Vai al contenuto

Giovanni Papini

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Giovanni Papini

Giovanni Papini (1881 – 1956), scrittore, poeta, saggista e terziario francescano italiano.

Citazioni di Giovanni Papini

[modifica]
Per approfondire, vedi: Dizionario dell'omo salvatico.
  • [La Pietà di Palestrina] Appare il gruppo, a un primo sguardo, una trinità del dolore. Nel Cristo un dolor soave; nella Madre un dolor contenuto; nel giovane un dolore attonito. Nel viso che fu divino si scoprono, specie se guardato di sotto in e di profilo, tracce visibili dello spirito che fino a poche ore innanzi lo illuminò: soprattutto la desolata dolcezza dell'amore non riamato.
    Il volto della corredentrice è chiuso e composto in augusta severità, ma non è spasimoso e stravolto come lo fanno, di solito, gli artisti cristiani. Michelangiolo va più a fondo nel cuor di Maria. Essa soffre come madre, ma gode come figlia. Il sacrificio più tremendo di Cristo – un Dio disceso e carcerato in carne d'uomo – è finito. [...] Il corpo di Lui è ancora stretto da corde e legami, al par di quello d'uno schiavo colpevole, ma lo spirito è già ricongiunto all'onnipotente gioia del Padre. [...] Più misteriosa è la terza figura che aiuta la madre a sorreggere il Figlio. [...] Per conto mio è San Giovanni, che Michelangiolo ha voluto associare a quella estrema fatica d'amore. Giovanni, il discepolo più amato e più amoroso, l'unico che fosse ai piedi della croce, quello al quale il morente affidò la Madre, quello che più a lungo d'ogni altro apostolo doveva sopravvivere al Maestro. Nei suoi lineamenti appena accennati v'è stupore più che disperazione; la consapevolezza d'essere il prediletto e l'ultimo diretto testimonio; la sicura fede di ritrovare e rivedere Colui che gli tenne il giovane capo sul cuore immortale.
    E così l'opera che sembrava trinità del dolore è invece trilogia di umano e divino conforto. La Pietà di Palestrina è suprema riconciliazione nell'amore.[1]
  • Ci furono guerre lunghissime. Ci furono guerre di sterminio: chi legge le imprese di Basilio il Bulgaroctono[2] può, se appena abbia il cuor tenero, più di una volta impallidire.[3]
  • Ci son di quelli che non dicon nulla ma lo dicono bene – ce n'è altri che dicono molto ma lo dicon male. I peggio son quelli che non dicono nulla e lo dicon male.[4]
  • [Replicando a giudizi malevoli su Vittorio Emanuele III] Come se un uomo non potesse avere le gambe corte e le idee lunghe. I più istruiti lo giudicano un omino per bene, buon padre di famiglia, che raccoglie le monete[5] e dà poche noie. Soltanto tra i più intelligenti e disinteressati ha qualche simpatia.[6]
  • Dicevo che Palazzeschi è grande e che il divertimento c'è per tutte le borse e per tutti i cervelli.[7]
  • Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidume di latte materno e lacrime fraterne. Ci voleva una bella annaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre.[8]
  • I cinematografi colla loro petulanza luminosa, coi loro grandi manifesti tricolori, e quotidianamente rinnovati, colle rauche romanze dei loro fonografi, gli stanchi appelli delle loro orchestrine, i richiami stridenti dei loro boys rosso vestiti, invadono le vie principali, scacciano i caffé, s'insediano dove erano già le halls di un réstaurant o le sale di un bigliardo, si associano ai bars, illuminano a un tratto con la sfacciataggine delle lampade ad arco le misteriose piazze vecchie e minacciano, a poco a poco, di spodestare i teatri, come le tranvie hanno spodestato le vetture pubbliche, come i giornali hanno spodestato i libri, e i bars hanno spodestato i caffè.[9]
  • Il Martini è disegnatore e nient'altro che disegnatore. Egli non pretende far quadri né aspira a eseguire decorazioni. I suoi unici strumenti sono la penna e la matita e non ha bisogno d'altre materie prime al di fuori della carta e dell'inchiostro. S'egli è qualcosa di più di un artefice, è un poeta, uno scrittore – un pensatore se volete. Ma in lui non c'è traccia di ricerca del colore. Un semplice e sicuro contorno; il crudo contrasto fra il bianchissimo e il nerissimo gli bastano. Al di là della linea e della massa tenebrosa egli non cerca altro. Tutta la sua opera è fatta di disegni e tutta la sua fama è fondata sopra la sua fecondità di disegnatore.[10]
  • [Dopo aver definito i caratteri che non appartengono all'artista romantico: serenità, realismo corretto, idealizzazione ottimistica delle cose e prudenza della fantasia] In questo senso Alberto Martini è il più romantico dei disegnatori italiani. Egli ama il riso e lo spavento, le smorfie dei buffoni e il ghigno dei demoni, le contorsioni dei corpi pallidi e le ombre delle spelonche. Le sue opere, sia che ci appaiano ricche di humour o di eleganza macabra, sono fra le più interessanti che i giovini italiani abbiano offerto negli ultimi anni per il nostro godimento e la nostra riflessione.[11]
  • Io ho creduto alla guerra nel 14 e nel 15 – ma dal 16 a ora la mia repugnanza e la mia disillusione son andate crescendo gigantescamente. E oggi, come te, maledico e condanno ciò che esaltai. [...] L'orrore ci ha insegnato quel che veramente siamo.[12]
  • [Alfredo Oriani] Io non l'ho conosciuto. Ebbi l'onore, nel 1905, di pubblicare un capitolo inedito della sua Ideale Rivolta nel Leonardo ma non lo vidi mai. Forse è stato meglio: non avremmo avuto il tempo di limare le punte delle nostre persone scontrose colla consuetudine lunga e familiare dell'intimità.[13]
  • La gioventù è nostalgica e profetica: rimpianto di ciò che non fu mai posseduto, desiderio di quel che non sarà mai nostro [...]. Ma pure è il solo tempo della vita in cui veramente si vive: se vita è fuoco, amore di grandezza, sete di perfezione, amore dell'amore. È il solo tempo in cui l'uomo sia come ferro bianco e duttile, pronto a colare nelle forme vili ma anche in quelle divine; non ancora rappreso per sempre nel duro congelamento dell'abitudine [...]. Tutto il rimanente della vita ci scalderemo alla braciglia lasciata dall'incendio della giovinezza.[14]
  • La guerra, infine, giova all'agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz'altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s'ammucchiarono i fanti tedeschi e che grasse patate si caveranno in Galizia quest'altro anno! E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita tra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un'arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa. Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione.
    Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai finché dura, La guerra è spaventosa e appunto perché e spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi. (Amiamo la guerra! in Lacerba, 1 ottobre 1914)[15]
  • La modestia è la forma più insulsa dell'orgoglio.[16]
  • La scuola fa molto più male che bene ai cervelli in formazione. Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per impararne molte altre da sé.[17]
  • Nel mondo dell'arte c'è una guerra sola: quella tra Circe e Orfeo. Tra Circe che trasforma gli uomini in bestie e Orfeo che trasforma i bruti in uomini.[18]
  • [Carlo Michelstaedter] Egli, al pari di pochissimi e rarissimi pensatori che lo hanno preceduto, s'è ucciso per accettare fino all'ultimo, onestamente e virilmente, le conseguenze delle sue idee — s'è ucciso per ragioni metafisiche.[19]
  • Recinto di mandragola | di malve e di narcisi | scende al suo Mugello | l'incantatore Lisi. Parroco di campagna | dice colui che sa | e invece non è vero: | è frate di città.[20]
  • Se Roma ti ha fatto scrivere l'Ora di Barabba, Parigi t'ispirerebbe l'Ora di Lucifero — o forse l'Ora d'Iddio. Perché Parigi, in fondo, è più morale e cattolica di quel che non si creda da lontano. La maggior parte della gente è massa borghese che lavora dalla mattina alla sera per guadagnar soldi — l'Industria del Vizio fa parte dell'Industria dello Straniero ed è esercitata in gran parte da stranieri.[21]
  • Un delitto vien punito quand'è piccolo ed esaltato e premiato quand'è grande.[22]
  • Un uomo verrà certamente, fra molti anni, in una calma sera d'estate, a chiedermi come si può vivere una vita straordinaria. Ed io gli risponderò certamente con queste parole: Rendendo abituali le azioni e le sensazioni straordinarie e facendo rare le sensazioni e le azioni ordinarie.[23]
  • Verso la mattina tutte le stelle sparse per il cielo si coagulano insieme, lasciando l'argento per l'oro allo scopo di formare l'unico sole. La notte è individualista e il giorno è monarchico.[24]

Il diavolo

[modifica]

V'è, nel mondo delle grandi religioni, un Essere a parte, che non è bruto, né uomo, né tanto meno Dio.

Citazioni

[modifica]
  • Dio è ateo.
  • L'imbecillità dei filosofi «profondi» è così immensa che è superata soltanto dall'infinita misericordia di Dio.
  • L'Inferno non è che il Paradiso capovolto. Una spada riflessa nell'acqua prende figura di croce.
  • Si può entrare nel regno di Dio anche dal nero portale del peccato.

Il sacco dell'orco

[modifica]
  • Anche la giovinezza è una malattia ma chi non ha sofferto questo male sacro non ha vissuto.
  • Il vecchio è indicibilmente solo, come il nascituro.
  • Quando capita una grande amnistia v'è chi si pente di non aver commesso a suo tempo un delittuccio che non sarebbe costato nulla.
  • Se gli scrittori non leggessero e i lettori non scrivessero, gli affari della letteratura andrebbero straordinariamente meglio.

La spia del mondo

[modifica]

L'UNIVERSO COME RIVELAZIONE

Fratellanza col sole
È questo il momento presegnato, credetemi, per verificare i nostri rapporti col sole. Poiché non siamo, insomma, che bruscoli intiepiditi provenienti dal sole non sapremo bene ciò che sia il sole e che cosa sia l'uomo se non dimentichiamo il legame che unisce il primo dei primati al patriarca della famiglia solare.
I moralisti credono di conoscere l'uomo; gli astronomi credono di conoscere il sole. I secondi s'illudono meno dei primi. Molto sanno, in verità, del sole ma soltanto della sua apparenza, della sua sostanza e della sua attività, cioè della sua vita fisica, esteriore.

Citazioni

[modifica]
  • L'uomo, fra tutti gli esseri che sono in terra, è il solo che si sforzi d'imitare il suo padre antico, che tenti di tornare, nei suoi più vivi ed alti momenti, allo stato del sole o almeno di assomigliarsi a lui. (p. 23)
  • La Luna, per colui che pensa in termini di eternità, è il fulgente memento mori che Dio ripete ogni giorno alla «gran madre antica». (p. 27)
  • Quando noi camminiamo, indifferenti o frenetici, sulla superficie della terra, noi calpestiamo, in verità, quel che fu, un giorno, carne sensibile di esseri vivi. (p. 29)
  • Il mare è un nemico che gli uomini si sforzano di amare. (p. 30)
  • Nell'universo rinnovato da Cristo secondo spirito e verità non c'è posto per il mare; il mare era un di più; un avanzo della prima creazione, ora obliterata. La terra sarà tutta terra e tutta umana e gli uomini cercheranno l'infinito e la libertà soltanto nello splendore senza confine del cielo rifatto. (p. 35)
  • La falena è innamorata di ciò che fa paura alla tigre. Ma l'uomo – fiera destinata a diventar farfalla angelica – è nello stesso tempo sbigottito e attirato dal fuoco. (p. 42)
  • Quando il diavolo di Goethe dice: «se non mi fossi riservata la fiamma non avrei nulla per me» mentisce come sempre. Neppure la fiamma appartiene all'eterno Diseredato. Come Dio s'è riservato, tra i giorni, quello del riposo e tra i liquori della vita il sangue Egli ha preso per sé, tra gli elementi, l'amorosa tremendità del fuoco. (p. 44)
  • L'incendiario è l'ateo che non ha saputo trovar Dio in se stesso e che lo cerca, per la via del delitto, nel simbolo fisico ed esteriore. Forsennato a somiglianza del mistico, di cui è l'antitesi, e non potendo incendiar d'amore l'anima sua per ricongiungerla al fuoco supremo, egli dà fuoco alle cose consumabili e gode in cuor suo nel contemplare le fiamme nate dalla sua vendetta. E come tutti gl'idolatri adora l'apparenza e non la sostanza d'Iddio. (pagg. 48-49)

Il mondo visto dal poeta

[modifica]
  • È certo la primavera la stagione più triste dell'anno. Ondeggia, incespicante e trasognata tra la bianca severità dell'inverno e la focosa maestà dell'estate, come una «donzelletta» acerba che non è più vera bambina e non è ancora donna fatta. È ridotta, perciò, alle malfide risorse del doppio gioco. In certi giorni un baccanale di sole indora e accende tutte le cime e tutte le superfici, e un'improvvisa afosità simula ipocritamente la gialla offensiva del giugno. Ma poi, il giorno dopo, sipari di nuvolone seppiacee si calano sugli orizzonti come gramaglie, il vento settentrionale uggiola e morde, i piovaschi impazziscono in furori diluviali, i fiumi aprono brecce nelle ripe, sui monti si ammonta un'altra volta la neve, tardiva ed intempestiva, e le prime erbe dei prati, stupite e strapazzate, vorrebbero rientrare sotto la terra. Passata la furia boreale, tornano le giornate grigie e accidiose, con qualche golfo di azzurro che subito si richiude, le strade fradice e sudice, i muri bollati di gore umide, i fossi colmi d'acqua lotosa. Eppoi, in pochi meriggi, tutto s'asciuga, tutto s'infiamma, tutto arde, tutto si riscalda e ci s'accorge, con mortificante sorpresa, che la primavera è finita, senza aver potuto godere, meno che pochi istanti, le sue incantate e decantate meraviglie. (pagg. 55-56)
  • Era la primavera, secondo le favole antiche, la stagione de' rinnovati o comincianti amori: e anche questa è leggenda. Gli uomini, più insaziabili delle bestie, non hanno più, e forse non hanno mai avuto, una sola stagione per la cocenza dell'amore. E semmai l'hanno trasferita all'incandescente estate: già l'antichissimo Esiodo aveva notato che nell'agosto son più lascive le donne. Ma tutti i mesi, per l'uomo, sono ugualmente propizi, tanto più che l'amore entusiasmo, l'amore passione, l'amore pazzia, ai quali si riferivano i poeti e i trattati di Eros, vanno velocemente scomparendo dagli animi e dai costumi dei nostri popoli inciviliti fino all'imbecillità e oltre. (p. 59)
  • L'ardente solitudine non annulla la possibilità degli amori. (p. 61)
  • La vampa favorisce la caparbia volontà della specie. Sembra che ogni vivente non abbia altro fine che quello di generare viventi simili a sé, senza curarsi se gli intervalli tra le successive creazioni siano odiosi o portentosi. (p. 61)
  • I giorni di settembre sono, fino all'ultimo meriggio, ariose e melodiose strofe classiche che all'avvicinarsi della notte diventano troppo buiosamente romantiche. (p. 64)

I figli del quinto giorno

[modifica]
  • [...] La pelle di Simba, del superbo imperatore della foresta africana, fu inondata e lordata dalla bava di quei due cuccioli dell'uomo di città. Finché divenuta troppo sordida e putente perfino per il non delicato olfatto della portinaia, fu sdegnosamente buttata sopra un monte di spazzatura, dove ebbe finalmente termine la sciagurata e immeritata infamia del re prigioniero.
    Tale è spesso la miseranda sorte degli esseri migliori e non soltanto fra queli che nacquero, leoni, sulle sponde erbose di un gran fiume. (p. 88)
  • Nel nostro mondo nulla muore o sparisce interamente e definitivamente e così un rito magico preistorico è contemporaneo, presso un popolo civile, delle più ardite applicazioni della fisica modernissima. (p. 90)
  • L'omicidio, come tutti possono osservare leggendo le storie recenti e i giornali di ogni mattina, è sempre più fiorente tra i popoli di razza bianca. Qualunque motivo o pretesto è buono per sopprimere i nostri simili: la gelosia o la politica, la vendetta o il lucro, la punizione dei delinquenti o l'amore non corrisposto, la speranza di un premio o l'accecamento del furore, l'assillo del guadagno sognato o il sadismo sessuale, senza contare le carneficine di massa delle insurrezioni, delle fucilazioni e delle invasioni e neppure quegli omicidi gratuiti e perfetti venuti di moda attraverso la letteratura europea negli ultimi decenni.
    Si vedono ogni giorno innamorati che uccidono le amanti, mogli che uccidono i mariti, mariti che uccidono le mogli, padri che uccidono i figli, figli che uccidono i genitori, fratelli che ammazzano i fratelli, ladri che ammazzano i derubati, criminali che sopprimono i poliziotti, poliziotti che sopprimono i criminali e perfino fanciulli e adolescenti che per gioco o per gola di pochi soldi strangolano e sgozzano i loro coetanei. Gli stati non sono meno risolutamente omicidi dei cittadini che li compomgono: le guerre di sterminio sono ancora frequenti e in quasi tutti i paesi cristiani i codici ammettono solennemante il diritto di contravvenire a uno dei più antichi e perentori comandamenti di Dio. Anche ai tempi nostri come in quelli delle «Soirées de St. Petersbourg» di Giuseppe de Maistre c'è sulla terra un perenne «ruissellement de sang». (pagg. 92-93)
  • [...] le fiere selvatiche e i mammiferi giganti son vendicati, sempre, dagli animali più microscopici che esitano, da quei microbi che prosperano nel corpo umano e che, alla fine, nella maggior parte dei casi, lo intossicano, lo divorano e lo spengono. Strano e singolare contrappasso, gli esseri infinitesimi e invisibili puniscono con la morte gli uccisori dei loro fratelli colossi. Gli umili, che son legione, fanno giustizia dei mediocri che ammazzano i potenti. (p. 93)

Gli ultimogeniti

[modifica]
  • L'uomo non è che un quadrupede riottoso e maligno che, a forza di superbia, riesce a star ritto sulle zampe di dietro. (p. 97)
  • – Chi aspira ad innalzarsi al di sopra della terra [...] è segno che in altri tempi ebbe le ali oppure che è destinato, in un lontano futuro, ad averle. (p. 98)
  • Medievali debbono essere i versicoli latini che trovai, non so più dove, e che mi sono rimasti, non so come nella memoria.

    Homo? Humus
    Fama? Fumus
    Finis? Cinis.

    Con terribile brevità qui è contenuta la storia terrena di tutti gli uomini, anche dei sommi e dei gloriosi. [...] Nella poesia moderna non conosco nulla che sia ugualmente laconico e pauroso, all'infuori dei quattro versicoli popolari che da qualcuno sono attribuiti a Verlaine:
    Les marionettes
    Font, font, font
    Trois petits tour
    Et puis s'en vont
    .
    Più profondamente e crudelmente è incisa l'umana sorte nei versi latini che mettono sotto gli occhi, con spietata evidenza, l'umiltà originaria e la distruzione finale, mentre nei versi francesi c'è qualcosa del teatrino bambinesco e soprattutto un senso comico ed ironico. Nel medioevale c'è il solenne epitaffio sul gran cimitero del mondo; nel moderno un semplice scherzo funebre sul palcoscenico dei burattini che si credono vivi. (pagg. 98-99)
  • L'uomo può esser più bestiale delle bestie, più porcino dei porci, più tigresco delle tigri, più velenoso dei serpenti, più flaccido dei vermi, più appestante di una carogna, ma è pur capace di spaziare con la mente fino agli ultimi confini del mondo, di misurare le stelle più remote, di scoprire i principi che reggono la natura, di assoggettare le forze della materia, di giudicare con la stessa morale gli stessi dei, di creare il Partenone e la cattedrale di Chartres, la Cappella Sistina e la Quinta Sinfonia, l'Odissea e la Divina Commedia, l'Amleto e il Faust. (p. 100)
  • L'esistenza dell'uomo è una delle più sicure prove dell'esistenza di Dio. (p. 101)
  • Umano progresso
    In principio erano i mezzomini, cioè mezze bestie che però, con l'andar del tempo, diventarono, almeno in parte, grandi uomini, cioè eroi.
    Nei tempi moderni sono spariti via via i gentiluomini, i galantuomini e finalmente son quasi scomparsi perfino gli uomini.
    Ora son rimasti sulla scena i sottomini che stanno fantasticando intorno ai superuomini. (p. 101)
  • Ogni uomo, anche celebre, anche famoso, anche glorificato in vita, è uno sconosciuto e rimane per sempre sconosciuto a tutti, a quelli che lo procrearono, a quelli che lo amarono, a quelli che lo odiarono, a quelli che lo ammiravano e perfino – ed è la più grave sentenza del destino – rimane quasi ignoto anche a se stesso. (p. 102)
  • Nella chiesa orientale alcuni teologi moderni, tra i quali Berdiaef, hanno proclamato che la figura dell'uomo è coeva di quella di Dio, in quanto la Seconda Persona, cioè Cristo, ha sempre avuto in sé l'immagine umana, ed è anzi l'uomo perfetto ab aeterno. Ma questo non vuol dire che il genere umano al quale apparteniamo non abbia avuto principio e non sia il frutto di un atto creativo.
    Non voglio finire senza riferire la curiosa dichiarazione di un mio vecchio amico scultore, eccellente scultore ed eccellente amico. Tutte le volte che egli discorre con me o con altri, sulla vita e sulla morte, conclude sempre con queste apocalittiche parole: io non morirò mai per la semplice ragione che non sono mai nato. (pagg. 104-105)
  • I medici sono più pericolosi delle malattie, ma le medicine sono ancor più pericolose dei medici. (p. 107)
  • L'uomo si vendica col riso di coloro dei quali non può fare a meno nei giorni del tremore, del dolore e del terrore. (p. 109)
  • La bellezza è un dono della pietà divina. (p. 110)
  • Tùndalo, filosofo impossibilista, scandagliava un giorno il suo viso nella specchiera di una locanda e diceva fra sé: «Vedo due sopraccigli, due occhi, due narici, e due orecchi. Perché mai Dio ci ha dato una sola bocca? Eppure io penso che ci vorrebbe una bocca per divorare, per mordere, per vomitare e per urlare e un'altra bocca per sorridere, per baciare e per cantare». (p. 112)
  • Il Renouvier – filosofo assai noto nel passato secolo – immaginò che Dio avesse creato un mondo perfetto e che gli uomini, stolti e perversi, l'abbiano ridotto come ora si vede.
    Fantasia poco persuadente e molto irriverente ma che oggi – scendendo dall'ordine teologico a quello storico – appare meno fantastica che a prima vista non sia. (p. 113)
  • Mi accorgo di non aver detto le cose che più mi premevano e solo una piccola parte di quelle che avrei voluto dire in modo che dopo avere adoprato senza risparmio carta e inchiostro per mezzo secolo son costretto a riconoscere che il più e il meglio della mia mente e della mia anima è rimasto dentro di me e rimarrà probabilmente ignoto per sempre. (p. 133)

Ave Eva

[modifica]
  • La vita umana si riduce tutta a errori e rinunzie. Finché siamo giovani gli errori son più numerosi delle rinunzie; nella vecchiaia aumentano le rinunzie ma non per questo diminuiscono gli errori. (p. 135)
  • Ogni idea, per quanto assurda sembri al primo suo apparire, è una favilla che, con l'andar del tempo, incendia il mondo. (p. 139)
  • La vita non è illusione né finzione ma i sogni e le illusioni fanno parte della vita, son elementi essenziali della realtà; sono la più alta e degna e nobile espressione della vita.
    Il sogno non è sogno ma è vita. (p. 146)
  • [...] E si potrebbe con eguale approssimazione affermare che nulla nel mondo umano è permesso, perché non c'è azione o manifestazione degli uomini che non sia vietata da qualche legge divina o umana, scritta o tacita, giuridica o rituale, filosofica o politica.
    Se uno di noi fosse scrupoloso, guardingo e remissivo fino al punto di osservare fedelmente tutte le norme e le regole dei codici, dei decaloghi, dei galatei e simili, costui non potrebbe mai muovere foglia perché anche negli atti considerati più innocenti correrebbe il rischio di infrangere un antico precetto sacerdotale o di contravvenire a un semplice regolamento municipale. (p. 158)
  • Se i cristiani credessero effettivamente a Cristo farebbero il più delle volte il contrario di ciò che fanno e sarebbero l'opposto di quel che sono in quasi tutte le ore della vita cioè superbi, avidi, avari, vendicativi, violenti, carnali e bestiali.
  • La felicità non accompagna mai né la potenza né il genio né la bellezza, benché questi tre doni siano i più desiderati dalle creature umane. Eppure la felicità è uno dei sogni più comuni degli uomini e molti credono conseguirla attraverso quei tre beni che invece la fanno impossibile. E siccome la felicità può essere difficilmente ottenuta dai deformi, dagli imbecilli e dai deboli risulta chiaramente che la chasse au bonheur che, secondo Stendhal, era la grande occupazione della vita, equivale alla caccia del liocorno o della fenice. (pp. 164-165)
  • Se consideriamo tutta la terra abitata si vedrà che le moltitudini di quelli che vivono a spese del male – cioè della sventura e del peccato – sono, contando anche quelli che fanno parte della loro cerchia, sterminate e immense. Ho calcolato per mio conto che un quarto almeno dell'umanità vive alle spalle della malattia e del delitto. (p. 166)
  • Non è vero sempre che la sventura genera sventura: molte volte essa non è che il pagamento anticipato di un dono che vale assai più della caparra. (p. 166)
  • Ridere significa aver paura. L'uomo è «l'animale che ride» perché lui solo sa di dover morire.
  • Tutto ciò che è davvero desiderabile è per gli uomini impossibile; tutto ciò che è possibile abbassa o delude, cioè non è desiderabile. (p. 182)
  • La riconoscenza del beneficato arriva difficilmente fino al punto di perdonare al suo benefattore. (p. 187)
  • L'adulatore è colui che dice – senza pensarle – le cose medesime che l'adulato pensa di sé – senza avere il coraggio di dirle. (p. 187)
  • Disgraziatamente coloro che dicono male di noi lo dicono quasi sempre assai bene mentre coloro che dicono bene di noi lo dicono quasi sempre piuttosto male. (p. 187)
  • La malizia è una musa più efficacemente ispiratrice che non l'amicizia. (p. 187)

Storia di Cristo

[modifica]

Da cinquecent'anni quelli che si dicono «spiriti liberi» perché hanno disertato la Milizia per gli Ergastoli smaniano per assassinare una seconda volta Gesù. Per ucciderlo nei cuori degli uomini.
Appena parve che la seconda agonia di Cristo fosse ai penultimi rantoli vennero innanzi i necrofori. Bufoli presuntuosi che avevan preso le biblioteche per stalle; cervelli aerostatici che credevano di toccare le sommità del cielo montando nel pallon volante della filosofia; professori insatiriti da fatali sbornie di filologia e di metafisica si armarono – l'Uomo vuole! – come tanti crociati contro la Croce. Certi frottolanti svolazzatoi fecero vedere in candela, con una fantasia da far vergogna alla famosa Radeliffe, che la storia degli Evangeli era una leggenda attraverso la quale si poteva tutt'al più ricostruire una vita naturale di Gesù, il quale fu per un terzo profeta, per un terzo un negromante e per quell'altro terzo arruffapopoli; e non fece miracoli, fuor della guarigione ipnotica di qualche ossesso, e non morì sulla croce ma si svegliò nel freddo della tomba e riapparve con arie misteriose per far credere d'esser risuscitato. Altri dimostravano, come quattro e quattro fa otto, che Gesù è un mito creato ai tempi d'Augusto e di Tiberio e che tutti gli Evangeli si riconducono a un intarsio inabile di testi profetici. Altri rappresentarono Gesù come un eclettico venturiero, ch'era stato a scuola dai Greci, dai Buddisti e dagli Esseni e aveva rimpastato alla meglio i suoi plagi per farsi credere il Messia d'Israele. Altri ne fecero un umanitario maniaco, precursore di Rousseau e della divina Democrazia: uomo eccellente, per i suoi tempi, ma che oggi si metterebbe sotto la cura d'un alienista. Altri, infine, per farla finita per sempre, ripresero l'idea del mito e a forza di almanaccamenti e comparizioni conclusero che Gesù non era mai nato in nessun luogo del mondo.

Citazioni

[modifica]
  • La non resistenza al male repugna profondamente alla nostra natura. (p. 144)
  • Nulla è più comune tra gli uomini che della bramosia delle ricchezze. (p. 145)
  • Tutta la storia degli uomini non è che il terrore della secondità. (p. 145)
  • L'avarizia degli uomini è tanto grande che ciascuno s'ingegna quanto può di prender molto dagli altri e di render poco. (p. 147)
  • L'odio verso sé stessi e l'amore verso i nemici è il principio e la fine del Cristianesimo. (p. 148)
  • Amare i nemici è l'unica via perché non resti sulla terra neanche un nemico. (p. 148)
  • Il mondo antico non conosce l'Amore. Conosce la passione per la donna, l'amicizia per l'amico, la giustizia per il cittadino, l'ospitalità per il forestiero. (p. 161)
  • Nel più nobile mondo eroico dell'antichità non c'è posto per l'amore che distrugge l'odio e piglia il posto dell'odio, per l'amore più forte della forza dell'odio, più ardente, più implacabile, più fedele; per l'amore che non è oblio del male ma amore del male – perché il male è una sventura per chi lo commette più che per noi – non c'è posto per l'amore dei nemici.
    Di questo amore nessuno parlò prima di Gesù: nessuno di quelli che parlarono d'amore. Non si conobbe quest'amore fino al Discorso sulla montagna. (p. 163)
  • L'idea di Gesù è una sola, questa sola: trasformare gli Uomini da Bestie in Santi per mezzo dell'Amore. Circe, la maga, la consorte satanica delle belle mitologie, convertiva gli eroi in bestie per mezzo del piacere. Gesù è l'antisatana, l'anticirce, colui che salva dall'animalità con una forza più potente del piacere. (p. 165)
  • La tristezza del discendere è il prezzo pattuito della gioia del salire. (p. 178)
  • Il matrimonio è una promessa di felicità e un'accettazione di martirio. (p. 198)

Testimonianze

[modifica]
  • [...] si può essere poeti poco nuovi come fondo eppur poeti grandi, cioè nuovi nella potenza e magnificenza delle parole. Il Guerrini purtroppo, e me ne dispiace perché fu un brav'uomo e doveva esser molto simpatico, non fu nuovo e grande neanche a questo modo. Di versi suoi che resistano come materia prima, come forza di creazione verbale, come struttura o sonorità singolari ce ne son pochi per non, dir punti. Lo Stecchetti è chiaro, logico, scorrente, improvvisatore; i suoi versi si ricordano facilmente e si cantano senza volere. Anzi a queste qualità, io credo, e insieme al sentimentalismo sensuale che piace a tutti, egli dovette la sua grande fortuna. Trentadue edizioni di Postuma in meno di quarant'anni son molte – senza contare le contraffazioni. Qual' è il libro di poesia moderna italiana, anche superiore a quello, che si sia venduto altrettanto? Ma in questa medesima facilità di spaccio sta, disgraziatamente, la sua condanna. (p. 38)
  • Si racconta, e ci credo, che in un fumatoio sciccoso dove sdraiati chilificavano alcuni fondachieri e manifattori milanesi, fosse domandato a un professore di letteratura che fa, per eccezione, dell'ottima letteratura: – Ma è proprio vero, dunque, che il nostro Bertacchi è un poeta sul genere di Dante e meglio di D'Annunzio?
    È probabile che il domandato rispondesse con un sorriso o una spallata. Chi sa qualcosa di poesia ed ha annusato anche da lontano la rimeria funerea ed inamabile che il Bertacchi spaccia per poesia lo troverà anche troppo remissivo. (p. 57)
  • Govoni è un ragazzone felice che passa per la città e la natura come attraverso una fiera dove tutto gli piace e tutto brilla e tutto vuole – e compra ogni cosa col suono e il colore e la lucentezza delle immagini da lui stesso, secondo il bisogno, coniate. Per lui la poesia é un bisogno naturale e quotidiano come il bere e il dormire e quasi fosse un bambino che avesse imparato, per miracolo, a scriver bene, vede tutto il mondo con occhi improvvisatori, sotto l'angolo poetico e lo fissa istantaneamente con parole dolci come baci, leggere come l'aria, nostalgiche e malinconiche come gli organetti di Barberìa, a lui così cari quando suonano, soli, nelle strade sole. (pp. 82-83)
  • [Johann Gottfried Herder] L'impressione generale che resta di lui è quella d'un eterno predicatore, d'un sermonista ambizioso con velleità di esser guida del suo tempo e della sua letteratura e, sull'ultimo, con acidità di uomo non riuscito e oltrepassato. (p. 286)
  • [Johann Gottfried Herder] Tale la vita e l'opera di questo prussiano pedagogo dilettante e predicatorio, che s'occupò di filosofia senza portarvi un'idea propria e di poesia senza capirla, e che dopo aver scorrazzato su tutte le montagne del sapere con i suoi scarponi teutonici e la sua mazza di ludimagistro non seppe far altro che riportare a casa un mazzo di fiorellini appassiti: mi pare che i tedeschi potrebbero farla finita di metterci ancora dinanzi come creatore della filosofia della storia un uomo il quale, venuto dopo Bossuet, Montesquieu, Voltaire e Vico, non ha saputo aggiungere un principio nuovo e, quando ha voluto correggere gli altri, è cascato in pieno nell'imbecillità e nel ridicolo. (pp. 293-294)
  • La specialità di Maeterlinck nella letteratura contemporanea è la manipolazione del mistero ad uso delle anime delicate. Egli crea dei piccoli enigmi per darne poi tre o quattro soluzioni contemporanee; suscita delle piccole angoscie; gioca coi brividi e coi sussulti; prepara degli angoli di oscurità per potervi passeggiare con un lanternino in mano e l'indice sui labbri; inventa dei problemi terribili per scioglierli nel modo più amabile. È una specie di Puck austero; un clown puritano; uno gnomo religioso. (pp. 324-325)
  • Maurizio Maeterlinck, ch'è abbastanza mediocre come poeta, non ha neppure, a dispetto dei suoi adulatori francesi e tedeschi, una grande attitudine alla metafisica. È un occultista da salotto, un moralista per signore anziane, un filosofo sciroppato, un religioso senza fede, uno scienziato senza chiarezza, un poeta senza immaginazione, un casuista di coscienze disoccupate, un fachiro di prodigi domestici. Leggerlo dopo un grande filosofo è lo stesso che fumare una pipa d'oppio dopo un'ascensione in montagna – leggerlo dopo un grande poeta è come bere una tazza di camomilla dopo un bicchiere di vino vecchio.

Un uomo finito

[modifica]

Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.
Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell'innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che cosa son mai? Non le conosco e non le rammento. L'ho sapute soltanto dai libri, dopo.[25]

Citazioni

[modifica]

Citazioni su Un uomo finito

[modifica]
  • Occorreva qualcosa per rimettermi in accordo con me stesso. Ieri sera l'ho scoperta: Papini. A me non importa se è sciovinista, o un meschino bigotto o un pedante di vista corta. Come fallito è una meraviglia. (Henry Miller)

Incipit di Chiudiamo le scuole

[modifica]

Diffidiamo de' casamenti di grande superficie, dove molti uomini si rinchiudono o vengono rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali, Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la morte – contro lo straniero – contro il disordine – contro la solitudine – contro tutto ciò che impaurisce l'uomo abbandonato a se stesso: il vigliacco eterno che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla sua tremebondaggine.[28][29]

Citazioni su Giovanni Papini

[modifica]
  • Agostino non è un autore qualsiasi. In lui si trova tutto: c'è il giovanotto che conosce un'esistenza brillante e c'è il santo; è un cittadino del mondo e non soltanto un colto, inoltre è moderno perché le sue pagine lo fanno sentire ancora vivo nelle idee. Papini sosteneva che è uno degli uomini che non riescono a morire. (Agostino Trapè)
  • Chi concepisce la religione come una consuetudine di riti ed un insieme di formule non può comprendere il valore della conversione di Papini, che poi non è una conversione, ma un moto di reazione interiore, che rappresenta nella vita dell'artista il passaggio da una torbida e trista giovinezza indifferente e indecisa a una commossa comprensione del cristianesimo. (Renato Fondi)
  • Confesso d'aver letto ciascuno dei 30 volumi di Papini almeno tre volte (e lo confesso pur sapendo che certi idioti di spirito torneranno a gridare al mio "papinismo"). Continuo ad amare tutto quanto Papini, così com'è. Credo che non vi sia miglior elogio che si possa fare a uno scrittore che quello di confessare d'amarlo interamente anche se da lui ci separano le idee, il temperamento e i princìpi religiosi o morali. Dietro quei 30 volumi c'è un uomo maledettamente vivo e integro. Le migliaia di libri che ha letto non l'hanno cambiato. Le idee che ha promosso e abbandonato una dopo l'altra non l'hanno inaridito. La vastità della sua opera non è riuscita a bloccarlo, a paralizzarlo, a consegnarlo completamente alla storia morta. Nessuno nel nostro secolo, neppure André Gide, ha affrontato tante esperienze e lottato su tanti fronti. E mentre Gide non poteva mai astenersi da quel concetto di malintesa "gratuità", Papini si immedesimava tutto in quello che faceva al momento. Amava e odiava con passione, con ogni fibra del suo corpo, a riprova di una vitalità e di uno spessore spirituale rari. Oggi che un'intera classe di uomini pratica il compromesso per paura di esporsi, l'esempio di Papini può ridiventare attuale. È un uomo che non si vergogna dei suoi errori. Un vero segno del genio. Solo gli sterili e i mediocri si preoccupano della perfetta coerenza dei propri pensieri, e sono ossessionati dalla paura di sbagliare. Papini ha sbagliato, si è furiosamente contraddetto e compromesso. Eppure della sua opera è rimasto più di ogni "opera" perfettamente delineata, messa a punto e corretta dalla prima all'ultima pagina. (Mircea Eliade)
  • Io ho molta stima dell'ingegno del Papini, ma noto con dispiacere in lui una smania, che diventa sempre più violenta, di mostrarsi originale, a ogni costo. Ora originali, per forza, non si può essere: si è o non si è. Chi vuol essere per forza originale, riuscirà strambo, strano, stravagante e nient'altro. Io credo che il Papini abbia originalità, cioè un suo proprio modo di vedere, di pensare, di sentire, e un proprio modo quindi d'esprimersi; tanto più dunque mi dà noja e dolore vedergli gonfiare certi paradossi come vessiche per darli in testa alla povera gente e stordirla. (Luigi Pirandello)
  • Papini è di queste personalità [dissimili dal mio spirito]: uomo che ha trovato – dopo una distillazione cerebrale della realtà vitale, e un inzuppamento nel fiume delle impressioni, ora filosofo – testa al di sopra delle nuvole – ora critico – minatore infelice nelle viscere della realtà – (per vedere, il tutto, prima; il particolare, poi) – la sua salvezza nella poesia.
    Respiriamo dell'aria rarefatta, e naufraghiamo in tenebre sotterranee – ma dopo, caduta di valanga, schianto d'anima: ecco la tragedia. Papini è l'incarnazione di un conflitto – che non è rimastichìo letterario, travaso di spirito – ma fatto di coscienza, doloroso tentativo di scavalcare la vita, dopo un esperimento di sfoghi, per calmarsi, di bagni in ondate liriche per illimpidirsi.
    Tenuto curvo e fermo sul suo cammino dalle conseguenze ultime della sua idea filosofica, mentre tutto vive e tende alla vita, sente che l'arte non è un oblìo, un'atmosfera armoniosa di dimenticanze, ma un colorito, austero, avvincente, movimentato ricordarsi; non ripiegamento ma attività di tutte le facoltà. (Renato Fondi)
  • Papini, padre dello scandalo, del poeta cicerone che le dolcezze finocchie di ... condusse per gli orti del bene e del male tra famigliari serponi e coccodrilli, macabro spaventapasseri, impuro ciarlatano di piazza della poesia. Chi più tollererà le sue delicatezze di sbirro? (Dino Campana)
  • Passando davanti alle Giubbe Rosse, che allora erano i Portici d'Academo e i Giardini di Epicuro della intelligenza fiorentina, potei contemplare con venerazione, oltre i vetri, la magnetica fluidità del corpo di Giovanni Papini, che svolgendo allora la sua rapida "esperienza futurista", dettava un articolo per Lacerba, il giornale della maturità del futurismo. (Massimo Bontempelli)
  • Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato. (Jorge Louis Borges)
  • Tu [Prezzolini] e Papini avete insegnato tante cose in mezzo secolo e negli ultimi tempi ancor più che nei primi: tutta Italia dovrebbe esservene grata. (Marino Moretti)
  • Una figura unica, insostituibile, a cui tutti dobbiamo qualcosa di noi stessi. (Eugenio Montale)
  • Uomo di certezze, Papini non si è fatto catturare dalle mode. Non ha navigato nella ambiguità dei compromessi. Le tensioni dialettiche e le ricerche problematiche non hanno mai inquinato il suo possesso della sua verità. (Francesco Grisi)
  • Papini è cattolico e anticrociano; le contraddizioni del suo superficiale scritto risultano da questa doppia qualità.
  • Papini è sempre stato un «polemista» nel senso che dice il Volpicelli, e lo è ancor oggi, poiché non si sa se nell'espressione «polemista cattolico» a Papini interessi più il sostantivo o l'aggettivo. Col suo «cattolicismo» Papini avrebbe voluto dimostrare di non essere un puro «polemista», cioè un «calligrafo», un funambolo della parola e della tecnica, ma non c'è riuscito! Il Volpicelli ha torto nel non precisare: il polemista è polemista di una concezione del mondo, sia pure il mondo di Pulcinella, ma Papini è il polemista «puro», il boxeur di professione della parola qualsiasi: Volpicelli avrebbe dovuto giungere esplicitamente all'affermazione che il cattolicismo in Papini è un vestito da clown, non la «pelle» formata dal suo sangue «rinnovato», ecc.
  • Papini ha esercitato tutti i mestieri, per poi sporcificarli tutti: il filosofo, per concludere che la filosofia è una specie di cancrena al cervelletto, il cattolico, per incenerare l'universo con un appropriato dizionario, il letterato, per sancir da ultimo che della letteratura non sappiamo che farcene. Ciò non toglie che Papini non si sia conquistato un posticino nella storia della letteratura dentro il capitolo i "polemisti".
  • Che cos'è Papini? Non lo so. Alle volte mi pare un arcangelo, gli s'illuminano gli occhi e ci sono riflessi d'oro sui suoi capelli ricciuti, come un'aureola. Alle volte mi pare uno gnomo, storto, maligno, unghioso.
  • Di persona Papini è come certa specie di pere, brutte a vedersi e dolci a mangiarsi. A prima vista non piace. I suoi lineamenti sono irregolari. La bocca è troppo grande, la mascella troppo sporgente, i denti troppo in fuori, il naso troppo schiacciato, il colore troppo pallido, spesso terreo. Troppo lungo di corpo, cammina come uno scheletro da commedia, tutto storto e dinoccolato.
  • È sempre il caso di scrivere qualcosa intorno a Papini. Più si cerca di definirlo e di caratterizzarlo, più sembra che egli si sforzi di sfuggirci e di creare un nuovo Papini che ci costringa a mutar di giudizio.
  • Papini è principalmente un artista ma di un carattere suo speciale: un artista delle idee. Il suo mondo di colori e di forme (il mondo esterno) si è presentato a lui forse un po' tardi e se ne eccettui alcuni pochi brani, il resto è opera di talento e di scienza letteraria e diciamolo pure, accademica, più che di lirico.
  • Quando mi domandano che cosa mi ha colpito di più nel mio ritorno in Italia, rispondo senza esitazione: Papini. Papini è la cosa più grande che ci ho trovato.

Note

[modifica]
  1. Da La Pietà di Palestrina, in L'imitazione del padre: Saggi sul Rinascimento, Le Monnier, Firenze, stampa 1942, pp. 116-118.
  2. Massacratore di bulgari.
  3. Da La paga del sabato. Agosto 1914/1915, p. 289.
  4. Da Schegge.
  5. Il re era un appassionato numismatico.
  6. Lacerba, 3 luglio 1914. Citato in Romano Bracalini, Vittorio Emanuele III il re "vittorioso", I edizione Oscar Biografie e storia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1987, ISBN 88-04-29770-0, cap. IX, p. 108.
  7. Da Tutte le opere: Prose morali, A. Mondadori, Milano, 1959, p. 145.
  8. Da Amiamo la guerra!, Lacerba, II, 20, 1° ottobre 1914.
  9. Da La filosofia del cinematografo, La Stampa, 18 maggio 1907; citato in Francesco Casetti, Silvio Alovisio, L'esperienza del pubblico cinematografico in (a cura di) Silvio Alovisio, Giulia Carluccio, Introduzione al cinema muto italiano, UTET, Torino, 2014, p. 285. ISBN 9788860083524
  10. Da Disegnatori italiani. Alberto Martini, in Vita d'arte Rivista mensile d'arte antica e moderna, Anno I, Vol. I, Gennaio 1908, p. 24.
  11. Da Disegnatori italiani. Alberto Martini, in op. citata, p. 32.
  12. Dalla lettera ad Aldo Palazzeschi, 9 luglio 1920. Citato in Franco Contorbia, Su Palazzeschi "politico"; in L'opera di Aldo Palazzeschi, Atti del convegno internazionale, a cura di Gino Tellini, Olschki, Firenze, 22-24 febbraio 2001, p. 178
  13. Da G. Papini, Alfredo Oriani. La lotta politica, in Scrittori e artisti. Citato in Sandro Gentili, Carteggio Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Vol. I, 2003. ISBN 88-8498-115-8
  14. Da Sulla gioventù, Il Frontespizio, XI, ottobre 1932.
  15. Citato in Storia della bruttezza, a cura di Umberto Eco, Bompiani, Milano, p. 372. ISBN 978-88-452-7389-6
  16. Da Schegge.
  17. Da un articolo pubblicato su Lacerba, 1° giugno 1914.
  18. Da Pillole di Minerva, II Frontespizio; ora in Mostra personale, Morcelliana, 1947.
  19. Da Un suicidio metafisico, Il Resto del Carlino, 5 novembre 1910; anche in 24 cervelli: saggi non critici, Facchi, 1919.
  20. Citato in Antonio Altomonte, Lisi, un cattolico dalle radici pagane, Il Tempo, 30 giugno 1974.
  21. Lettera a Domenico Giuliotti, Parigi, 19 maggio 1928, carteggio Giuliotti-Papini.
  22. Da Il tragico quotidiano.
  23. Da Il tragico quotidiano.
  24. Da Spunti e spuntature, Il Frontespizio, X, settembre 1932.
  25. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.
  26. Da Un uomo finito, Mondadori, 2016, p. 29. ISBN 9788852074875
  27. Da Un uomo finito, in Io, Papini, Valecchi, 1967, p. 162.
  28. Citato in Merano-Bolzano // 13 > 22 maggio "della rivolta" ovveroeducazione e scuola tra esclusione e inclusione, in CRATere: arte, umanità e teatro contemporaneo in rassegna, Culture Teatrali. Studi, interventi e scritture sullo spettacolo, La casa Usher, Firenze; riportato in unibo.it.
  29. Citato, meno estesamente, in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi e Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia

[modifica]
  • Giovanni Papini, Il tragico quotidiano, Lunachi, Firenze, 1903.
  • Giovanni Papini, La paga del sabato. Agosto 1914/1915, Studio Editoriale Lombardo, Milano, 1915.
  • Giovanni Papini, Testimonianze Saggi non critici, Studio editoriale lombardo, Milano, 1918.
  • Giovanni Papini, Dizionario dell'Omo Selvatico, con Domenico Giuliotti, Vallecchi, Firenze, 1923.
  • Giovanni Papini, Storia di Cristo, Vallecchi, Firenze, 1935.
  • Giovanni Papini, Il diavolo, Vallecchi, Firenze, 1953.
  • Giovanni Papini, La spia del mondo, Vallecchi, Firenze, 1955.
  • Giovanni Papini, Schegge, Vallecchi, Firenze, 1971.
  • Giovanni Papini, Il sacco dell'orco, Vallecchi.

Altri progetti

[modifica]