola di rosa | sorta dal mare! E nell'azzurro un monte: l'Etna nevosa. | Salve, o Sicilia! Ogni aura che qui muove | pulsa una cetra od empie una zampogna, | e canta e passa… Io era giunto dove | giunge chi sogna. (da L'isola dei poeti, pp. 404-405, 1997)
  • Tu [Otto von Bismarck] sei la Forza. Avanti dunque, o conte, | principe, duca, esci dal tuo maniero, | galoppa su la cupa eco del ponte, || corri pel mondo, ancora tuo!... Guerriero | dalla lunga ombra, ferma il tuo cavallo | nel campo, sotto quello stormo nero! (da Bismarck, pp. 408-409, 1997)
  • O tu [corbezzolo] che, quando a un alito del cielo | i pruni e i bronchi aprono il boccio tutti, | tu no, già porti, dalla neve e il gelo | salvi, i tuoi frutti; || e ti dà gioia e ti dà forza al volo | verso la vita ciò che altrui le toglie, | ché metti i fiori quando ogni altro al suolo | getta le foglie; || i bianchi fiori metti quando rosse | hai già le bacche, e ricominci eterno, | quasi per gli altri ma per te non fosse | l'ozio del verno; || o verde albero italico, il tuo maggio | è nella bruma: s'anche tutto muora, | tu il giovanile gonfalon selvaggio | spieghi alla bora... (da Al corbezzolo. p. 412, 1997)
  • Cantò tutta la notte un coro | di trilli arguti e note gravi; | e il plenilunio d'oro | splendé sul letto dove riposavi. || All'alba si diffuse un grande | odor nel portico: il tuo chiostro | fu pieno di ghirlande: | una diceva: AL CARO PIN CH'È NOSTRO. (da A Giuseppe Giacosa, p. 423, 1997)
  • guardi chi passa nella grande estate: | la bicicletta tinnula, il gran carro | tondo di fieno, bimbi, uccelli, il frate | curvo, il ramarro... (da La rosa delle siepi, p. 448, 1997)
  • Ciò fu nei tempi che ai monti | stridevano ancor le Chimere, | quando nei foschi tramonti | Centauri calavano a bere... (da Ad Antonio Fratti, p. 473, 1997)
  • TERRA!... — Sì, terra, sì. Tristo | risveglio! Dormivi, da secoli, || o portatore del Cristo, | dormivi; e giungeva a te l'eco || d'armi e di sferze; a te, presso | la tomba, il lor pianto sommesso | piangeano gli schiavi. || Esule cenere muta, | non questo è l'arrivo: è il ritorno! || Dietro la poppa battuta | dall'onde, è la sera d'un giorno... || esule cenere mesta, | del giorno latino! Ed è questa | la terra degli avi, || vecchia! È la notte del giorno | latino; è il fatale ritorno. (da: Il Ritorno di Colombo, pp. 484-485, 1997)
  • Voi che notturni moveste | per le strade ancora ombrate; | ch'or nel vestibolo, al vento | antelucano, aspettate | ch'uno v'apra il monumento | del gran Morto; || voi che da quando le stelle | pendean bianche su le lande, | state: qui, sotto una mole | grave, v'ascosero il Grande; | qui: vedetela nel sole | ch'è già sorto. | Voi che recaste gli aromi | questa è la tomba, se voi | non cercate che una pietra | esso, l'aedo d'eroi, | sceso qui con la sua cetra, | non è qui. (da A Verdi, p. 524, 1997)
  • Vive, ed è lungi, e ci manda | l'inno dell'anima umana | ch'è in esilio ed in martoro. | Presso un'ignota fiumana | ha sospesa l'arpa d'oro; | non è qui. (da A Verdi, p. 526, 1997)
  • Morto? Ma forse l'Italia | dai due mari fu sommersa? | Dove fu l'Etna nevosa | l'onda ribolle e riversa? | dove stette il Monte Rosa, | c'è una duna? (da A Verdi, p. 526, 1997)
  • Egli sul bianco cavallo | corse via con la sua tromba: | non è qui. (da A Verdi, p. 527, 1997)
  • Oh! chi morì senza fine, | non ha fine, non è spento, | non è qui. (da A Verdi, p. 527, 1997)
  • Dove?... Nel cielo d'Italia! | Dove?... Chiedetene al Sole! | Qui non c'è che questa pietra. | Stare e posare, non vuole: | balzò su con la sua cetra, | non è qui. (da A Verdi, 529, 1997)
  • Voi che sotterra cercate | l'ultimo Grande d'Italia; | – era l'ombra, e il giorno è sorto – | l'ultimo Grande d'Italia, | io vi grido, non è morto, | non è qui! (da A Verdi, p. 529, 1997)

Le canzoni di Re Enzio

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  • Esce il Carroccio e sta sotto l'Arengo. | Par che si levi un pianto dalle donne. | – Quando tu parti, nulla qui rimane: | restano solo i morti nelle chiese. [...] | Le donne in cuore hanno finito il pianto. – Quando tu parti, teco viene il tutto: | poniam su te tutte le vite nostre. | Le nostre vite porti uguali unite: | carico vai di grappoli e di spighe. [...] | La messa e il vespro sovra te si canta, | squillano a morte di su te le trombe. | No, non con noi restano nelle chiese | i Santi d'oro: escono teco in campo! | Nemmeno i morti nei muffiti chiostri | sono con noi: vengono teco al sole! | 'Vengono ai tocchi della Martinella, | che suona all'alba, a sera, a morto, a gloria. | o bel Carroccio, o forza arte ricchezza | e libertà comune! (da La canzone del carroccio, L'insegna del Comune)

Primi poemetti

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  • Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo. (dalla Prefazione)
  • I rondoni. Strillano in gruppi di quattro o cinque: in corse disperate, come pazzi. Fanno il nido nei buchi lasciati dalle travi. Ecco che io ho intorno casa anche i rondoni, popolo bellicoso e straniero, vestito di nero opaco. Ahimè! con le rondini non andranno d'accordo! saranno risse e guerre! (dalla Prefazione)
  • Sì: sonava lontana una campana, ombra di romba; sì che un mal vestito | che beveva, si alzò dalla fontana, | e più non bevve, e scongiurò, di rito, | l'impaziente spirito. Via via | si sentì la campana di San Vito. (da L'Angelus, vv. 1-6)
  • Tengono l'osso ancora (od uno stecco?) | le cinciallegre, piccoli mastini, | sotto le zampe, e picchiano col becco. (da La cincia, vv. 26-28)
  • Era nel bosco, nella reggia estiva | del redimacchia. Intorno udia beccare | gemme di pioppo e mignoli d'uliva. || E la macchia pareva un alveare, | piena di frulli e di ronzii. Ma ella | sentiva anche un frugare, uno sfrascare, || un camminare. Chi sarà? Ma in quella | che riguardava tra un cespuglio raro, | improvvisa cantò la cinciarella. (da La notte, vv. 20-28)
  • Non i loquaci spettator che suole, | avrà sui merli il volo de' rondoni | (uno svolìo di moscerini al sole || par di lontano sopra i torrioni | del castellaccio); e assorderà le mura | mute il lor grido, e i muti erbosi sproni! (da L'albergo, vv. 13-18)
  • C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole | anzi d'antico: io vivo altrove e sento | che sono intorno nate le viole || Sono nate nella selva del convento | dei cappuccini, tra le morte foglie | che al ceppo delle quercie agita il vento. (da L'aquilone, vv. 1-6)
  • L'altra sorrise. «E di': non lo ricordi | quell'orto chiuso? i rovi con le more? || i ginepri tra cui zirlano i tordi? | i bussi amari? quel segreto canto | misterioso, con quel fiore, fior di...?» || «morte: sì, cara». «Ed era vero? Tanto | io ci credeva che non mai, Rachele, | sarei passata al triste fiore accanto. || Ché si diceva: il fiore ha come un miele | che inebria l'aria; un suo vapor che bagna | l'anima d'un oblìo dolce e crudele.» (da Digitale purpurea, vv. 10-21)
  • Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino | ventoso: ognuno manda da una balza | la sua cometa per il ciel turchino. || Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza | risale, prende il vento; ecco pian piano | tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza. || S'inalza; e ruba il filo dalla mano, | come un fiore che fugga su lo stelo | esile, e vada a rifiorir lontano. (da L'aquilone, vv. 22-30)
  • Caro il mio grano! Quando il mio tesoro, | mando al mulino, se ne va, sì, questo; | ma quello nasce sotto il mio lavoro. | [...] | Tua carne è il pane – Ma tuo sangue, il vino – | Che odore sa l'odore di pan fresco! – E che cantare fa, cantar di tino! – (da Grano e vino, vv. 7-9, 26-28)
  • Parea che un carro, allo sbianchir del giorno | ridiscendesse l'erta con un lazzo | cigolìo. Non un carro, era uno storno, || uno stornello in cima del Palazzo | abbandonato, che credea che fosse | marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo! (da Italy, canto I, vv. 85-90)

Incipit di alcune opere

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Ai medici condotti

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Cari e valorosi cittadini,
Voi per pochi giorni siete tornati alla fonte, vi siete riabbracciati alla madre, vi siete ricongiunti alla vostra giovinezza. E la fonte vi mescé ancora la pura limpida salubre bevanda, e la madre vi mise a parte, con l'antico affetto, de' suoi umani studi, e la giovinezza, se non aveva, ahimè! più le volate speranze e i labili sogni d'un tempo, vi rinsaldò e rinvigorì tuttavia nei nobili cuori i severi e alti propositi dei vostri principii.

Il fanciullino

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È dentro noi un fanciullino[15] che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.

Le canzoni di Re Enzio

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La canzone del Carroccio

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Mugliano i bovi appiedi dell'Arengo.
Sull'alba il muglio nella città fosca
sparge l'odor del sole e della terra.
L'aratro appare che ricopre il seme,
appare il plaustro che riporta il grano.
Torri Bologna più non ha, che pioppi:
tra i suoi due fiumi, tremoli alti pioppi.

La canzone del Paradiso

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I bovi per l'erbita cavedagna
portano all'aia sul biroccio il grano.
Passa il biroccio tra le viti e li olmi,
con l'ampie brasche, pieno di covoni.
Sotto i covoni va nascoso il carro,
muovono i bovi all'ombra delle spighe.
La messe torna donde partì seme,
da sé ritorna all'aia ed alle cerchie.

La canzone dell'Olifante

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Fu il venerdì, ch'era dolore e sangue
e la battaglia al Prato delle rose.
Bello era il tempo e tralucente il giorno.
Enzio era volto a dove nasce il sole.
Di là! l'altr'anno, sorgere una stella
soleva, lunga, che parea selvaggia
del cupo cielo, e lo fendeva in fuga,
lasciando il segno come una ferita.

Citazioni su Giovanni Pascoli

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  • Anche Pascoli mi sembrava un poeta, certamente molto notevole, ma, molto, troppo dolciastro per il mio temperamento. Troppo sentimentale e troppo dolciastro: questa era l'opinione che mi facevo io. (Eugenio Montale)
  • Di fatto si determina nei tre [Giovanni Pascoli e le due sorelle minori Ida e Mariù] che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Garfagnana dove può oltre tutto mimetizzarsi con la natura. (Mario Luzi)
  • Entrare nell'orizzonte pascoliano, senza esserne complici, è un'esperienza simile a una tortura; ma, una volta entrati, fatto il primo passo, chiudere l'argomento e tagliare la corda è impossibile: le viscere pascoliane non hanno fine, perché non hanno forma. (Cesare Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, 1990, p. XXVII)
  • Giovanni Pascoli rimarrà per gli Italiani il grande lirico delle intime tombe familiari, come Ugo Foscolo è il grande cantore delle tombe che la Nazione conserva ai suoi figli immortali.
    Per questi nostri due sommi vati si completa la Italiana Lirica dei Sepolcri! (Guglielmina Ronconi)
  • La teoria del «verso libero» è l'alibi estetico della poltroneria. Il verso è sempre libero per i poeti veri, qualunque sia il metro che eleggono, ed esso si frange, si snoda, si isnellisce, s'afforza, s'affiochisce e dilegua per seguire i moti interiori dello spirito in armonia col vago ondeggiare dell'ispirazione..
  • Il Pascoli ha usato felicemente alcune combinazioni nuove di strofi, ma in fatto di versi è rimasto fedele alle forme ed ai numeri della tradizione. Avendo da rappresentare un mondo di sogni e di apparenze simboliche e volendo parlarci della foresta incantata, ove le piante sono vive di spiriti e nelle fontane cantano le silfi e le sirene, egli ha tolto ai metri italiani l'oro e il bronzo, la porpora e i pennacchi, l'andamento oratorio e la solita struttura. Tali metri al tocco della sua fantasia divennero cantanti, sognanti, fluidi, spirituali.
  • Se la natura è perenne mobilità, il verso pascoliano, così fluido, vario, duttile, sinuoso, è fatto per seguirne tutti i contorni, coglierne tutti gli attimi, renderne tutti i guizzi, dissolversi e ricominciare infinitamente come essa. Se la vita è sogno, e noi – come suona una sentenza shakespeariana – siamo fatti della stessa stoffa dei nostri sogni, il verso del Pascoli è la lira o il violino magico che conduce sui prati dell'Eliso la danza delle ombre.
  • Ma la meraviglia, il monstrum dell'arte pascoliana è per me l'endecasillabo, principalmente l'endecasillabo delle terzine. Che varietà, che ricchezza, che mobilità in quell'unica forma metrica! Che perenne gorgogliare di polle musicali sempre fresche e nuove! Quanta agilità nel piegarsi all'ondeggiare del sentimento, al mutar delle immagini, alle pause, ai tremori, ai sussulti dell'anima! Che infinita ricchezza nella povertà apparente! Non abbiamo già un solo tipo di verso, ma infiniti, a volontà del poeta.
  • L'opera del Pascoli segna, comunque, un momento memorabile nella storia della nostra arte poetica, perché prima che egli scrivesse ignoravamo di che infinita varietà di armonie, di che vitrea trasparenza di suoni, di che spirituali estenuazioni, di quali incanti e di quali musiche fossero capaci quei vecchi metri italiani, che tanti altri nostri poeti, classici o romantici poco importa, – i romantici furono classici anch'essi – avevano lasciati così saldi di struttura e precisi di ritmo, così sentenziosi e oratorii.

Note

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  1. Da Tolstoi, in Poemi italici.
  2. Nota bibliografica di Giovanni Pascoli per la sesta edizione di Myricae.
  3. Da Minerva oscura.
  4. Citato in Cesare Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, 1990, p. 47.
  5. Nota bibliografica di Giovanni Pascoli per la sesta edizione di Myricae.
  6. Da Il maestro e poeta della Terza Italia, in Patria e umanità, p. 380.
  7. Citato in Mario Biagini, Il poeta solitario, Mursia, 1963, p. 111.
  8. Da Alexandros, in Poemi conviviali.
  9. Da Il fanciullino.
  10. Da Il fanciullino.
  11. Dalla Lettera inviata al Comune di Catanzaro, 1899.
  12. Da una lettera indirizzata a Giosuè Carducci; citato da Nunzio Angiola nella Seduta della Camera del 16 febbraio 2022.
  13. Da Una sagra.
  14. Da Maggio, in Poesie famigliari.
  15. PLATONE, Fedro, 77 E. E Cebes con un sorriso, "Come fossimo spauriti", disse, "o Socrate, prova di persuaderci; o meglio non come spauriti noi, ma forse c'è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore di siffatte cose: costui dunque proviamoci di persuadere a non aver paura della morte come di visacci d'orchi."

Bibliografia

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  • Giovanni Pascoli, Ai medici condotti nella clinica di Sant'Orsola, Milano, Ed. il Giardino di Esculapio (Tip. N. Moneta), 1955.
  • Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, Rizzoli BUR, Milano, 1983.
  • Giovanni Pascoli, Il fanciullino, in "Saggi brevi", a cura di Franco Rella, Giorgio Agamben, Feltrinelli, 1982.
  • Giovanni Pascoli, Le canzoni di re Enzio, Nicola Zanichelli editore, Bologna, 1928.
  • Giovanni Pascoli, Myricae, Oscar Mondadori, 1967.
  • Giovanni Pascoli, Odi e Inni, Edizioni Mondadori.
  • Giovanni Pascoli, Patria e umanità, in Prose (Vol. I), Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1952.
  • Giovanni Pascoli, Poesie e prose scelte, (2 vol.), I meridiani, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 2002
  • Giovanni Pascoli, Poesie (Vol. I), Oscar Classici, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1997, ISBN 88-04-42323-4
  • Giovanni Pascoli, Poesie (Vol. II), Oscar Classici, Arnoldo Mondatori Editore, Milano 1997, ISBN 88-04-43805-3
  • Giovanni Pascoli, Primi poemetti, Ditta Nicola Zanichelli, Bologna, 1907.

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