Alessandro Baricco

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Alessandro Baricco nel 2010

Alessandro Baricco (1958 – vivente), scrittore, saggista, critico musicale, sceneggiatore e regista italiano.

Citazioni di Alessandro Baricco[modifica]

  • A me risulta che la ricerca del senso è una sorta di partita a scacchi, molto dura e solitaria, e che non la si vince alzandosi dalla scacchiera e andando di là a preparare il pranzo per tutti. È ovvio che occuparsi degli altri fa bene, ed è un gesto così dannatamente giusto, e anche inevitabile, necessario: ma non mi è mai venuto da pensare che potesse c'entrare davvero con il senso della vita. Temo che il senso della vita sia estorcere la felicità a se stessi, tutto il resto è una forma di lusso dell'animo, o di miseria, dipende dai casi. Peraltro, è anche possibile che mi sbagli. È giusto un pensiero istintivo – un certo modo di vedere il mondo.[1]
  • Adesso che sono stato ad ascoltarlo, so che Agassi ha vissuto come giocava a tennis, cioè i piedi ben dentro al campo, ad aggredire la pallina mentre sale (tutti buoni a prenderla mentre scende), immaginando tutto a una velocità irragionevole, e collezionando sciocchezze mostruose e invenzioni sublimi.[1]
  • [...] Cesarini, quello della zona Cesarini, proprio lui: quando dai il tuo nome a un pezzetto di Tempo – il quale è solo di dio, dice la Bibbia – qualcosa nella vita lo hai fatto.[2]
  • È stato lui il primo bianco ad affidare alla musica leggera un patrimonio di contenuti civili, una tradizione che apparteneva ai negri d'America. Una novità. E, nello stesso tempo, mi pare quasi che le canzoni di Bob Dylan siano esistite da sempre. Fossi della generazione di Dylan sarei sicuramente un suo grande fan, ma forse per quelli della mia sono state più importanti le canzoni di Guccini o di Vasco.[3]
  • Fenoglio è stato un cantore pazzesco del dolore degli umani. C'era nei suoi libri durezza e al tempo stesso pietas.[4]
  • Fenoglio veniva da una terra dura, nascosta, infame per certi versi. Così è il Piemonte. E' morto troppo presto, aveva quasi 41 anni per  tumore ai bronchi. Era un fumatore pazzesco. Non so se avesse capito che era un grande. Morì con una percezione falsata della sua fama.[4]
  • Fenoglio voleva impollinare la grammatica letteraria con la grammatica del cinema. Fare come Hemingway, accoppiare lo stile letterario e cinematografico. E lo ha fatto negli anni Cinquanta, prima di tutti, prima della mia generazione e di Sandro Veronesi e Susanna Tamaro.[4]
  • [...] il capitano, che nel rugby non è una fascia bianca al braccio del più pagato: lì il capitano è il cuore e i marroni della squadra, uno che quando pensi mi arrendo lo guardi e ti senti un verme.[5]
  • Il rugby è un gioco primario: portare una palla nel cuore del territorio nemico. Ma è fondato su un principio assurdo, e meravigliosamente perverso: la palla la puoi passare solo all'indietro. Ne viene fuori un movimento paradossale, un continuo fare e disfare, con quella palla che vola continuamente all'indietro ma come una mosca chiusa in un treno in corsa: a furia di volare all'indietro arriva comunque alla stazione finale: un assurdo spettacolare.[6]
  • [Su Open] In genere, quando un libro riesce a ottenere un simile risultato contiene una di queste quattro domande: chi è l'assassino? Il protagonista troverà se stesso? Ma alla fine si sposeranno? Chi dei due vincerà? Open ne contiene tre su quattro, e le intreccia molto bene: le possibilità di sottrarsi alla trappola sono pari a zero. (Manca l'omicidio, ma se si largheggia un po', l'idea di far allenare il proprio figlio di sette anni tirandogli 2.500 palline al giorno assomiglia molto a una specie di avvelenamento metodico, e quella era l'idea di educazione che aveva in testa il padre di Agassi).[1]
  • [...] io nei confronti di Dickens ho il seguente, curioso rapporto: adoro lui e non amo particolarmente i suoi libri. Non voglio dire che adoro il personaggio e non lo scrittore, non è questo: io adoro come scrive, non c'è nessuno con quella luce nella scrittura, e quella salvezza. Ma non c'è un suo solo libro che potrei definire un capolavoro,e forse neanche uno che sia riuscito a leggere senza una certa fatica. In realtà li confondo un po' tutti, e forse quando penso a Dickens, al suo modo di scrivere, penso a un unico splendido, smisurato testo che mi è accaduto di leggere qua e là, senza neanche troppa urgenza di orientarmi in modo più preciso.[7]
  • Io, personalmente, baratto volentieri tutta Guerra e Pace per tre pagine di Grandi Speranze, e non vedo la necessità di interessarsi a quel trombone del conte Vronskij quando si può avere a che fare con uno come Snodgrass.[7]
  • [Su Wikipedia] L'enciclopedia on line che ha ufficializzato il primato della velocità sull'esattezza.[8]
  • [Sul Museo Fisogni, all'epoca noto come Museo SIRM] Le foto [delle pompe di benzina] le ha fatte Decio Grassi, facendosi incantare da un museo che prima o poi dovrò andarmi a vedere, il Museo Sirm [...]. Museo assurdo in un posto assurdo, mi vien da immaginare.[9]
  • Rugby, gioco da psiche cubista – deliberatamente si scelsero un pallone ovale, cioè imprevedibile (rimbalza sull'erba come una frase di Joyce sulla sintassi) per immettere il caos nell'altrimenti geometrico scontro di due bande affamate di terreno – gioco elementare perché è primordiale lotta per portare avanti i confini, lo steccato, l'orlo della tua ambizione – guerra, dunque, in qualche modo, come qualsiasi sport, ma lì quasi letterale, con lo scontro fisico cercato, desiderato, programmato – guerra paradossale perché legata a una regola astuta che vuole le squadre avanzare sotto la clausola di far volare il pallone solo all'indietro, movimento e contromovimento, avanti e indietro, solo certi pesci, e nella fantasia, si muovono così. Una partita a scacchi giocata in velocità, dicono. Nata più di un secolo fa dalla follia estemporanea di un giocatore di calcio: prese la palla in mano, esasperato da quel titic titoc di piedi, e si fece tutto il campo correndo come un ossesso. Quando arrivò dall'altra parte del campo, posò la palla a terra: e intorno fu un'apoteosi, pubblico e colleghi, tutti a gridare, come colti da improvvisa illuminazione. Avevano inventato il rugby. Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va fuori di testa. Con ordinata, e feroce, follia.[10]
  • È probabile che l’emergenza Covid 19 finirà per rivelarsi come un crinale storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza planetaria generata dall’epoca del Game, della rivoluzione digitale, e l’ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un’élite e da un’intelligenza di tipo novecentesco. [11]
  • [Sul romanzo Furore di John Steinbeck] È un'opera universale, scritta nel '39, ma straordinariamente attuale, in cui ogni migrazione è stata raccontata per sempre.[12]

Da Dracula, sosia di don Giovanni

La repubblica, 6 luglio 2003.

  • Una cosa interessante, a proposito di Sherlock Holmes, è che non c'è una sola pagina, scritta da Arthur Conan Doyle, in cui il famoso detective pronunci la frase: «Elementare, Watson». Potrei aggiungere qualcosa sul fatto che, a voler restar fedeli ai libri scritti da Conan Doyle, il celebre detective non fuma una pipa ricurva e una sola volta indossa, forse, quel ridicolo cappello con la visiera davanti e anche dietro. Ma in realtà può bastare, nella sua limpida sintesi, quel primo esempio: Sherlock Holmes non ha mai detto la frase «Elementare, Watson». Il che aiuta a ricordare come la vita postuma di un personaggio, al di là e dopo i testi che l'hanno creato, ottenga spesso di arricchirne il profilo originario fino a renderlo pressoché irriconoscibile.
  • Una cosa curiosa di Dracula è che Dracula vi compare pochissimo. Di persona, intendo dire (se si può usare l'espressione di persona parlando di un vampiro). Riassumendo, lui compare in carne e ossa (idem) nella prima parte del romanzo, quando Jonathan Harker gli rende visita in Transilvania. Poi, si può dire che scompaia. Le sue apparizioni sono poco più che bagliori: un cane che scende da una nave, un pipistrello che sbatte contro un vetro, una nebbia che scivola sotto le porte. Di rado compare in fattezze umane, e quando lo fa è sempre per pochi istanti, subito ingoiato dal buio, dalla folla, dalla nebbia: sulla collina di Whitby, con Lucy; una volta per strada, in mezzo alla gente; stretto a Mina in un lampo che acceca i testimoni; e poi il tempo di una breve invettiva, prima di scappare, quando gli inseguitori lo attirano in una stanza dove non riusciranno a prenderlo. Anche la sua voce, così pedante e rigogliosa durante la visita di Jonathan, sparisce nel polverone delle parole altrui: il virgolettato di Dracula, per quattro quinti del romanzo, si riassume in una paginetta di frasi neanche tanto memorabili. Considerato quanto parlano gli altri, lui praticamente tace. La cosa è curiosa perché, al contrario, tutto il romanzo è ossessivamente posseduto, senza eccezioni, dalla sua figura. Non c'è nulla, in Dracula, che sia lì per una qualche sua energia autonoma: tutto esiste perché esiste Dracula. Lui è la luce che ritaglia via gli altri dall'indistinta oscurità del semplicemente esistente. Tutto diventa racconto se incontra lui, e nulla che non incontri lui diventa racconto.
  • Dracula è la storia di una ragazza inglese che con l'aiuto dei suoi amici vince il duello con un mostro (protagonista: Mina Harker, che, in effetti, sta sul set tutto il tempo). Oppure: due amanti difendono il loro amore dall'insidia di un vecchio mago sporcaccione (protagonisti: i coniugi Harker). O addirittura: un vecchio scienziato pazzo olandese trascina nei suoi deliri un gruppo di giovani inglesi, portandoli alla pazzia (protagonista: Van Helsing. E qui ci sarebbe la variante, niente male, della inesistenza totale di Dracula, che a quel punto sarebbe solo il prodotto della follia collettiva). Ciascuna di queste ipotesi sta in piedi, e solo l'abitudine a considerare il libro di Stoker in modo draculacentrico (pardon) ce le ha rese difficili da immaginare.
  • Si può reggere in piedi un romanzo, nel 1897, su un protagonista che non c'è? O non è piuttosto tutto un equivoco, e Dracula è un romanzo normale in cui un carattere secondario - il conte - ha preso la mano all'autore e a tutti i lettori, per sette generazioni? Non so la risposta, ma conosco la domanda. Nel senso che ci sono già passato. Era un'altra storia, era anche un altro secolo, ma il sapore della domanda, e l'imbarazzo conseguente, era lo stesso. Don Giovanni. Stavo ascoltando il Don Giovanni di Mozart. E me lo ricordo: la domanda era la stessa. Don Giovanni è un altro che non esiste. Eppure senza di lui nessuno esisterebbe nella storia che prende il suo nome.
  • Per un romanzo di fine Ottocento (come per un'opera di fine Settecento) il terreno abituale era un altro: in una comunità sana e funzionante uno dei membri imprime una deviazione ai propri comportamenti che mette in sofferenza l'intero sistema. Alla fine la comunità fa rientrare il pericolo, spesso annientando il soggetto deviato, comunque sempre combattendo con armi interne al sistema. Questo sì era lo schema più naturale. Le fortune del romanzo ottocentesco poggiano su quello schema. Offriva al lettore il brivido di immedesimarsi nel soggetto deviato (che lui, potenzialmente, era) e simultaneamente gli offriva la certezza che la comunità avrebbe poi sistemato tutto, rassicurandolo sul fatto che tutto era sotto controllo. Ma Dracula no. Dracula è diverso. Innanzitutto la comunità non è in grado di farcela da sola: inizia a vincere solo quando accetta di pensare l'impensabile, ad ammettere l'esistenza dell'inconcepibile, a scendere sul terreno del mistero, delle superstizioni, del non più controllabile. Non è poi molto rassicurante che Van Helsing e compagni alla fine ce la facciano a stecchire il vampiro: una volta ammesso che cose del genere possano accadere, l'infinito del possibile sarà lì ogni santo giorno a compromettere qualsiasi quotidiana tranquillità. E poi: il lettore, nel suo istintivo lavoro di immedesimazione, è sbalzato via dal posto di comando. Voglio dire che, comunque la si rigiri, è impossibile immedesimarsi in Dracula: lo si può ammirare, lo si può perfino amare, ma immedesimarsi? Come ti immedesimi in uno che non esiste? Che è un buco nero? Che neanche è vivo? è così ovvio che, al contrario, finisci per immedesimarti con tutti gli altri, anche se non vorresti, anche se poi non lo ammetti, ma se tu, proprio tu, sei da qualche parte, in quel romanzo, tu sei Mina, Jonathan e tutti gli altri, in bilico tra fascinazione assoluta per Dracula e terrore totale, lì a baciarlo e a cercare di fregarlo, simultaneamente. Noi siamo Emma Bovary. Ma non siamo Dracula, e nemmeno, ahimè, Don Giovanni. Noi non sopravvivremmo a quella condizione di sconfinata non esistenza. Noi stiamo sull'orlo del buco nero. Ma dentro, mai.
  • Riassumendo, Dracula sarebbe figlio di uno schema narrativo anomalo in cui il principio dinamico della storia è collocato in un buco nero, e il lettore è dislocato tra le vittime di quel principio, lì a difendersi e a rispondere alle mosse di un nemico onnipotente che non conosce e non ha mai visto prima. Esisteva già un simile modello prima di Dracula? La presenza del Don Giovanni dice di sì.
  • Difficile immaginare un personaggio che meglio di Dracula prenda su di sé, e traduca in carne e parole, il terrore. Non c'è nulla che, in lui, non sia terrore cristallizzato in gesto, immagine, parola, odore, tempo, colore. L'artigiano che era in Stoker lavorò da dio. Senza trascurare il minimo dettaglio. Se c'era un modo per dire che un mondo senza centro è un campo da gioco terrorizzante, Dracula lo disse. E quel vampiro è, simultaneamente, l'enunciazione di un teorema e la sua dimostrazione. Il che può aiutare a capire come si sia impigliato, una volta per sempre, nella fantasia collettiva.
  • Stinge in Dracula il colore che domina il Don Giovanni: il sesso. O più precisamente: il desiderio. Don Giovanni era quello: non era un individuo, ma piuttosto un istinto, la forza di quell'istinto: il desiderio. Immettete una cellula libera di desiderio in un corpo sociale sano e quello che otterrete è la malattia: è quel che hanno raccontato Mozart e Da Ponte. Se accostate al loro capolavoro Dracula, l'osmosi è immediata. Il romanzo di Stoker non offre la minima resistenza a una coloratura erotica: sembra che non aspetti altro: è sesso dall'inizio alla fine.
  • Non so cosa ne pensasse il pubblico del 1897, ma se non si accorgeva di nulla significa che era davvero malmesso. Quanto a Stoker mi rifiuto di credere che non sapesse cosa stava scrivendo. E dunque quello che non si può far finta di non sapere è che tutto il libro racconta sesso. Con l'aiuto del Don Giovanni possiamo enunciare qualcosa di più: quel libro dice, pur senza poterlo dire, che il virus che ammala il mondo, e il buco nero che lo mette in movimento, è il desiderio, quando lo si lasci cieco, impersonale, ineducato, libero. Come nel Don Giovanni, non è qui questione di un individuo che inclina a un uso un po' spregiudicato del desiderio e quindi mette in difficoltà il suo mondo (Emma Bovary). Qui è pronunciato qualcosa di più radicale. Il desiderio è impersonale, è una forza incontrollabile e sovraindividuale, è un istinto cieco che riemerge da secoli di letargo, è la barbarie che ritorna, inopinatamente raffinata, ricca e seducente. Da Don Giovanni non divorzi. E Dracula non lo curi. Il piccolo armamentario dei medicamenti borghesi non può nulla contro quel tipo di desiderio. Vuoi salvarti? Allora inizia ad abituarti a un mondo in cui nemmeno i confini tra vita e morte sono certi, e la tua fidanzata, morta, la notte va in cerca di bambini da prosciugare, e tuo padre, morto, torna ogni tanto a punire i tuoi amanti. Non piace, quel mondo? Peccato, è l'unico che c'è.

Da Essere Roger Federer

Pubblicato inizialmente su Robinson, n. 32, 9 luglio 2017; consultabile su TheCatcher.it.

  • Ci sono molti modi per scoprire cos'è la solitudine, ma solo due prevedono che lo si faccia in compagnia di un'altra persona e costretti in pochi metri quadri: il matrimonio e il tennis. Entrambi godono, giustamente, di una vasta platea di appassionati.
  • Ovunque ci sia un ragazzino che palleggia contro un muro, ovunque ci siano mammine che mugolano da fondocampo e prepensionati che tentano di ammazzare i loro simili attirandoli a rete con smorzate di inusitata perfidia – ovunque ci sia nel mondo qualcuno che fa titic e titoc con una racchetta in mano, è a Wimbledon che il suo faticare assume un senso, i suoi errori incontrano una redenzione, e le sue miserie scolorano nella gloria. Non sto esagerando, le cose stanno proprio così. Giuro che se Dio giocasse sarebbe socio lì, e non avrebbe neanche l'armadietto migliore.
  • Fatta eccezione, forse, per la sala da pranzo di mia madre, non vi è niente di più ordinato, al mondo, di Wimbledon. Anzi, a essere precisi non è neanche una questione di ordine: è piuttosto l'inaudita pretesa di ricondurre a una disciplina certa ogni frammento della realtà, che siano i fiori di un'aiuola o il flusso di migliaia di persone quando parte l'acquazzone.
  • [Su Wimbledon] Nel cuore di questa liturgia, a motivarla e darle un battito cardiaco, ticchettano i campi, tanti e simmetricamente disposti nello spazio – mirabili tutti nel verde di un'erba che non sembra provenire dal giardinaggio ma da una lavoro di tessitura: ticchettano di palline che vanno e vengono, come lancette, come meccanismi d'orologio. Tutto l'ordine convocato tra quelle mura, e distillato dai mille gesti esatti di ogni lavorante, arriva in purezza nei gesti ultimi di quei sacerdoti che, in bianco, ne raccolgono l'essenza e ricuciono col loro palleggio l'ultimo lembo di caos: la palla fila via veloce, entro le linee comandate, secondo rimbalzi prestabiliti, con suoni rotondi e conclusi – il mondo è salvo, il caos domato, ogni dubbio svanito. Tuttavia uno poi stecca, l'altro tira lungo di una spanna, questo fa una palla corta troppo corta, quello non si piega abbastanza sulle gambe, molti scuotono la testa, alcuni smadonnano – tutto il tennis del mondo finisce sempre in un errore, è inevitabile. Lo scopo stesso del gioco, è un errore: gratuito o forzato, idiota o sublime, ma sempre un errore. Quindi, riassumendo, questo sembra essere il piano: mettono su un'enorme cattedrale dedicata all'ordine, costruita fin nei dettagli con la pietra dura della perfezione, e lo fanno per custodire, nel cuore di tutto, un errore. Geniale.
  • Se è vero che tutti gli sport sono una metafora della vita, non è da escludere che la vita sia una metafora del tennis.
  • La fondamentale differenza tra Roger Federer e gli altri giocatori di tennis del pianeta non è quella che risulta più evidente, cioè il fatto che, alla lunga, lui vinca. Quello è un corollario, talvolta una coincidenza, spesso una conseguenza logica. La vera differenza tra lui e gli altri, come tutti sanno, è che gli altri giocano a tennis, lui invece fa una cosa che ha più a che vedere col respirare, o col volo degli uccelli migratori, o col rinforzare del vento la mattina. Qualcosa che è scritto già da un sacco di tempo, inevitabile, nell'andare delle cose. Qualcosa di naturale. Accidentalmente Federer tiene una racchetta in mano, ma nel vederlo giocare si tende a dimenticare che quella è una racchetta e si è portati a credere che sia una sorta di chela, originariamente posseduta dagli umani, e poi deposta perché evidentemente ritenuta poco idonea alla lotta per la sopravvivenza: deposta da tutti tranne da lui, uscito indenne da secoli di mutazione genetica, per ragioni oscure (deve c'entrare il carattere isolazionista della Svizzera).
  • Federer gioca e c'è qualcosa che si stacca dal campo, come dal ring si staccava la leggerezza di Alì, dal palco la verità della Callas e dalla linea dell'orizzonte tutte le albe che ci hanno fatto fermare per un attimo.
  • Non si vive di tennis, è ovvio, ma molte cose smettono di morire per un attimo, ogni volta che Federer stacca un rovescio lungolinea. Ne sono sicuro.
  • Molte cose, anche, compaiono dal nulla: pezzi di campo che non c'erano, salti di tempo che non conoscevi, angoli che non risultavano in nessuna geometria. Questa è una cosa che adoro dei grandi, di quelli che sono veramente grandi. [...] Federer, nel suo piccolo, è uno che genera campo dove un attimo prima non esisteva. O traiettorie indeducibili dalle condizioni di partenza. Giuro che l'ho visto una volta schiacciare da fondo campo e fare punto tirando fuori dallo smash, contro ogni regola fisica, un pallonetto. Non so più chi fosse l'avversario, ma d'altronde neanche lui saprà più chi è, dopo quella palla. Va registrato che, a commento di prodezze del genere, Federer si concede di solito poco più che un parco gesto del braccio, più o meno quel che faccio io quando trovo parcheggio il sabato sera. Non sembra bisognoso di scaricare alcuna tensione, non ha l'aria di essere troppo stupefatto da se stesso, mai.

Barnum[modifica]

  • A prescindere da cultura alta o bassa, è il racconto della realtà che ti incunea la realtà nella testa, e te la fa esplodere dentro. I fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa. Che vuol dire anche: raccontare non è un vezzo da dandy colti, è una necessità civile che salva il reale da un'anestetizzata equivalenza. Il racconto, e non l'informazione, ti rende padrone della tua storia.
  • Ha un bello spremersi, il mondo tutto, per intrattenerti con il suo grande show quotidiano, a suon di dollari lacrime e sangue, ma poi c'è sempre la volta che a inchiodarti per la meraviglia è il niente di una frase, letta per caso, lunga poche parole, un'inezia.
  • La prossima volta che nasco ateo, lo faccio in un paese dove quelli che credono in Dio credono in un Dio felice.
  • Maria col viso terreo, schiantata dal dolore (non era che un alito debolissimo, la Risurrezione), Giovanni un po' troppo in posa, e poi il ragazzetto che regge la scala ma, come tutti quelli che reggono una scala non bada a quel che fa ma si gira a guardare, e quel che guarda è ciò che tutti avrebbero guardato, non la Madonna, non Giovanni, non la croce: Maddalena.
  • Nel momento in cui raccontava una cosa, lo era: una scrittura esatta oltre ogni ragionevolezza. L'epica dell'esattezza.
  • Ogni quadro è in definitiva una promessa non mantenuta, e ogni museo una intollerabile via crucis di promesse non mantenute. E davanti a un quadro è uno dei posti migliori in cui esperire il sentimento dell'impotenza. Stando cosi le cose, guardare i quadri è un'attività che conviene centellinare, per non farsi travolgere da quell'impasto di goduria e frustrazione a cui solo anime sottilmente perverse possono sopravvivere.
  • Puoi spendere anni a vivere, ore a leggere libri, milioni a farti allenare dallo psicanalista: ma alla fine la palla è in rete che finisce. L'errore annulla qualsiasi passato nell'istante in cui arriva a bruciarti qualsiasi futuro. L'errore azzera il tempo, qualsiasi tempo. Vedi cosa riesce a spiegarti, il tennis, senza dare nell'occhio: che quando sbagli, nel preciso istante in cui lo fai, sei eterno.

Castelli di rabbia[modifica]

Incipit[modifica]

– Allora, non c'è nessuno qui?... BRATH!... Ma che canchero, sono diventati tutti sordi quaggiù... BRATH!
– Non strillare, ti fa male strillare, Arold.
– Dove diavolo ti eri cacciato... è un'ora che sto qui a...
– Il tuo calesse è a pezzi, Arold, non dovresti andare in giro così...
– Lascia perdere il calesse e prendi 'sta roba piuttosto...
– Cos'è?
– Non lo so cos'è, Brath... che ne so io... è un pacco per la signora Rail...
– Per la signora Rail?
– È arrivato ieri sera... Ha l'aria di venire da lontano...

Citazioni[modifica]

  • Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.
  • "Un giorno Dio disegnò la bocca di Jun Rail. È lì che gli venne quell'idea stramba del peccato" (p. 19)
  • Semplicemente, senza che un solo angolo del suo volto si muovesse, e assolutamente in silenzio, iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all'orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta. (p. 27)
  • C'è sempre un piano preciso, dietro a tutto... in questo aveva ragione il signor Rail... ognuno ha davanti le sue rotaie, che le veda o no.
  • "Come sarebbe bello dire 'per caso'? .. "Tu credi davvero che ci sia qualcosa che succede 'per caso'?"
  • Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti, fra i mille di una vita. Nella notte del ricordo, ardono quelli, disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi.
  • Crepita, la vita, brucia istanti feroci e negli occhi di chi passa anche solo a venti metri da lì non è che un'immagine come un'altra, senza suono e senza storia.
  • Dev'essere così, questa cosa dei figli, pensò Horeau: nascono con dentro quello che nei padri, la vita ha lasciato a metà. Se mai avrò un figlio, pensò Horeau tagliando meticolosamente una sottile fetta di carne in salsa di mirtilli, nascerà pazzo.
  • – E allora si chiede: devo starlo a sentire questo desiderio o devo togliermelo dalla testa?
    – Già.
    – Già. Uno ci pensa e alla fine decide. Per cento volte se lo toglie dalla testa, poi arriva il giorno che se lo tiene e decide di farla quella cosa di cui ha tanta voglia: e la fa: ed eccola lì la schifezza.
    – Però non dovrebbe farla, vero, la schifezza?
    – No. Ma sta' attento: dato che non siamo calzini ma persone, non siamo qui con il fine principale di essere puliti. I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire per star dietro ad un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi si paga. È solo questo davvero importante: che quando arriva il momento di pagare uno non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare. Solo questo è importante. (p. 52)
  • E allora... quello, esattamente quello, finalmente, io lo so, sarà il posto in cui dovevo arrivare. Da lontano, da dovunque, io non ho fatto che camminare verso quel punto esatto, quel metro quadrato di legno posato sul fondo di un immenso bicchiere di vetro. Lì, quel giorno, io sarò arrivato alla fine del mio cammino. Dopo... tutto quello che accadrà dopo... non conterà più niente.
  • È una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c'è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po', l'hai fregato.
  • Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come l'istantanea percezione di una felicità assoluta e incondizionata. Se le sarebbe portate dietro per sempre. Perché è così che ti frega, la vita. Ti piglia quando hai ancora l'anima addormentata e ti semina dentro un'immagine, o un odore, o un suono che poi non te lo togli più. E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quand'è troppo tardi. E già sei, per sempre, un esule: a migliaia di chilometri da quell'immagine, da quel suono, da quell'odore. Alla deriva.
  • Il sesso cancella fette di vita che uno nemmeno si immagina. Sarà anche stupido, ma la gente si stringe con quello strano furore un po' panico e la vita ne esce stropicciata come un biglietto stretto in un pugno, nascosto con una mossa nervosa di paura. Un po' per caso, un po' per fortuna, spariscono nelle pieghe di quella vita appallottolata mozziconi di tempo dolorosi, o vigliacchi, o mai capiti. Così.
  • La musica è l'armonia dell'anima.
  • La realtà ha una coerenza, illogica ma effettiva.
  • La sera, come tutte le sere, venne la sera. Non c'è niente da fare: quella è una cosa che non guarda in faccia a nessuno. Succede e basta. Non importa che razza di giorno arriva a spegnere. Magari era stato un giorno eccezionale, ma non cambia nulla. Arriva e lo spegne. Amen.
  • La vita è sostanzialmente incoerente e la prevedibilità dei fatti un'illusoria consolazione.
  • Lèggere è una sporcheria dolcissima.
  • Non per altro: ma è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo.
  • Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale.
  • Quel che di bello c'è nella vita è sempre un segreto... Per me è stato così... Le cose che si sanno sono le cose normali, o le cose brutte, ma poi ci sono i segreti, ed è lì che si va a nascondere la felicità.
  • Stava lì, come una candela accesa in un granaio che brucia.
  • – Siediti, Pehnt – diceva la gente. – Grazie – diceva lui, e saliva in piedi sulla sedia. – Non che sia il massimo dell'educazione – diceva la vedova Abegg. – Neanche cagare è una delizia. Ma ha i suoi vantaggi – diceva Pekisch.
  • Però quando la gente ti dirà che hai sbagliato... e avrai errori dappertutto dietro la schiena, fottitene. Ricordatene. Devi fottertene. Tutte le bocce di cristallo che avrai rotto erano solo vita... e la vita vera magari è proprio quella che si spacca, quella vita su cento che alla fine si spacca... ...io questo l'ho capito, che il mondo è pieno di gente che gira con in tasca le sue piccole biglie di vetro... le sue piccole tristi biglie infrangibili... e allora tu non smetterla mai di soffiare nelle tue sfere di cristallo... sono belle, a me è piaciuto guardarle, per tutto il tempo che ti sono stato vicino... ci si vede dentro tanta di quella roba... è una cosa che ti mette l'allegria addosso... non smetterla mai... e se un giorno scoppieranno anche quella sarà vita a modo suo... meravigliosa vita. (Andersson)
  • Uno ha una nota, che è sua, e se la lascia marcire dentro... no... statemi a sentire... anche se la vita fa un rumore d'inferno affilatevi le orecchie fino a quando arriverete a sentirla e allora tenetevela stretta, non lasciatela scappare più. (Pekisch)
  • Voleva rispondergli un sacco di cose, la vedova Abegg. Ma quando ti viene quella voglia di piangere pazzesca, che proprio ti strizza tutto, che non la riesci a fermare, allora non c'è verso di spiaccicare una sola parola, non esce più niente, ti torna tutto indietro, tutto dentro, ingoiato da quei dannati singhiozzi, naufragato nel silenzio di quelle stupide lacrime. Maledizione. Con tutto quello che uno vorrebbe dire... E invece niente, non esce fuori niente. Si può esser fatti peggio di così?
  • Vecchio, benedetto, Pekisch, questo non me lo dovevi fare. Non me lo merito. Io mi chiamo Pehnt, e sono ancora quello che se ne stava sdraiato per terra a sentire la voce nei tubi, come se quella arrivasse davvero, e invece non arrivava. Non è mai arrivata. E io adesso sono qui. Ho una famiglia, ho un lavoro e la sera vado a letto presto. Il martedì vado a sentire i concerti che danno alla sala Trater e ascolto musiche che a Quinnipak non esistono: Mozart, Beethoven, Chopin. Sono normali eppure sono belle. Ho degli amici con cui gioco a carte, parlo di politica fumando il sigaro e la domenica vado in campagna. Amo mia moglie, che è una donna intelligente e bella. Mi piace tornare a casa e trovarla lì, qualsiasi cosa sia successa nel mondo quel giorno. Mi piace dormire vicino a lei e mi piace svegliarmi insieme a lei. Ho un figlio che amo anche se tutto fa supporre che farà l'assicuratore. Spero che lo farà bene e che sarà un uomo giusto. La sera vado a letto e mi addormento. E tu mi hai insegnato che questo vuol dire che sono in pace con me stesso. Non c'è altro. Questa è la mia vita. Io lo so che non ti piace ma io non voglio che tu me lo scriva. Perché voglio continuare ad andare a letto, la sera, ed addormentarmi. Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere, a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io qui ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l'infinito. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso. Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è cosa spregevole. È bello. E poi chi l'ha detto che si deve proprio vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l'impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà. È proprio obbligatorio essere eccezionali? Io non so. Ma mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente: nemmeno delle mie soprascarpe. C'è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità. E io sono uno di quelli. Si guardava sempre l'infinito a Quinnipak, insieme a te. Ma qui non c'è l'infinito. E così guardiamo le cose, e questo ci basta. Ogni tanto, nei momenti più impensati, siamo felici. Andrò a letto, questa sera, e non mi addormenterò. Colpa tua, vecchio, maledetto Pekisch. Ti abbraccio. Dio sa quanto ti abbraccio. Pehnt, assicuratore.
  • E allora lei rise, era la prima volta che la vedevo ridere, e tu lo sai bene, Andersson, com'è Jun quando ride, non è che uno può star lì e far finta di niente, se c'è Jun che gli ride lì davanti è chiaro che uno finisce per pensare se io non bacio questa donna impazzirò. E io pensai: se non bacio questa ragazza impazzirò.
  • Addio mio piccolo signore, che sognavi i treni e sapevi dov'era l'infinito; tutto quel che c'era io l'ho visto, guardando te. E sono stata ovunque, stando con te. (Jun)
  • Io sono Hector Horeau e vi odio. Odio i sonni che dormite, odio l'orgoglio con cui cullate lo squallore dei vostri bambini, odio ciò che toccano le vostri mani marce, odio quando vi vestite per la festa, odio i soldi che avete in tasca, odio la bestemmia atroce di quando vi permettete di piangere, odio i vostri occhi, odio l'oscenità del vostro buon cuore, odio i pianoforti che come bare popolano il cimitero dei vostri salotti, odio i vostri amori schifosamente giusti, odio tutto quello che mi avete insegnato, odio la miseria dei vostri sogni, odio il rumore delle vostre scarpe nuove, odio ogni singola parola che avete mai scritto, odio ogni momento in cui mi avete toccato, odio tutti gli istanti in cui avete avuto ragione, odio le madonne che pendono sui vostri letti, odio il ricordo di quando ho fatto l'amore con voi, odio i vostri segreti da niente, odio tutti i vostri giorni più belli, odio tutto quello che mi avete rubato, odio i treni che non vi hanno portato lontano, odio i libri che avete lordato con i vostri sguardi, odio lo schifo delle vostre facce, odio il suono dei vostri nomi, odio quando vi abbracciate, odio quando battete le mani, odio quel che vi commuove, odio ogni singola parola che mi avete strappato, odio la miseria di quel che vedete quando guardate lontano, odio la morte che avete seminato, odio tutti i silenzi che avete straziato, odio il vostro profumo, odio quando vi capite, odio qualsiasi terra che vi abbia ospitato, e odio il tempo passato su di voi. Ogni minuto di quel tempo è stata una bestemmia. Io disprezzo il vostro destino. E ora che mi avete rubato il mio, solo mi importa sapervi crepati. Il dolore che vi spezzerà sarò io, l'angoscia che vi consumerà sarò io, il tanfo dei vostri cadaveri sarò io, i vermi che si ingrasseranno con le vostre carcasse sarò io. E ogni volta che qualcuno vi dimenticherà, lì ci sarò io. Volevo poi solo vivere. Bastardi.
  • La strana intimità di quelle due rotaie. La certezza di non incontrarsi mai. L'ostinazione con cui continuano a corrersi di fianco. (pag. 146.)
  • Il proiettile corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque. Lo vede il destino? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere.
  • Erano le 3 del mattino e la città se ne stava affogata nel bitume della propria notte. Nella schiuma dei propri sogni. Nella merda della propria insonnia.
  • Penso a centinai di pagine zeppe di parole e senti che il mondo gli faceva meno paura.

City[modifica]

Incipit[modifica]

– Allora, signor Klauser, deve morire Mami Jane?
– Che vadano tutti a cagare.
– È un sì o un no?
– Lei che ne dice?
Nell'ottobre del 1987, la CRB – casa editrice da ventidue anni delle avventure del mitico Ballon Mac – decise di indire un referendum tra i suoi lettori per stabilire se fosse il caso di far morire Mami Jane. Ballon Mac era un supereroe cieco che di giorno faceva il dentista e di notte combatteva il Male grazie ai poteri molto particolari della sua saliva. Mami Jane era sua madre. I lettori le erano, in genere, molto affezionati: collezionava vecchi scalpi indiani e la sera si esibiva, come bassista, in un complesso blues interamente composto da neri. Lei era bianca.

Citazioni[modifica]

  • Era una specie di lancinante, dolorosa meraviglia. [...] Ti senti una specie di consolazione, dentro, quasi una rivelazione, che ti spalanca l'anima, per così dire, ma contemporaneamente senti una specie di fitta, come la sensazione di una perdita irrimediabile, e definitiva. Una dolce catastrofe. Credo che c'entri il fatto di essere sempre fuori, in quei momenti lì, sei sempre lì che li guardi da fuori. Non ci puoi entrare, [...] è qualcosa che rimane lì, [...] e tu sei irrimediabilmente davanti, la guardi ed è tutto quello che puoi fare. [...] È una cosa strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai.
  • Prima cosa: la boxe la fai se hai fame. Non importa di cosa. [...]
    [...] Mondini diceva che per imparare a boxare basta una notte. E una vita intera per imparare a combattere.
  • Un altro se ne sarebbe andato. Ma Larry era diverso, lui non se ne andava mai.
  • La crudeltà è la virtù per eccellenza dei mediocri, hanno bisogno di esercitare la crudeltà, esercizio per cui non è necessaria la minima intelligenza.
  • Muoiono nello stesso respiro, gli amanti.
  • Nulla può diventare così insignificante come qualsiasi cosa se ti ci svegli di fianco tutte le mattine della tua vita.
  • Rubi minuti alla sera. Li chiami: "Vita". Respiri.
  • Un'altra vita, saremo onesti. Saremo capaci di tacere.
  • Gli uomini hanno case, ma sono verande.
  • [...] Lui pensava, davvero, che gli uomini stanno sulla veranda della propria vita (esuli quindi da se stessi) e che questo è l'unico modo possibile, per loro, di difendere la propria vita dal mondo, giacché se solo si azzardassero a rientrare in casa (e ad essere se stessi, dunque) immediatamente quella casa regredirebbe a fragile rifugio nel mare del nulla, destinata ad essere spazzata via dal mare dell'Aperto, e il rifugio si tramuterebbe in trappola mortale, ragione per cui la gente si affretta a riuscire sulla veranda (e dunque da se stessa), riprendendo posizione là solo dove le è dato di arrestare l'invasione del mondo, salvando quanto meno l'idea di una propria casa, pur nella rassegnazione di sapere, quella casa, inabitabile. Abbiamo case, ma siamo verande, pensava. [...]
  • Si sedette sui gradini, senza entrare. Era ancora buio. C'erano rumori strani, rumori che di giorno non si sentono. Come briciole di cose che erano rimaste indietro, e adesso si davano da fare per raggiungere il mondo, e arrivare puntuali all'alba, nel ventre del rumore planetario.
    C'è sempre qualcosa che si perde per strada, pensò.
    Devo smetterla, pensò.
    [...] Non si finisce da nessuna parte, così.
    Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile.
  • [...] Era diventata una di quelle cose che hanno come compito rimanere, tenere ferme le radici di un qualche pezzo di mondo. Le cose che, al risveglio o al ritorno, hanno vegliato per te. È strano. Ci si va a cercare marchingegni incredibili per farsi portare via lontano, e poi li si tiene accanto con un amore tale che lontano, prima o poi, diventa lontano anche da loro.
  • [...] mi viene solo in mente quella storia dei fiumi, [...] e al fatto che si son messi lì a studiarli perché giustamente non gli tornava 'sta storia che un fiume, dovendo arrivare al mare, ci metteva tutto quel tempo, cioè scelga, deliberatamente, di fare un sacco di curve, invece di puntare dritto allo scopo, [...] c'è qualcosa di assurdo in tutte quelle curve, e così si sono messi a studiare la faccenda e quello che hanno scoperto alla fine, c'è da non crederci, è che qualsiasi fiume, [...], prima di arrivare al mare fa esattamente una strada tre volte più lunga di quella che farebbe se andasse diritto, sbalorditivo, se ci pensi, ci mette tre volte tanto quello che sarebbe necessario, e tutto a furia di curve, appunto, solo con questo stratagemma delle curve, [...] è quello che hanno scoperto con scientifica sicurezza a forza di studiare i fiumi, tutti i fiumi, hanno scoperto che non sono matti, è la loro natura di fiumi che li obbliga a quel girovagare continuo, e perfino esatto, tanto che tutti, dico tutti, alla fine, navigano per una strada tre volte più lunga del necessario, anzi, per essere esatti, tre volte virgola quattordici, giuro, il famoso pi greco, non ci volevo credere, in effetti, ma pare che sia proprio così, devi prendere la loro distanza dal mare, moltiplicarla per pi greco e hai la lunghezza della strada che effettivamente fanno, il che, ho pensato, è una gran figata, perché, ho pensato, c'è una regola per loro vuoi che non ci sia per noi, voglio dire, il meno che ti puoi aspettare è che anche per noi sia più o meno lo stesso, e che tutto questo sbandare da una parte e dall'altra, come se fossimo matti, o peggio smarriti, in realtà è il nostro modo di andare diritti, modo scientificamente esatto, e per così dire già preordinato, benché indubbiamente simile a una sequenza disordinata di errori, o ripensamenti, ma solo in apparenza perché in realtà è semplicemente il nostro modo di andare dove dobbiamo andare, il modo che è specificatamente nostro, la nostra natura, per così dire, cosa volevo dire?, quella storia dei fiumi, sì, è una storia che se ci pensi è rassicurante, io la trovo molto rassicurante, che ci sia una regola oggettiva dietro a tutte le nostre stupidate, è una cosa rassicurante, tanto che ho deciso di crederci, e allora, ecco, quel che volevo dire è che mi fa male vederti navigare curve da schifo come quella di Couverney, ma dovessi anche andare ogni volta a guardare un fiume, ogni volta, per ricordarmelo, io sempre penserò che è giusto così, e che fai bene ad andare, per quanto solo a dirlo mi venga da spaccarti la testa, ma voglio che tu vada, e sono felice che tu vada, sei un fiume forte, non ti perderai...
  • – Lui aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a essere piccolo. [...] Non credeva che si potesse essere piccoli nella vita reale senza che qualcuno ne approfittasse e ti uccidesse, o qualcosa del genere. [...] Pensava che era una fortuna essere un genio perché era un modo di salvarsi la vita. [...] Un modo di non sembrare un bambino. [...] Non so. Credo fosse il suo sogno, essere un bambino. [...] Voglio dire: credo sia il suo sogno. Credo che adesso che è grande, potrà finalmente essere piccolo, per tutta la vita.
  • Era una cosa da spaccarti il cuore. Shatzy era sempre stata una che non mollava facilmente. Aveva del talento se si trattava di spremere dalla vita qualcosa. Ma quella volta c'era poco da spremere.
  • – Culo stretto e pistole cariche, ragazzo – dice Melissa Dolpin. – Il resto è poesia inutile.
    Phil Wittacher sorride.
    – Non è un duello, la vita – dice.
    Melissa Dolpin spalanca gli occhi.
    – Certo che lo è, idiota.
    Musica.
  • [...] quando sei giovane il dolore ti colpisce ed è come se ti sparassero... è la fine, ti sembra che sia la fine... il dolore è come uno sparo, ti fa saltare in aria, è come un'esplosione.... ti sembra senza rimedio, una cosa irrimediabile, definitiva... il punto è che non te l'aspetti, questo è il nocciolo della faccenda, che quando sei giovane il dolore non te lo aspetti e lui ti sorprende ed è lo stupore che ti frega, lo stupore. Lo stupore, capisci?
    – Sì.
    – Da vecchio.. Cioè, quando invecchi... non esiste più quella cosa dello stupore, non riesce più a prenderti di sorpresa... lo senti, questo sì, ma è solo stanchezza che si aggiunge a stanchezza, non esplode più niente, capisci?, è solo come se ti aggiungessero qualche chilo sulle spalle... è come camminare ed avere le scarpe sempre più fradice, di fango, e pesanti.. A un certo punto ti fermi, e lì finisce. Ma non salti in aria, come da giovane, non è più quella cosa là.

Emmaus[modifica]

Incipit[modifica]

Abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza saperlo veramente, è l'unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato.

Citazioni[modifica]

  • Ci disarma, infatti, l'inclinazione a pensare che la nostra vita sia, innanzitutto, un frammento conclusivo della vita dei nostri genitori, solo affidato alla nostra cura.
  • Evidentemente possono contare su granai colmi all'inverosimile, perché dissipano senza calcoli il raccolto delle stagioni, che sia denaro ma anche solo sapere, esperienza. Mietono indistintamente bene e male. Bruciano la memoria e nelle ceneri leggono il loro futuro.
  • Come abbiamo potuto non sapere, per così tanto tempo, nulla di ciò che era, e tuttavia sederci alla tavola di ogni cosa e persona incontrata sul cammino? Cuori piccoli – li nutriamo di grandi illusioni, e al termine del processo camminiamo come discepoli ad Emmaus, ciechi, al fianco di amici e amori che non riconosciamo – fidandoci di un Dio che non sa più di se stesso. Per questo conosciamo l'avvio delle cose e poi ne riceviamo la fine, mancando sempre il loro cuore. Siamo aurora ma epilogo – perenne scoperta tardiva. Ci sarà forse un gesto che ci farà capire. Ma per adesso, noi viviamo, tutti.
  • Eravamo nello stesso amore, in quel momento – non abbiamo fatto altro, per anni. La sua bellezza, i suoi pianti, la mia forza, i suoi passi, il mio pregare – eravamo nello stesso amore. La sua musica, i miei libri, i miei ritardi, i suoi pomeriggi da solo – eravamo nello stesso amore. L'aria in faccia, il freddo nelle mani, le sue dimenticanze, le mie certezze – eravamo nello stesso amore.
  • ...Solo Dio ci basta, le cose mai. Ma non è sempre vero, non è vero per sempre. Basta alle volte l'eleganza di un gesto altrui, o la gratuita bellezza di una parola laica. Lo scintillio di vita, raccolto in destini sbagliati. La nobiltà del male a tratti. Filtra allora una luce che non avremmo sospettato. Si spezza la certezza di pietra e tutto crolla... Mi hanno detto – ci sono un sacco di cose vere, intorno, e noi non le vediamo, ma loro ci sono, e hanno un senso, senza nessun bisogno di Dio. Fammi un esempio. Tu, io, come siamo veramente, non come facciamo finta di essere. Voleva dire che nell'assenza di senso il mondo tuttavia accade, e in quell'acrobazia di esistere senza coordinate c'è una bellezza, perfino una nobiltà, talvolta, che noi non sappiamo – come la possibilità di un eroismo a cui non abbiamo mai pensato, l'eroismo di una qualche verità. Se riconosci questo, coi tuoi occhi, nel fissare il mondo, anche una sola volta, allora sei perduto – c'è ormai un'altra battaglia, per te. Cresciuti nella certezza di essere degli eroi, in altre leggende diventiamo memorabili. Sfuma Dio, come un epilogo infantile."
  • Per quanto assurdo sia, c'è un'unica tenebra per tutti.
  • Ma chi ha iniziato a morire non smette mai di farlo.
  • Usiamo un sacco di parole di cui non conosciamo il significato e una è la parola dolore. Un'altra è la parola morte. Per questo non ci fu possibile avere gli occhi di Andre, e guardare l'acqua nera, dal ponte, come l'aveva vista lei. Che invece viene da un mondo senza cautele, in cui l'umana avventura corre a ridosso della normalità, ma sbanda larga, fino a lambire ogni parola lontana, per quanto acuminata sia – e prima fra tutte quella che dice morire.
  • Per questo siamo in grado di metabolizzare incredibili dosi di infelicità scambiandole per il doveroso corso delle cose: non ci sfiora il sospetto che nascondano ferite da curare, e fratture da ricomporre.
  • Tuttavia su un particolare tutti concordano, e cioè sul fatto che i polmoni di Andre diedero il primo respiro nello stesso istante in cui quelli della sua sorellina smarrirono l'ultimo, come per una naturale dinamica di vasi comunicanti – come per una legge della conservazione dell'energia, applicata su scala famigliare. Erano due bambine, e si erano scambiate la vita. [...] Andrea si è buttata dal ponte quattordici anni dopo la morte della sorellina. Non l'ha fatto nel giorno del suo compleanno, l'ha fatto in un giorno qualunque. Ma respirò l'acqua scura, ed era, in un certo senso, la seconda volta che lo faceva.
  • Ma non c'è misura nell'amore [...]. Nell'amore e nel dolore, aggiunse.
  • Forse si muore in tanti modi, e ogni tanto mi chiedo se anche noi non lo stiamo facendo senza saperlo.
  • È che procediamo per lampi, il resto è oscurità. Una tersa oscurità piena di luce, buia.
  • Cuori piccoli li nutriamo di grandi illusioni, e al termine del processo camminiamo come discepoli a Emmaus, ciechi, al fianco di amici e amori che non riconosciamo [...]. Per questo conosciamo l'avvio delle cose e poi ne riceviamo la fine, mancando sempre il loro cuore. Siamo aurora ma epilogo, perenne scoperta tardiva. Ci sarà forse un gesto che ci farà capire. Ma per adesso, noi viviamo, tutti.
  • Andiamo per il mondo portando una certezza in cui si scioglie ogni nostra timidezza, fino a condurci oltre alla soglia del ridicolo.
  • Ho diciotto anni e già la felicità ha il sapore della memoria.
  • Lo scintillio di vita, raccolto in destini sbagliati. La nobiltà del male, a tratti.
  • Cercavo di spegnere un'immagine di Luca con i capelli appiccati alla fronte, nel letto di Andre, ma quella invece non mi abbandonava, né mi avrebbe abbandonato, così è quel che ricordo di lui, per sempre. Eravamo nello stesso amore, in quel momento – non abbiamo fatto altro, per anni. La sua bellezza, i suoi pianti, la mia forza, i suoi passi, il mio pregare – eravamo nello stesso amore. L'aria in faccia, il freddo nelle mani, le sue dimenticanze, le mie certezze, il corpo di Andre – eravamo nello stesso amore. Così siamo morti insieme – e fino a quando non morirò, insieme vivremo.
  • Abbiamo diciott'anni, dissi, e siamo tutto.
  • Così nei loro corpi scrivono che sono tutto – la stessa cosa che si legge nelle nostre anime.
  • Non so se sapesse cosa stava facendo, con i nostri occhi.
  • Io e lei abbiamo un gioco segreto – ci scriviamo di nascosto da noi stessi. Parallelamente a quello che diciamo e viviamo insieme, ci scriviamo, come se fossimo noi due, ma una seconda volta. Di quel che scriviamo in quelle lettere – bigliettini – non parliamo mai. È lì che ci diciamo, tuttavia, le cose vere.
  • Ma, come a tutti, a lui piacerebbe, semplicemente, essere felice.

I Barbari[modifica]

Incipit[modifica]

Non sembra, ma questo è un libro. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto scriverne uno, a puntate, sul giornale, in mezzo alle frattaglie di mondo che quotidianamente passano da lì. Mi attirava la fragilità della cosa: è come scrivere allo scoperto, in piedi su un torrione, tutti che ti guardano e il vento che tira, tutti che passano, pieni di cose da fare. E tu lì senza poter correggere, tornare indietro, ridisegnare la scaletta. Come viene, viene. E, il giorno dopo, involtolare insalata, o diventare il cappello di un imbianchino. Ammesso che se li facciano ancora, i cappelli, col giornale – come barchette sul litorale delle loro facce.

Citazioni[modifica]

  • Abbiamo chiamato Umanesimo l'istante, lunghissimo, in cui, ereditando intuizioni che venivano da lontano, un'élite intellettuale iniziò a immaginare che l'uomo portasse dentro di sé un orizzonte spirituale non riconducibile, semplicemente, alla sua fede religiosa. (p. 105)
  • Altro evento. Il successo del vino hollywoodiano nasce anche da una rivoluzione linguistica. Fino a venti anni fa a parlare di vino, a giudicarlo, erano per lo più inglesi, o tutt'al più europei.
  • Arrivano da tutte le parti, i barbari. E un po' questo ci confonde, perché non riusciamo a tenere in pugno l'unità della faccenda, un'immagine coerente dell'invasione nella sua globalità. Ci si mette a discutere delle grandi librerie, dei fast-food, dei reality show, della politica in televisione, dei ragazzini che non leggono, e di un sacco di cose del genere, ma quello che non riusciamo a fare è guardare dall'alto, e scorgere la figura che gli innumerevoli villaggi saccheggiati disegnano sulla superficie del mondo. Vediamo i saccheggi, ma non riusciamo a vedere l'invasione. E quindi a comprenderla.
  • Bisogna concedere ai barbari la chance di essere un animale, con una sua compiutezza e un suo senso, e non pezzi del nostro corpo colpiti da una malattia. Bisogna fare lo sforzo di supporre, alle loro spalle, una logica non suicida, un movimento lucido, e un sogno vero.
  • Capisci come combattono e magari capirai chi sono.
  • Ci tengo a dire che non era un fesso, e scriveva per una rivista autorevole che si chiamava The Quarterly Musical Magazine and Review. E questo fu ciò che scrisse, e che io metto qui, come seconda epigrafe:"Eleganza, purezza e misura, che erano i principi della nostra arte, si sono gradualmente arresi al nuovo stile, frivolo e affettato, che questi tempi, dal talento superficiale, hanno adottato. Cervelli che, per educazione e abitudine, non riescono a pensare a qualcosa d'altro che i vestiti, la moda, il gossip, la lettura di romanzi e la dissipazione morale, fanno fatica a provare i piaceri, più elaborati e meno febbrili, della scienza e dell'arte. Beethoven scrive per quei cervelli, e in questo pare che abbia un certo successo, se devo credere agli elogi che, da ogni parte, sento fiorire per questo suo ultimo lavoro." Voilà.
  • Commercializzazione spinta uguale perdita dell'anima.
  • Complice una precisa innovazione tecnologica, un gruppo umano sostanzialmente allineato al modello culturale imperiale, accede a un gesto che gli era precluso, lo riporta istintivamente a una spettacolarità più immediata e a un universo linguistico moderno, e ottiene così di dargli un successo commerciale stupefacente.
  • Con quella lingua Parker ha contribuito significativamente a imporre a livello planetario l'amore per il vino hollywoodiano: non in malafede, gli piaceva davvero, e lo disse: in un modo che la gente poteva capire.
  • Così, per questo libro, io avrei scelto quattro epigrafi. Giusto per segnare i bordi del campo da gioco. Ecco la prima: viene da un bellissimo libro uscito da poco in Italia (ed. il Mulino). L'ha scritto Wolfgang Schivelbush ed è intitolato La cultura dei vinti. (Sono titoli a cui, essendo tifoso del Toro, non posso resistere). Ecco cosa dice a un certo punto: "Il timore di essere sopraffatti e distrutti da orde barbariche è vecchio come la storia della civiltà. Immagini di desertificazione, di giardini saccheggiati da nomadi e di palazzi in sfacelo nei quali pascolano le greggi sono ricorrenti nella letteratura della decadenza dall'antichità fino ai giorni nostri." Copiate e mettete da parte.
  • Così si rassegnò a vivere in perenne indigenza economica. Lui diceva che ciò gli aveva quanto meno riservato un privilegio sottile: svegliarsi quando cavolo gli pareva, ogni mattina. [Riferito a Walter Benjamin]
  • Credetemi: è dall'alto, che bisognerebbe guardare. È dall'alto che forse si può riconoscere la mutazione genetica, cioè le mosse profonde che poi creano, in superficie, i guasti che conosciamo. Io cercherò di farlo provando a isolare alcune mosse che mi sembra siano comuni a molti degli atti barbarici che rileviamo in questi tempi. Mosse che alludono a una precisa logica, per quanto difficile da capire, e a una chiara strategia, per quanto inedita.
  • Da Baudelaire alle pubblicità, qualsiasi cosa su cui si chinava diventava la profezia di un mondo a venire, e l'annuncio di una nuova civiltà.
  • Dal vino si impara un'ipotesi importante: quando percepiamo un'evidente perdita di anima, lì stanno lavorando, sotto la superficie di un'apparente barbarie, eventi di natura diversa che è possibile riconoscere uno ad uno.
  • Dunque, nuovo indizio: i barbari usano una lingua nuova. Tendenzialmente più semplice. Chiamiamola: moderna.
  • E quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro alle orecchie e ha deciso di vivere sott'acqua.
  • È un punto importante: lì trova fondamento uno dei grandi luoghi comuni che da sempre covano sotto la superficie della paura dei barbari: il pensiero che loro siano l'avidità contrapposta alla cultura; la certezza che si muovano per un'ipertrofica, quasi immorale, avidità di guadagno, di vendite, di profitti.
  • È ovvio che, una volta isolato, qualsiasi segmento del corpo risulta fragile, immotivato, e perfino ridicolo. Ma è il movimento armonico di tutto l'animale, che bisognerebbe essere capaci di vedere. Se c'è una logica, nel movimento dei barbari, è solo leggibile a uno sguardo capace di assemblarne i diversi pezzi. Altrimenti è chiacchiera da bar.
  • È un viaggio per viandanti pazienti, un libro.
  • Ecco: lui non cercava mai di capire cos'era il mondo, ma, sempre, cosa stava per diventare il mondo. [Riferito a Walter Benjamin]
  • Eppure, in quella innegabile perdita di ricchezza, in quella volontaria riduzione di possibilità, in quella ritirata strategica geniale, quegli uomini trovarono la strettoia attraverso cui arrivare a un mondo nuovo, che tutto sarebbe stato tranne una perdita di anima.
  • Era il genio assoluto di un'arte molto particolare, che un tempo si chiamava profezia, e adesso sarebbe più proprio definire come: l'arte di decifrare le mutazioni un attimo prima che avvengano. [Riferito a Walter Benjamin]
  • Era un americano e così sapeva, con lo stesso istinto che altri misero a frutto a Hollywood, che quel vino doveva essere semplice e spettacolare. [Riferito al Sig. Mondavi]
  • Era un pioniere, non aveva quattro generazioni di artisti del vino alle spalle, e faceva vino dove nessuno aveva mai pensato di fare altro che pesche e fragole. [Riferito al Sig. Mondavi]
  • Erano aspiranti lettori che non avevano mai aperto un libro.
  • Erano mosse apparentemente suicide. Ma erano il movimento di una zampa, o la flessione della schiena, o l'angolo di uno sguardo: intorno c'era l'animale, ed aveva un piano, ed era l'animale, l'unico, che sarebbe sopravvissuto.
  • I barbari, eccoli qua.
  • Il braccio che è diventato pinna, forse non è un cancro, ma l'inizio di un pesce.
  • Il punto è importante proprio per il tipo di evidenza che assume in una cultura ancora fortemente romantica come la nostra: quel vino nega uno dei principi dell'estetica che ci è propria: l'idea che per raggiungere l'alta nobiltà del valore vero si debba passare per un tortuoso cammino se non di sofferenza quanto meno di pazienza e apprendimento.
  • Il vino hollywoodiano si è imposto nel mondo anche per la ragione ovvia che è di matrice americana. Puoi inventarti tutte le ragioni raffinate che vuoi, ma alla fine, se vuoi capire come mai oggi nello Yemen bevono vino hollywoodiano, e in Sudafrica producono vino hollywoodiano e perfino nelle Langhe lo fanno, la risposta più semplice è: perché la cultura americana è la cultura dell'impero. E l'impero è ovunque, anche nelle Langhe.
  • Impara a respirare con le branchie Google!
  • In quel preciso punto, dove sembrano essersi perse forza e cultura, passano in realtà correnti fortissime di energia, generate da eventi prossimi, che sembrano avere bisogno, per esprimersi, di quella strettoia, di quella discesa, di quella ritirata strategica.
  • In realtà, terra per coltivare chardonnay, cabernet sauvignon o merlot ce n'è a bizzeffe e in molte regioni del globo.
  • Insomma, non aveva tabù. [Riferito al Sig. Mondavi]
  • La spettacolarità diventa un valore. Il valore.
  • La sua piccola rivoluzione è sintetizzata in questo orrore: si mise a dare i voti ai vini. [Riferito a Robert M. Parker. Parker]
  • La vecchia e cara Europa di Thomas Mann e degli antichi parapetti di Dresda non conta più nulla.
  • Liberi poi di giudicare che, comunque, questa nuova forma di energia, di senso, di civiltà, non è all'altezza di quella precedente: questo è assolutamente possibile.
  • Lo faceva godere studiare l'esatto punto in cui una civiltà trova il punto d'appoggio per ruotare su se stessa e diventare paesaggio nuovo e inimmaginabile. Lo faceva morire descrivere quel movimento titanico che per i più era invisibile, e per lui, invece, così evidente. [Riferito a Walter Benjamin]
  • Ma forse in ogni zolla, a saperla leggere, c'è il campo intero.
  • Nel suo piccolo, il microcosmo del vino descrive l'avvento, a livello planetario, di una prassi che, salvando il gesto, sembra (ho detto sembra) disperderne il senso, la profondità, la complessità, l'originaria ricchezza, la nobiltà, perfino la storia.
  • Nell'apparente indigenza di quel particolare, trova appoggio una forza più ampia che, senza quella debolezza, non starebbe in piedi.
  • Nelle parole d'ordine dei barbari risuona il morbido diktat dell'impero.
  • Noi iniziammo a masticare chewingum (come diavolo si scrive?) e loro iniziarono a bere vino.
  • Non è un'ipotesi che aiuta a capire i barbari ma soltanto a capire la loro tecnica d'invasione: come si muovono, non chi sono e perché sono così (che è, questa sì, la domanda affascinante).
  • Ora: nel mio mondo scarseggia l'onestà intellettuale, ma non l'intelligenza.
  • Pietro Anastasi finì per essere il simbolo vivente di un'intera classe sociale: quella di chi lasciava a malincuore il meridione per andare a guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del Nord.
  • Quello che avviene è anche che una certa massa di persone invada un territorio a cui, fino ad allora, non aveva accesso: e quando prendono posto non si accontentano delle ultime file: spesso, anzi, cambiano il film, e mettono su quello che piace a loro.
  • Riassumendo il microevento: c'è una rivoluzione tecnologica che d'improvviso rompe i privilegi della casta che deteneva il primato dell'arte.
  • Rinunciare ai cavalli, alla civiltà dei cavalli, era forse la ritirata strategica necessaria, la inevitabile perdita di anima, per ottenere lo sviluppo di un'energia che non sarebbe poi apparsa, obbiettivamente, come una barbarie.
  • Se c'è una logica, nel movimento dei barbari, è solo leggibile a uno sguardo capace di assemblarne i diversi pezzi.
  • Se la farinata l'avessero inventata in Nebraska, facilmente adesso la mangerebbero anche nello Yemen.
  • Se si potessero chiedere in quel modo i libri, quanta gente di più entrerebbe nelle librerie e comprerebbe libri?
  • Se una cosa vende molto, vale poco. L'adesione irrazionale a un principio del genere è probabilmente uno dei peccati capitali di ogni grande civiltà nella propria fase di decadenza.
  • Se un tempo, dunque, l'equilibrio da salvaguardare era quello tra la forza di una sostanza e la seduzione della superficie, per il barbaro il problema si presenta in termini profondamente mutati: perché per lui la seduzione è una forma di forza, e la superficie è il luogo, esteso, della sostanza. Dove noi vediamo un'antitesi, o quanto meno due elementi di pasta diversa, lui vede un unico fenomeno. Dove noi cerchiamo una risposta, per lui non esiste la domanda. (p. 137)
  • Si imparano un sacco di cose, avendo la pazienza di farlo.
  • Si sono adattati, hanno corretto due o tre cose, e l'hanno fatto. Anche molto bene, bisogna dire.
  • Suonerà assurdo, ma niente di tutto quello che ho raccontato sarebbe probabilmente successo senza l'invenzione dell'aria condizionata.
  • Una competizione tra un potere consolidato e degli outsider ambiziosi.
  • Una mutazione molto simile a quelle che cercavamo.
  • Un'emozione per chiunque.
  • Vabbè, fine della predica. Ma era una cosa che ci tenevo a dire.
  • Vediamo i saccheggi, ma non riusciamo a vedere l'invasione.
  • Vino senz'anima.
  • Voglio dire che ad affascinarlo, nel presente, erano gli indizi delle mutazioni che, quel presente, avrebbero dissolto.
  • Vorrei studiare i saccheggi non tanto per spiegare com'è andata e cosa si può fare per ritirarsi in piedi, quanto per arrivare a leggerci dentro il modo di pensare dei barbari.

Mr Gwyn[modifica]

Incipit[modifica]

Mentre camminava per Regent's Park – lungo un viale che sempre sceglieva, tra i tanti – Jasper Gwyn ebbe d'un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per guadagnarsi da vivere non era più adatto a lui. Già altre volte lo aveva sfiorato quel pensiero, ma mai con simile pulizia e tanto garbo.

Citazioni[modifica]

  • Adesso non le riusciva di tornare indietro da nessuna parte, e nessun cammino pareva possibile, d'altronde, senza di lui.
  • Come accade spesso, ci misero un po' a ricordarsi che, quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui – altro non c'è, di adatto.
  • Con una matita, allora, ogni tanto scriveva parole, poi strappava il foglietto e lo attaccava con una puntina al pavimento di legno, scegliendo ogni volta un posto diverso, come uno che disponesse trappole per topi.
  • Corse via come se fosse in ritardo di anni. In un certo modo, lo era.
  • Così finì per capire che si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che, solo, li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli. I figli per i genitori, il successo per gli artisti, le montagne troppo alte per gli alpinisti. Scrivere libri, per Jasper Gwyn. Capirlo lo fece sentire sperduto, e indifeso come solo sono i bambini, quelli intelligenti.
  • Di cosa siamo capaci, pensò. Crescere, amare, fare figli, invecchiare – e tutto questo mentre anche siamo altrove, nel tempo lungo di una risposta non arrivata, o di un gesto non finito. Quanti sentieri, e a che passo differente li risaliamo, in quello che sembra un unico viaggio.
  • Disse che gli sarebbe piaciuto qualcosa di immobile come un volto che invecchia.
  • Due giorni dopo, quando la donna slovena partì, Jasper Gwyn le lasciò una lista da lui compilata di tredici marche di whisky scozzese. – Cosa sono? –, chiese lei. – Bei nomi. Te li regalo.-
  • Era incredibile come quell'uomo avesse capito tutto senza praticamente fare una sola domanda. Forse leggere migliaia di libri non è poi così inutile, pensò.
  • In amore mentiamo tutti.
  • Jasper Gwyn pensò che era esattamente così, la gente non si fida di una caramella trovata sul fondo di una borsa.
  • Jasper Gwyn si chiese se l'avrebbe mai più rivista, e decise che sì, da qualche parte, ma fra molti anni, in un'altra solitudine.
  • Le risoluzioni definitive si prendono sempre e soltanto per uno stato d'animo che non è destinato a durare.
  • Lei disse, a un certo punto, che avrebbe voluto un mondo senza numeri, e una vita senza ripetizioni.
  • – Lei non è vecchia. Lei è morta.– La signora alzò le spalle. – Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.
  • Mentre vedeva l'inchiostro blu rimanere sulla carta ad annotare l'orrore di un nome da ospedale e la prosa di un arido indirizzo si ricordò di come qualsiasi incantesimo sia fragile oltre ogni dire, e velocissima la vita nel suo rapinare.
  • Non l'avrebbe potuto immaginare, prima, ma proprio la cosa più assurda – che quell'uomo la fissasse – era divenuta la cosa di cui aveva bisogno, e senza la quale non ritrovava nulla di se stessa.
  • – Non sono tranquillo. Ho solo detto che ho tempo. Pensavo di entrare nel panico fra qualche giorno. – Sempre rimandare voi giovani.
  • Persero molto tempo a divagare sulla natura delle lampadine, e Jasper Gwyn finì per scoprire un universo di cui non aveva mai sospettato l'esistenza. Gli piacque particolarmente venire a sapere che le forme delle lampadine sono infinite, ma sedici sono quelle principali, e per ognuna c'è un nome. Per un'elegante convenzione, sono tutti nomi di regine o principesse. Jasper Gwyn scelse le Caterina de' Medici, perché sembravano lacrime sfuggite a un lampadario.
  • Poi stettero un bel po' in silenzio, ognuno con i suoi pensieri, sembravano una coppia di quelle che si amano da tantissimo tempo e non hanno più bisogno di parlare.
  • Prese i fogli in mano. Odiava leggere a voce alta le cosa che aveva scritto – leggerle ad altri. Gli era sempre sembrato un gesto senza vergogna. Ma lì iniziò a farlo, cercando di farlo bene – con la lentezza che era necessaria, e la cura. Molte frasi già gli sembravano inesatte, ma si costrinse a leggere tutto proprio come l'aveva scritto.
  • Se devo dimenticarti mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato.
  • Si salutarono stringendosi la mano, e la cosa sembrò ad entrambi di un'esattezza e di un'idiozia memorabili.
  • Un giorno mi sono accorto che non mi importava più di nulla, e che tutto mi feriva a morte.
  • – Una luce è giusto uno spicchio di storia. Se c'è una luce che è come lei, ci sarà anche un rumore, un angolo di strada, un uomo che cammina, molti uomini, o una donna sola, cose del genere. Non si fermi alla luce, pensi a tutto il resto, pensi a una storia. Riesce a capire che esiste, da qualche parte, e che se lei la trovasse, quello sarebbe il suo ritratto? –
  • – Voglio dire che prima o poi smetterà di rompermi i coglioni ovunque io vada, e io proverò lo stesso sollievo che si prova quando in una stanza si spegne il motore del frigorifero, ma anche lo stesso sgomento inevitabile, e la sensazione, che lei certo conoscerà, di non essere sicuri di sapere cosa farsene di quell'improvviso silenzio, e forse di non esserne in fondo all'altezza.
  • Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento. – Di colpo, o agonizzando un po'? –, chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.

Novecento[modifica]

Incipit[modifica]

Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire... Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi... Eppure c'era sempre uno, uno solo, uno che per primo... la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte... magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni... alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare... e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov'era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l'America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l'aveva fatta lui, l'America.

Citazioni[modifica]

  • Quello che per primo vede l'America. Su ogni nave ce n'è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no... e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c'aveva già quell'istante stampato nella vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l'America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù per nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido (gridando), AMERICA, c'era già, in quegli occhi, di bambino, tutta l'America.
    Lì, ad aspettare.
    Questo me l'ha insegnato Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, il più grande pianista che abbia mai suonato sull'Oceano. Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto. (p. 12)
  • Io ne ho viste, di Americhe... Sei anni su quella nave, cinque, sei viaggi ogni anno, dall'Europa all'America e ritorno, sempre a mollo nell'Oceano, quando scendevi a terra non riuscivi neanche a pisciare dritto nel cesso. Lui era fermo, lui, ma tu, tu continuavi a dondolare. Perché da una nave si può anche scendere: ma dall'Oceano... (p. 12)
  • [...] mi misi a suonare. Lui se ne stette lì a fissarmi senza muovere un muscolo. Aspettò che finissi, senza dire una parola. Poi mi chiese:
    "Cos'era?".
    "Non lo so."
    Gli si illuminarono gli occhi.
    "Quando non sai cos'è, allora è jazz."
    Poi fece una cosa strana con la bocca, forse era un sorriso, aveva un dente d'oro proprio qui, così in centro che sembrava l'avesse messo in vetrina per venderlo.
    "Ci vanno matti, per quella musica, lassù." (p. 13)
  • Suonavamo perché l'Oceano è grande, e fa paura, suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov'era e chi era. Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio. E suonavamo il ragtime, perché è la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede. Su cui Dio ballava, se solo era negro. (pp. 13-14)
  • Non credo che ci sia bisogno di spiegarvi come questa nave sia, in molti sensi, una nave straordinaria e in definitiva unica. Al comando del capitano Smith, noto claustrofobo e uomo di grande saggezza (avrete certo notato che vive in una scialuppa di salvataggio), lavora per voi uno staff praticamente unico di professionisti assolutamente fuori dall'ordinario: Paul Siezinskj, timoniere, ex sacerdote polacco, sensitivo, pranoterapeuta, purtroppo cieco... Bill Joung, marconista, grande giocatore di scacchi, mancino, balbuziente... il medico di bordo, dott. Klausermanspitzwegensdorfentag, aveste urgenza di chiamarlo siete fregati..., ma soprattutto:
    Monsieur Pardin,
    lo chef,
    direttamente proveniente da Parigi dove peraltro è subito tornato dopo aver verificato di persona la curiosa circostanza che vede questa nave priva di cucine, come ha argutamente notato, tra gli altri, Monsieur Camembert, cabina 12, che oggi si è lamentato per aver trovato il lavabo pieno di maionese, cosa strana, perché di solito nei lavabi teniamo gli affettati, questo per via dell'inesistenza delle cucine, cosa a cui va attribuita tra l'altro l'assenza su questa nave di un vero cuoco, quale certamente era Monsieur Pardin, subito tornato a Parigi da cui proveniva direttamente, nell'illusione di trovare qui sopra delle cucine che invece, a rimanere fedeli ai fatti, non ci sono e questo grazie alla spiritosa dimenticanza del progettista di questa nave,l'insigne ingegner Camilleri, anoressico di fama mondiale, a cui prego di indirizzare il vostro più caloroso applausooooooo...
    (Band in primo piano)
    Credetemi, non ne troverete altre di navi così: forse, se cercherete per anni ritroverete un capitano claustrofobico, un timoniere cieco, un marconista balbuziente, un dottore dal nome impronunciabile, tutti sulla stessa nave, senza cucine. (pp. 15-16)
  • "Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla". (p. 17)
  • A quel bambino incominciò a dare il suo, di nome: Danny Boodmann. L'unica vanità che si concesse in tutta la vita. Poi ci aggiunse T.D. Lemon, proprio uguale alla scritta che c'era sulla scatola di cartone, perché diceva che faceva fine avere delle lettere in mezzo al nome: "tutti gli avvocati ce l'hanno," confermò Burty Bum, un macchinista che era finito in galera grazie a un avvocato che si chiamava John P.T.K. Wonder. "Se fa l'avvocato lo ammazzo," sentenziò il vecchio Boodmann, però poi le due iniziali ce le lasciò, nel nome, e così venne fuori Danny Boodmann T.D. Lemon. Era un bel nome. Lo studiarono un po', ripetendolo a bassa voce, il vecchio Danny e gli altri, giù in sala macchine, con le macchine spente, a mollo nel porto di Boston. "Un bel nome," disse alla fine il vecchio Boodmann, "però gli manca qualcosa. Gli manca un gran finale." Era vero. Gli mancava un gran finale. "Aggiungiamo martedì," disse Sam Stull, che faceva il cameriere. "L'hai trovato martedì, chiamalo martedì." Danny ci pensò un po'. Poi sorrise. "È un'idea buona, Sam. L'ho trovato nel primo anno di questo nuovo, fottutissimo secolo, no? lo chiamerò Novecento." "Novecento?" "Novecento." "Ma è un numero!" "Era un numero: adesso è un nome." Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento. È perfetto. È bellissimo. Un gran nome, cristo, davvero un gran nome. Andrà lontano, con un nome così. Si chinarono sulla scatola di cartone. Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento li guardò e sorrise: loro rimasero di stucco: nessuno si aspettava che un bambino così piccolo potesse fare tutta quella merda. (pp. 20-21)
  • Aveva otto anni e si era già fatto avanti e indietro dall'Europa all'America una cinquantina di volte. L'Oceano era casa sua. E quanto alla terra, be', non ci aveva mai messo piede. L'aveva vista, dai porti, certo. Ma sceso, mai. Il fatto è che Danny aveva paura che glielo portassero via, con qualche storia di documenti e visti e cose del genere. Così Novecento rimaneva a bordo, sempre, e poi a un certo punto si ripartiva. A voler essere precisi, Novecento non esisteva nemmeno, per il mondo: non c'era città, parrocchia, ospedale, galera, squadra di baseball che avesse scritto da qualche parte il suo nome. Non aveva patria, non aveva data di nascita, non aveva famiglia. Aveva otto anni: ma ufficialmente non era mai nato. (p. 22)
  • Quando si trovò il comandante di fianco, bollito dalla sorpresa, lui, letteralmente bollito, quando se lo trovò di fianco, tirò su col naso, la riccona dico, tirò su col naso e indicando il pianoforte gli chiese:
    "Come si chiama?".
    "Novecento."
    "Non la canzone, il bambino."
    "Novecento."
    "Come la canzone?" (pp. 24-25)
  • Uno che su una nave suona la tromba, non è che quando arriva la burrasca possa fare un granché. Può giusto evitare di suonare la tromba, tanto per non complicare le cose. (p. 26)
  • Quel che sapevo io era che tutte le volte, prima di iniziare a suonare, lì, in sala da ballo, Fritz Hermann, un bianco che non capiva niente di musica ma aveva una bella faccia per cui dirigeva la band, gli si avvicinava e gli diceva sottovoce:
    "Per favore, Novecento, solo le note normali, Okay?". (p. 27)
  • Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l'Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes. (pp. 29-30)
  • Il mondo, magari, non l'aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l'anima.
    In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia... Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava... Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all'altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. (p. 33)
  • Insomma, qualcuno andò da Jelly Roll Morton e gli disse: su quella nave c'è uno che col pianoforte fa quel che vuole. E quando ha voglia suona il jazz, ma quando non ha voglia suona qualcosa che è come dieci jazz messi insieme. Jelly Roll Morton aveva un caratterino, lo sapevano tutti. Disse: "Come fa a suonare bene uno che non ha nemmeno le palle per scendere da una stupida nave?". E giù a ridere, come un matto, lui, l'inventore del jazz. (p. 36)
  • Era fatto così, lui. Un po' come il vecchio Danny: non aveva il senso della gara, non gli fregava niente sapere chi vinceva: era il resto che lo stupiva. Tutto il resto. (p. 38)
  • "Lei è quello che ha inventato il jazz, vero?"
    "Già. E tu sei quello che suona solo se ha l'Oceano sotto il culo, vero?"
    "Già."
    Si erano presentati. (p. 38)
  • A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'è una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. Cos'è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C'ha un'anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un'ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall'inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d'accordo, allora buona notte, 'notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all'Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: "A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave".
    Ci rimasi secco.
    Fran. (pp. 44-45)
  • "Devo vedere una cosa, laggiù," mi disse.
    "Quale cosa?" Non voleva dirla, e si può anche capirlo perché quando alla fine la disse, quel che disse fu:
    "Il mare".
    "II mare?
    "Il mare."
    Pensa te. A tutto potevi pensare, ma non a quello. Non volevo crederci, sapeva di presa per il culo bell'e buona. Non volevo crederci. Era la cazzata del secolo.
    "Sono trentadue anni che lo vedi, il mare, Novecento."
    "Da qui. Io lo voglio vedere da là. Non è la stessa cosa." (pp. 45-46)
  • [...] alla fine, d'improvviso, vedevi il mare. Non l'aveva mai visto prima, lui. Ne era rimasto fulminato. L'aveva salvato, a voler credere a quello che diceva. Diceva: "È come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: 'banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa'". (p. 47)
  • "Posso rimanere anche anni, qua sopra, ma il mare non mi dirà mai nulla. Io adesso scendo, vivo sulla terra e della terra per anni, divento uno normale, poi un giorno parto, arrivo su una costa qualsiasi, alzo gli occhi e guardo il mare: è lì, io l'ascolterò gridare." (p. 47)
  • Non era una di quelle persone di cui ti chiedi chissà se è felice quello. Lui era Novecento, e basta. Non ti veniva da pensare che c'entrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto, non contava. (p. 50)
  • Adesso so che quel giorno Novecento aveva deciso di sedersi davanti ai tasti bianchi e neri della sua vita e di iniziare a suonare una musica assurda e geniale, complicata ma bella, la più grande di tutte. E che su quella musica avrebbe ballato quel che rimaneva dei suoi anni. E che mai più sarebbe stato infelice. (p. 51)
  • Andavo di fantasia, e di ricordi, è quello che ti rimane da fare, alle volte, per salvarti, non c'è più nient'altro. Un trucco da poveri, ma funziona sempre. (p. 53)
  • Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu/
    Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/
    Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita/
    Se quella tastiera è infinita, allora/
    Su quella tastiera non c'è musica che puoi suonare. Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio/
    Cristo, ma le vedevi le strade?/
    Anche solo le strade, ce n'è a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una/
    A scegliere una donna/
    Una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire/
    Tutto quel mondo/
    Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce/
    E quanto ce n'è/
    Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell'enormità, solo a pensarla? A viverla.../
    Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n'erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita.
    Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò. Lasciatemi tornare indietro. (pp. 56-57)
  • Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio. (p. 58)
  • I desideri stavano strappandomi l'anima. Potevo viverli, ma non ci sono riuscito.
    Allora li ho incantati. (p. 58)
  • Il padre che non sarò mai l'ho incontrato guardando un bambino morire, per giorni, seduto accanto a lui, senza perdere niente di quello spettacolo tremendo, bellissimo, volevo essere l'ultima cosa che guardava al mondo, quando se ne andò, guardandomi negli occhi, non fu lui ad andarsene ma tutti i figli che mai ho avuto. (p. 59)
  • È un lavoro di cesello. Ho disarmato l'infelicità. Ho sfilato via la mia vita dai miei desideri. Se tu potessi risalire il mio cammino, li troveresti uno dopo l'altro, incantati, immobili, fermati lì per sempre a segnare la rotta di questo viaggio strano che a nessuno ho raccontato se non a te/ (p. 60)
  • Già me la vedo la scena, arrivato lassù, quello che cerca il mio nome nella lista e non lo trova.
    "Come ha detto che si chiama?"
    "Novecento."
    "Nosjinskij, Notarbartolo, Novalis, Nozza..."
    "È che sono nato su una nave."
    "Prego?"
    "Son nato su una nave e ci sono anche morto, non so se risulta lì sopra..."
    "Naufragio?"
    "No. Esploso. Sei quintali e mezzo di dinamite. Bum."
    "Ah. Tutto bene adesso?"
    "Sì, sì, benissimo... cioè... c'è solo 'sta faccenda del braccio... si è perso un braccio... ma mi hanno assicurato..."
    "Manca un braccio?"
    "Sì. sa, nell'esplosione..."
    "Dovrebbero essercene un paio di là... qual è che le manca?"
    "Il sinistro."
    "Ahia."
    "Sarebbe?"
    "Ho paura che siano due destri, sa?"
    "Due bracci destri?"
    "Già. Nel caso, lei avrebbe problemi a..."
    "A cosa?"
    "Voglio dire, se prendesse un braccio destro..."
    "Un braccio destro al posto del sinistro?"
    "Sì."
    "Mah... no, in linea di massima... meglio un destro che niente..."
    "È quello che penso anch'io. Aspetti un attimo, glielo vado a prendere"
    "Se mai ripasso fra qualche giorno, le fosse arrivato un sinistro..."
    "Senta, ne ho uno bianco e uno negro..."
    "No, no, tinta unita... niente contro i negri eh, è solo questione di..."
    Sfiga. Tutt'un'eternità in Paradiso con due mani destre. (pp. 60-61)

Explicit[modifica]

Certo... sai che musica però... con quelle mani, due, destre... se solo c'è un pianoforte...
(Ridiventa serio)
È dinamite quella che hai sotto il culo, fratello. Alzati da lì e vattene. È finita. Questa volta è finita davvero.
(Esce)

Oceano mare[modifica]

Incipit[modifica]

Sabbia a perdita d'occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell'aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord.
La spiaggia. E il mare.
Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell'uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un'inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.

Citazioni[modifica]

  • Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c'è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è vivere che voglio. Ce la farò, vero? (Elisewin: I, IV; 1998, p. 28)
  • La natura ha una sua perfezione soprendente e questo è il risultato di una somma di limiti. La natura è perfetta perché non è infinita. (Bartleboom: I, V; 1998, p. 34)
  • Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle sue labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all'altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell'acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l'ombra di un sapore che la costringe a pensare "acqua di mare, quest'uomo dipinge il mare con il mare" – ed è un pensiero che dà i brividi.
  • Aveva la bellezza di cui solo i vinti sono capaci. E la limpidezza delle cose deboli. E la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.
  • Nel cerchio imperfetto del suo universo ottico la perfezione di quel moto oscillatorio formulava promesse che l'irripetibile unicità di ogni singola onda condannava a non essere mantenute. (p. 31)
  • È uno specchio, questo mare. Qui, nel suo ventre, ho visto me stesso. Ho visto davvero. (Thomas)
  • In bilico sull'orlo della terra, a un passo dal mare in burrasca, riposava immobile la locanda Almajer, immersa nel buio della notte come un ritratto, pegno d'amore, nel buio di un cassetto.
  • Davvero ci sono momenti in cui l'onnipresente e logica rete delle sequenze causali si arrende, colta di sorpresa dalla vita, e scende in platea, mescolandosi tra il pubblico, per lasciare che sul palco, sotto le luci della libertà vertiginosa e improvvisa, una mano invisibile peschi nell'infinito grembo del possibile e tra milioni di cose, una sola ne lasci accadere.
  • Fanno delle cose, le donne, alle volte, che c'è da rimanerci secchi. Potresti passare una vita a provarci: ma non saresti capace di avere quella leggerezza che hanno loro, alle volte. Sono leggere dentro. Dentro.
  • Forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano.
  • La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l'ottava i fantasmi della follia, la nona è la carne e la decima è un uomo che mi guarda e non uccide. L'ultima è una vela. Bianca. All'orizzonte.
  • C'è solo il mare. Ogni cosa è diventata mare. Noi abbandonati dalla terra siamo diventati il ventre del mare, e il ventre del mare è noi, e in noi respira e vive.
  • Il mare è senza strade, il mare è senza spiegazioni.
  • Io ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa amare di più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato che andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce ad immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. È scoppiata tutto d'un colpo. C'erano cocci ovunque, e tagliavano come lame.
  • La guardò. Ma d'uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte. Sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta. Qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l'immagine– uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l'unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire-vedere-sentire– perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere –solo– ricevere– negli occhi – il mondo.
  • Quando facevo i ritratti alla gente iniziavo dagli occhi. Li studiavo per minuti e minuti, li abbozzavo con la matita e quello era il segreto perché una volta che voi avete disegnato gli occhi.. Succede che tutto il resto viene da sé, è come se tutti gli altri pezzi scivolassero da soli intorno a quel punto iniziale [...] il problema è: dove cavolo sono gli occhi del mare?
  • Sai cos'è bello, qui? Guarda: noi camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sulla sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai questa grande spiaggia e non ci sarà più nulla, un'orma, un segno qualsiasi, niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. È come se noi non fossimo mai esistiti. Se c'è un luogo, al mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. È tempo. Tempo che passa. E basta.
  • La sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso, il destino, quando, d'un tratto, esplode.
  • Non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada. Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo... salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l'onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l'unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l'ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. È lì che salta tutto, non c'è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo. Mi sono fatta tanto di quel male che tu non puoi nemmeno immaginare.
  • Non si è mai lontani abbastanza per trovarsi.
  • – Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.
    Silenzio.
    – Che sia troppo tardi, madame.
  • Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno un padre, un amore, qualcuno capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume immaginarlo, inventarlo e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare.
  • Posa la penna, piega il foglio, lo infila in una busta. Si alza, prende dal suo baule una scatola di mogano, solleva il coperchio, ci lascia cadere dentro la lettera, aperta e senza indirizzo. Nella scatola ci sono centinaia di buste uguali. Aperte e senza indirizzo. Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle –Ti aspettavo. Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni –i giorni, gli istanti– che quell'uomo, prima ancora di conoscerla, già le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell'uomo –Tu sei matto. E per sempre lo amerà.
  • Se lo guardi non te ne accorgi: di quanto rumore faccia. Ma nel buio... Tutto quell'infinito diventa solo fragore, muro di suono, urlo assillante e cieco. Non lo spegni, il mare, quando brucia nella notte.
  • Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiude, e diventa sentiero distinto, e ormai inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell'avvicinamento. Quell'accostarsi. Si vorrebbe non finisse mai. Il gesto di consegnarsi al destino. Quella è un'emozione: Senza più dilemmi, senza più menzogne. Sapere dove. E raggiungerlo. Qualunque sia, il destino.
  • Succede. Uno si fa dei sogni, roba sua, intima, e poi la vita non ci sta a giocarci insieme, e te li smonta, un attimo, una frase, e tutto si disfa. Succede. Mica per altro che vivere è un mestiere gramo. Tocca rassegnarsi. Non ha gratitudine, la vita, se capite cosa voglio dire.
  • Tra tutte le vite possibili, ad una bisogna ancorarsi per poter contemplare, sereni, tutte le altre.
  • Un pretesto per tornare bisogna sempre seminarselo dietro, quando si parte.
  • Uno si costruisce grandi storie, questo il fatto, e può andare avanti anni a crederci, non importa quanto pazze sono, e inverosimili, se le porta addosso, e basta. Si è anche felici, di cose del genere. Felici. E potrebbe non finire mai. Poi, un giorno, succede che si rompe qualcosa, nel cuore del gran marchingegno fantastico, tac, senza nessuna ragione, si rompe d'improvviso e tu rimani lì, senza capire come mai tutta quella favolosa storia non ce l'hai più addosso, ma davanti, come fosse la follia di un altro, e quell'altro sei tu. Tac. Alle volte basta un niente. Anche solo una domanda che affiora. Basta quello.
  • Come glielo dici, a un uomo così, che adesso sono io che voglio insegnargli una cosa e tra le sue carezze voglio fargli capire che il destino non è una catena ma un volo, e se solo ancora avesse voglia davvero di vivere lo potrebbe fare, e se solo avesse voglia davvero di me potrebbe riavere mille notti come questa invece di quell'unica, orribile, a cui va incontro, solo perché lei lo aspetta, la notte orrenda, e da anni lo chiama.
  • "Io verrei qui e vi porterei via, per sempre." Sorride, Ann Deverià. "Riditemelo Bartleboom. Proprio in quel tono lì, vi prego. Riditemelo."
  • "Mi sono addormentato, e ti ho sognata." "E com'ero?" "Viva" "Viva? E poi?" "Viva. Non chiedermi altro. Eri viva." "Viva... io?"
  • Il mondo di fuori è sempre là. Puoi fare qualsiasi cosa ma stai certo che te lo ritrovi al suo posto, sempre. C'è da non crederci, ma è così.
  • "Voi avete dei cattivi ricordi, dottore. E dei cattivi ricordi guastano la vita. "È una vita cattiva, Marie, che guasta i ricordi."
  • Camminava adagio, senza più pensieri né storia.
  • C'è gente che muore e, con tutto il rispetto, non ci si perde niente. Ma lui era uno di quelli che quando non ci sono più lo senti. Come se il mondo intero diventasse, da un giorno all'altro, un po' più pesante. Capace che questo pianeta, e tutto quanto, resta a galla nell'aria solo perché ci sono tanti Bartleboom, in giro, che ci pensano loro a tenerlo su. Con quella loro leggerezza. Senza aver la faccia da eroi, ma intanto tengono su la baracca. Sono fatti così.
  • Scrivere a qualcuno è l'unico modo di aspettarlo senza farsi del male.
  • Questo è davvero l'orrore… Il fatto è che non ci sono più pensieri, da nessuna parte dentro di te, non c'è più un pensiero, ma solo sensazioni, capite? Sensazioni...
  • La paura viene da fuori, questo io l'ho capito, tu sei lì e ti arriva addosso la paura, ci sei tu e c'è lei... è così... c'è lei e ci sono anch'io, e invece quel che succede a me è che d'improvviso io non ci sono più, c'è solo più lei... che però non è paura... io non so cosa sia...
  • – Prima deve finire il suo quadro – aveva sentenziato Dira. – Non lo finirà mai – diceva madame Deveirà. – Non morirà mai, allora.
  • Le donne, laggiù, tenevano un solo occhio scoperto, meravigliosamente dipinto con terre colorate. Si era sempre chiesto perché mai avrebbero dovuto nascondere l'altro. Una voce, nella sua testa, lo immobilizzò pronunciando una frase nitida ed esatta: -Perché nessun uomo potrebbe reggere il loro sguardo senza impazzire.
  • Questo, mi ha insegnato il ventre del mare. Che chi ha visto la verità rimarrà per sempre inconsolabile.
  • Una strada dentro, ce l'hanno tutti, cosa che facilita, per lo più, l'incombenza di questo viaggio nostro, e solo raramente, la complica. Adesso è uno di quei momenti che la complica. Volendo riassumere volendo, è quella la strada, quella dentro, che si disfa, si è disfatta, benedetta, non c'è più. Succede. Credetemi. E non è una cosa piacevole.
  • Così adesso, volendo riassumere volendo, il problema è questo, che ho tante strade intorno e nessuna dentro.
  • Non è che io non abbia le idee chiare, le ho chiarissime ma solo fino a un certo punto della questione. So perfettamente qual è la domanda. È la risposta che mi manca.
  • È un bel modo di perdersi, perdersi uno nelle braccia dell'altra.
  • Aveva in faccia quell'espressione che ha la gente, ogni tanto, quando proprio ha la testa vuota, svuotata, felice. Sono momenti strambi. Saresti capace di fare, senza saper perché, qualsiasi fesseria.
  • Immobile, sotto le coperte, aspettava di scoprire se sarebbe arrivato prima il sonno o la paura.
  • Non era tanto quel freddo che le filtrava da dentro e nemmeno il cuore, impazzito, o il sudore dappertutto, gelido, o il tremore della mano.Il peggio era quella sensazione di sparire, di uscire dalla propria testa, di essere soltanto indistinto panico e sussulti di paura.Pensieri come brandelli di ribellione-brividi-il volto irrigidito in una smorfia per riuscire a tenere gli occhi chiusi-per riuscire a non guardare il buio, orrore senza scampo.Una guerra.
  • Si senti scoppiare nella testa una bolla di vuoto.La conosceva bene quella segreta esplosione, invisibile dolore irracontabile. Ma conoscerla non serviva a niente.
  • Non so.Le cose più strane.Ma non è paura, proprio paura..è un po diverso..La paura viene da fuori, questo io l'ho capito, tu sei li e ti arriva addosso la paura, ci sei tu e c'è lei...Che però non è paura...Io non so cosa sia, voi lo sapete?
  • È un po come sentirsi morire o sparire. Ecco sparire. Sembra che gli occhi ti scivolino via dalla faccia, e le mani diventano come le mani di un altro, e allora tu pensi cosa mi sta succedendo?, e intanto il cuore ti batte dentro da morire, non ti lascia in pace...e da tutte le parti è come se dei pezzi di te se ne andassero, non li senti più... Insomma te ne sta per andare, e allora io mi dico devi pensare a qualche cosa, devi tenerti aggrappata a un pensiero, se riesco a farmi piccola in questo pensiero poi tutto passerà.
  • "Edel c'è un modo di fare degli uomini che non facciano del male?" Se la deve essere chiesta anche Dio, questa, al momento buono.
  • Diciamo tutto in una parola sola o in una sola parola tutto nascondiamo?

Omero, Iliade[modifica]

Incipit[modifica]

Tutto iniziò in un giorno di violenza.
Erano nove anni che gli Achei assediavano Troia: spesso avevano bisogno di viveri o animali o donne, e allora lasciavano l'assedio e andavano a procurarsi quel che volevano saccheggiando le città vicine. Quel giorno toccò a Tebe, la mia città. Ci presero tutto e se lo portarono alle loro navi.

Citazioni[modifica]

  • La tristezza è il nostro destino. Ma è per questo che le nostre vite saranno cantate per sempre, da tutti gli uomini che verranno. (Elena di Troia)
  • Oggi la pace è poco più che una convenienza politica: non è certo un sistema di pensiero e un modo di sentire veramente diffusi. (dalla postfazione)
  • Si considera la guerra un male da evitare, certo, ma si è ben lontani da considerarla un male assoluto: alla prima occasione, foderata di begli ideali, scendere in battaglia ridiventa velocemente un'opzione realizzabile. La si sceglie, a volte, perfino con una certa fierezza. Una reale, profetica e coraggiosa ambizione alla pace io la vedo soltanto nel lavoro paziente e nascosto di milioni di artigiani che ogni giorno lavorano per suscitare un'altra bellezza e il chiarore di luci limpide che non uccidono. (dalla postfazione)

Questa Storia[modifica]

Incipit[modifica]

Tiepida la notte di maggio a Parigi, mille novecento tre.
Dalle loro case, centomila parigini lasciarono a metà la notte, scolando in massa verso le stazioni Saint-Lazare e Montparnasse, stazioni ferroviarie.
Alcuni neanche andarono a dormire, altri puntarono la sveglia a un'ora assurda per poi scivolare via dal letto, lavarsi senza far rumore e sbattere nelle cose, cercando la giacca. In alcuni casi erano intere famiglie a venir via, ma per lo più furono singoli individui a intraprendere il viaggio, spesso contro ogni logica o buon senso. Le mogli, nel letto, poi, stiravano le gambe dalla parte adesso vuota. I genitori scambiavano due parole, dedotte dalla discussione del giorno prima, dei giorni prima, delle settimane prima. Erano incentrate sull'indipendenza dei figli. Il padre si alzava sul cuscino e guardava l'ora. Le due. Era un rumore molto strano perché centomila persone alle due di notte sono come un torrente che corre in un letto di nulla, spariti i sassi, muto il greto. Solo acqua contro acqua. Così le loro voci correvano tra saracinesche chiuse, strade vuote e oggetti fermi.

Citazioni[modifica]

  • Che stagione del cuore è questa, in cui ci si trova a correre in soccorso di anni dimenticati, fingendo di averli sentiti gridare aiuto?
  • È importante vedere come la gente sceglie i nomi. Morire e dare nomi – non si fa altro di sincero, probabilmente, per tutto il tempo che si campa.
  • Il talento vero è possedere le risposte quando ancora non esistono le domande.
  • La gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Ma non è triste quando aspetta o ricorda. Sembra triste. Ma è solo un po' lontana.
  • Le granate fischiavano sopra le loro teste, e, per errore umano o deficienza tecnica, spesso addosso alle teste – il cosiddetto fuoco amico. Così si moriva di piombo patrio. In un frastuono scioccante, gli uomini rimanevano abbandonati ai loro pensieri, costretti a trascorrere nella passività più assoluta quelli che in molti casi erano gli ultimi istanti della loro vita.
  • Raccontò che c'erano due strade, per tornare a casa, ma solo in una si sentiva il profumo di more, sempre, anche d'inverno. Disse che era la più lunga. E che suo padre prendeva sempre quella, anche quando era stanco, anche quand'era vinto. Spiegò che nessuno deve credere di essere solo, perché in ciascuno vive il sangue di coloro che l'hanno generato, ed è una cosa che va indietro fino alla notte dei tempi. Così siamo solo la curva di un fiume, che viene da lontano e non si fermerà dopo di noi.
  • E per la prima volta, seppur in modo confuso, intuì che ogni movimento tende all'immobilità, e che bello è solo l'andare che conduce a se stesso.
  • Scrivere è una forma sofisticata di silenzio.
  • Lasciami andare a vedere il Sogno, la Velocità, il Miracolo, non fermarmi con uno sguardo triste, questa notte lasciami vivere laggiù, sull'orlo del mondo, solo queste notte, poi tornerò. Così si chiuderà il cerchio delle cose non accadute.
  • Mi ha detto che secondo lui la gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo in una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Sembri triste, ma è solo che stai aspettando, o ricordando. Non è triste la gente che aspetta, e nemmeno quella che ricorda. Semplicemente è lontana.
  • Questa misteriosa circostanza per cui le cose del nostro passato continuano ad esistere anche quando escono dal raggio della nostra vita, e anzi maturano, portando frutti nuovi ad ogni stagione, per un raccolto di cui noi non sappiamo più nulla. La persistenza illogica della vita.
  • Voglio raccontarle una cosa, Florence. Mio padre era un uomo molto ricco, molto più di me. Si mangiò quasi tutto inseguendo un sogno assurdo, una faccenda di ferrovie, una bestialità. Gli piacevano i treni. Quando incominciò a vendere le proprietà io andai da mia madre e le chiesi: perché non lo fermi? Avevo sedici anni. Mia madre mi diede un ceffone. Poi mi disse una frase che lei, Florence, deve imparare a memoria. Mi disse: se ami qualcuno che ti ama, non smascherare mai i suoi sogni. Il più grande, e illogico, sei tu.
  • E le spiegò che la bellezza di un rettilineo è inarrivabile, perché in essa è sciolta qualsiasi curva, e insidia, in nome di un ordine clemente, e giusto. È una cosa che possono fare solo le strade, le disse, e che invece non esiste nella vita. Perché non corre diritto il cuore degli uomini e non c'è ordine, forse, nel loro andare.
  • Gli ho fatto che non ero ancora nata, e questa, per la gente, è una cosa difficile da capire. Ci ho messo tanto tempo a nascere. È andata così.
  • Elizaveta non contò quante volte vide il rettilineo d'arrivo, ma si accorse a poco a poco quel che Ultimo aveva cercato spesso di spiegarle, stava succedendo. Sentì ogni curva sciogliersi gradualmente nell'ordine illogico di un unico gesto, e trovò nella propria mente il cerchio che non esisteva se non per lei.

Senza sangue[modifica]

Incipit[modifica]

Nella campagna, la vecchia fattoria di Mato Rujo dimorava cieca, scolpita in nero contro la luce della sera. L'unica macchia nel profilo svuotato dalla pianura. I quattro uomini arrivarono su una vecchia Mercedes. La strada era scavata e secca – strada povera di campagna. Dalla fattoria, Manuel Roca li vide. Si avvicinò alla finestra. prima vide la colonna di polvere alzarsi sul profilo del mais. Poi sentì il rumore del motore. nessuno aveva più macchine, da quelle parti. Manuel Roca lo sapeva. Vide la mercedes spuntare lontano e poi scomparire dietro a un filare di querce. Poi non guardò più. Tornò verso la tavola e posò la mano sulla testa della figlia. Alzati, le disse. Prese una chiave dalla tasca, la appoggiò sul tavolo e fece un cenno col capo al figlio. Subito, disse il figlio. Erano bambini, due bambini.

Citazioni[modifica]

  • C'erano un sacco di cose che dovevamo distruggere per poter costruire quello che volevamo, non c'era altro modo, dovevamo essere capaci di soffrire e impartire sofferenza, chi avrebbe tollerato più dolore avrebbe vinto, non si può sognare un mondo migliore e pensare che te lo consegneranno solo perché lo chiedi, quelli non avrebbero mai ceduto, bisognava combattere.
  • Per quanto uno si sforzi di vivere una sola vita, gli altri ce ne vedranno dentro altre mille, e questa è la ragione per cui non si riesce a evitare di farsi male.
  • Capiva solo che nulla è più forte di quell'istinto a tornare dove ci hanno spezzato, e a replicare quell'istante per anni. Solo pensando che chi ci ha salvati una volta lo possa poi fare per sempre. In un lungo inferno identico a quello da cui veniamo. Ma d'improvviso clemente. E senza sangue.
  • Non si può seminare senza prima arare. Prima si deve spaccare la terra.
  • Non accadde nulla, perché alla vita manca sempre qualcosa per essere perfetta.
  • Sono mai stato in un attimo che non fosse questo?
  • Lo decide chi vince, quando una guerra finisce.
  • L'esattezza ti salverà.
  • Abbiamo rivoltato la terra in modo così violento che abbiamo ridestato la ferocia dei bambini.
  • L'uomo disse che si ricordava. Che non aveva fatto altro, per anni, che ricordarsi tutto.
  • Lei era un fantasma, e lui un uomo la cui vita si era conclusa tanto tempo prima.
  • Voi non ve ne siete più liberati, vi ha bruciato la vita intera, ve l'ha riempita di fantasmi.
  • Allora pensò che per quanto la vita sia incomprensibile, probabilmente noi la attraversiamo con l'unico desiderio di ritornare all'inferno che ci ha generati, e di abitarvi al fianco di chi, una volta, da quell'inferno, ci ha salvato.
  • Allora pensò che per quanto la vita sia incomprensibile, probabilmente noi la attraversiamo con l'unico desiderio di ritornare all'inferno che ci ha generati, e di abitarvi al fianco di chi, una volta, da quell'inferno, ci ha salvato. Provò a chiedersi da dove venisse quell'assurda fedeltà all'orrore, ma scoprì di non avere risposte. Capiva solo che nulla è più forte di quell'istinto a tornare dove ci hanno spezzato, e a replicare quell'istante per anni. Solo pensando che chi ci ha salvati una volta lo possa poi fare per sempre. In un lungo inferno identico a quello da cui veniamo. Ma d'improvviso clemente. E senza sangue.

Seta[modifica]

Incipit[modifica]

Benché suo padre avesse immaginato per lui un brillante avvenire nell'esercito, Hervé Joncour aveva finito per guadagnarsi da vivere con un mestiere insolito, cui non era estraneo, per singolare ironia, un tratto a tal punto amabile da tradire una vaga intonazione femminile. Per vivere, Hervé Joncour comprava e vendeva bachi da seta.

Citazioni[modifica]

  • Alzò lo sguardo su Hervè Joncour. I suoi occhi la fissavano, e lei capì che erano occhi bellissimi. Riabbassò lo sguardo sul foglio.
  • – Com'era la fine del mondo?– Gli chiese Baldabiou –Invisibile.
  • – Devo comunicarvi una cosa molto importante, monsieur. Facciamo tutti schifo. Siamo tutti meravigliosi, e facciamo tutti schifo.
  • E sentì il velluto della sua voce quando gli disse –sei tornato– dolcemente –sei tornato.
  • È uno strano dolore... Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai.
  • Era una donna alta, si muoveva con lentezza, aveva lunghi capelli neri che non raccoglieva mai sul capo. Aveva una voce bellissima.
  • (Hervè Joncour) era d'altronde uno di quegli uomini che amano 'assistere' alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a 'viverla'. Si sarà notato che essi osservano il loro destino nel modo in cui, i più, sono soliti osservare una giornata di pioggia.
  • I produttori di seta di Lavilledieu, chi più chi meno, erano dei gentiluomini, e mai avrebbero pensato di infrangere una qualsiasi legge nel loro paese. L'idea di farlo dall'altra parte del mondo, tuttavia, risultò loro ragionevolmente sensata.
  • Il sindaco lo fermò: – cosa diavolo dovrei fare? – niente. E sarete il sindaco di un paese ricco.
  • In due giorni, a cavallo, giunsero in vista del villaggio. Hervè Joncour vi entrò a piedi perché la notizia del suo arrivo potesse arrivare prima di lui.
  • L'ultima cosa che vide, prima di uscire, furono gli occhi di lei fissi sui suoi, perfettamente muti.
  • Lei leggeva un libro, ad alta voce, e questo lo rendeva felice perché pensava non ci fosse voce più bella di quella, al mondo. Compì 33 anni il 4 settembre 1862. Pioveva la sua vita, davanti ai suoi occhi, spettacolo quieto. (p. 30)
  • Lo stormo, terrorizzato, si alzò in cielo, come una nube di fumo sprigionata da un incendio. Era così grande che avresti potuto vederla a giorni e giorni di cammino da lì. Scura nel cielo, senz'altra meta che il proprio smarrimento.
  • – Ma tu lo sai perché Jean Berbeck smise di parlare?- gli chiese. -È una delle tante cose che non disse mai-. -Forse è che la vita, alle volte, ti gira in un modo che non c'è proprio più niente da dire-. Disse. -Più niente, per sempre-.
  • Minuscole onde circolari posavano l'acqua del lago sulla riva, come spedite, lì, da lontano.
  • Per mille volte cercò gli occhi di lei, e per mille volte lei trovò i suoi. Era una specie di triste danza, segreta e impotente. Hervé Joncour la ballò fino a tarda notte [...].
  • – Provate a dirmi chi siete. Lo disse in francese, strascicando un po' le vocali, con una voce rauca, vera.
  • Teneva gli occhi fissi sulle labbra di Hervè Joncour, come se fossero le ultime righe di una lettera d'addio.
  • Torneranno. È sempre difficile resistere alla tentazione di tornare.
  • Volavano lenti, salendo e scendendo nel cielo, come se volessero cancellarlo, meticolosamente, con le loro ali.
  • – è una voliera –una voliera? –Sì –E a cosa serve? Hervè Joncour teneva fissi gli occhi su quei disegni –tu la riempi di uccelli, più che puoi, poi un giorno che ti succede qualcosa di felice la spalanchi, e li guardi volare via.
  • Lasciarono la villa con rimpianto, giacché avevano sentito lieve, tra quelle mura, la sorte di amarsi.
  • – È proprio necessario che parta? –No. –E allora perché? –Io non posso fermarlo. E se lui vuole andare laggiù, io posso solo dargli una ragione in più per tornare.
  • – tu eri morto– disse –e non c'era più niente di bello, al mondo.
  • Qualcuno diceva: ha qualcosa addosso, come una specie di infelicità.
  • – Tanto a qualcuno la dovrai raccontare, prima o poi, la verità.– Lo disse piano, con fatica, perché non credeva, mai, che la verità servisse a qualcosa.
  • Stette ad ascoltare, in silenzio, fino all'ultimo, fino al treno di Eberfeld. Non pensava nulla. Ascoltava. Gli fece male sentire, alla fine, Hervè Joncour dire piano –Non ho mai sentito nemmeno la sua voce.– e dopo un po' –è uno strano dolore– piano –morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai.
  • Ogni tanto, nelle giornate di vento, scendeva fino al lago e passava ore e guardarlo, giacché, disegnato sull'acqua, gli pareva di vedere l'inspiegabile spettacolo, lieve, che era stata la sua vita.
  • Era un filo d'oro che correva diritto nella trama di un tappeto tessuto da un folle.
  • Aveva avuto l'accortezza, nondimeno, di farlo passare per un suo capriccio personale, regalando all'uomo che amava il piacere di perdonarglielo.
  • Dai timbri, la lettera sembrava provenire da Ostenda. Hervé Joncour la sfogliò e la osservò a lungo. Sembrava un catalogo di orme di piccoli uccelli, compilato con meticolosa follìa. Era sorprendente pensare che erano invece segni, e cioè cenere di una voce bruciata.
  • Aveva con sé l'inattaccabile quiete degli uomini che si sentono al loro posto.
  • Mai gli era sembrata così grande: e mai così illogico il suo destino. Poiché la disperazione era un eccesso che non gli apparteneva, si chinò su quanto era rimasto della sua vita, e riiniziò a prendersene cura, con l'incrollabile tenacia di un giardiniere al lavoro, il mattino dopo il temporale.
  • Col tempo iniziò a concedersi un piacere che prima si era sempre negato: a coloro che andavano a trovarlo, raccontava dei suoi viaggi. Ascoltandolo, la gente di Lavilledieu imparava il mondo e i bambini scoprivano cos'era la meraviglia. Lui raccontava piano, guardando nell'aria cose che gli altri non vedevano.
  • Tutto li stupiva:in segreto, anche la loro felicità.

The Game[modifica]

Incipit[modifica]

  • Una decina di anni fa ho scritto un libro che si intitolava I barbari. A quei tempi accadeva a molte persone normali, e a quasi tutte quelle che avevano studiato, di ritrovarsi a denunciare un fatto sconcertante: alcuni dei gesti più alti, belli e dotati di senso che gli umani avessero messo a punto in secoli di applicazione stavano perdendo ciò che avevano di più prezioso, scivolando apparentemente verso un fare disattento e semplicistico. Che si trattasse di mangiare, studiare, divertirsi, viaggiare o scopare, cambiava poco: gli umani sembravano aver disimparato a fare tutte quelle cose in bel modo, con la dovuta attenzione e con la cura sapiente che avevano imparato dai loro padri. Si sarebbe detto che preferissero tirarle via velocemente e in modo superficiale.

Citazioni[modifica]

  • Stiamo generando una civiltà piacevole ma che non sembra in grado di reggere l'onda d'urto del reale. E una civiltà festiva, ma il mondo e la storia non lo sono: smantellare la nostra capacità di pazienza, fatica, lentezza non finirà per produrre generazioni incapaci di resistere ai rovesci della sorte o anche solo alla violenza inevitabile di qualsiasi sorte? A furia di allenare skill leggere — si inizia a pensare - stiamo perdendo la forza muscolare necessaria al corpo a corpo col reale: da qui una certa tendenza a sfumarlo, il reale, a evitarlo, a sostituirlo con rappresentazioni leggere che ne adattano i contenuti rendendoli compatibili con i nostri device e con il tipo di intelligenza che si è sviluppata nelle loro logiche. Siamo sicuri che non sia una tattica suicida? (p. 17)
  • Questo ostinato sospetto che la percezione del mondo dettata dalle nuove tecnologie si perda tutta una parte della realtà, probabilmente la migliore: quella che pulsa sotto la superficie delle cose, là dove solo un cammino paziente, faticoso e raffinato può condurre. È un luogo per cui abbiamo coniato, in passato, una parola poi divenuta totemica: PROFONDITÀ. (p. 18)
  • CREDIAMO CHE LA RIVOLUZIONE MENTALE SIA UN EFFETTO DELLA RIVOLUZIONE TECNOLOGICA, E INVECE DOVREMMO CAPIRE CHE È VERO IL CONTRARIO. pensiamo che il mondo digitale sia la causa di tutto e dovremmo, al contrario, leggerlo per quello che probabilmente è, cioè un effetto: la conseguenza di una qualche rivoluzione mentale. Guardiamo la mappa alla rovescia, giuro. Bisogna girarla. Bisogna invertire quella dannata sequenza: prima la rivoluzione mentale, poi quella tecnologica. Pensiamo che i computer abbiano generato una nuova forma di intelligenza (o stupidità, chiamatela come volete): invertite la sequenza, subito: un nuovo tipo di intelligenza a generato i computer. Che vuol dire: una certa mutazione mentale si è procurata gli strumenti adatti al suo modo di stare al mondo e l'ho fatto molto velocemente: quel che ha fatto lo chiamiamo rivoluzione digitale. (p. 31)
  • Se salti le mediazioni, metti fuori gioco la casta dei mediatori e alla lunga a niente tutte le vecchie élite. Il postino, il libraio, il docente universitario: tutti sacerdoti, seppure in modo diverso, tutti i membri di un'élite a cui si era soliti riconoscere una particolare competenza, un'autorità e alla fine un certo potere. (p. 76)
  • La conseguenza inevitabile e che in un numero significativo di umani si fa largo la convinzione che si possa fare a meno delle mediazioni, degli esperti, dei sacerdoti: molti ne deducono di essere stati garbati per secoli. Si guardano intorno e, animati da una certa comprensibile venatura di sentimento, cercano la prossima mediazione da distruggere, il prossimo passaggio da saltare, la prossima casta sacerdotale da rendere inutile. Se hai scoperto di poter allegramente fare a meno del tuo agente di viaggio, perché non iniziare a pensare di fare fuori il medico di famiglia? in un ambito che largamente sopravvalutato, cioè la politica, l'attuale individuazione degli elettori per una qualche forma di leaderismo populista che tende a saltare la mediazione dei partiti tradizionali, e in fondo anche dei ragionamenti, può dare un'idea particolarmente chiara del fenomeno. Ma si tratta, come dico, solo di un esempio, e neanche di quello più importante. (p. 77)
  • C'era questo mio figlio piccolo, un omino di tre anni, che si era inerpicato su una sedia per guardare da vicino il giornale che avevo lasciato aperto sul tavolo. Non intendeva leggerlo, non era cosi intelligente. L'aveva attirato la foto di un calciatore, ed era salito sulla sedia per guardarsela bene. Io lo controllavo dalla stanza vicina, giusto per vedere che non cadesse giù. Ma invece di cadere iniziò a sfiorare la foto con un dito, proprio come faceva il vecchio Jobs, quel giorno, davanti a tutta quella gente. Lo fece una, due, tre volte. Lo vidi constatare, seccato, che non succedeva niente. Senza grandi illusioni provò a zoomare, proprio in quel modo là, pollice e indice ad allontanarsi, dolcemente. Niente. Allora rimase per un attimo interdetto a fissare quella fissità e io sapevo che stava misurando la disfatta di un'intera civiltà, la mia. Capii in quel momento che da grande non avrebbe letto giornali cartacei e a scuola si sarebbe rotto i coglioni a palla. (p. 130)
  • Alla lunga quello che è accaduto e che abbiamo finito per aspettarci dalla vita quello che vedevamo funzionare nella prassi dei nostri piccoli gesti quotidiani: se per telefonare non avevo che da sfiorare uno schermo con le dita scegliendo velocemente fra un numero ristretto di opzioni dove è un caos di possibilità era riportato a un ordine sintetico e perfino divertente, perché mai a scuola non funzionava così? E perché avrei dovuto viaggiare in qualche altro modo? O mangiare? E perché capire la politica doveva essere invece più complesso? O leggere un giornale. Ho scoprire la verità. O, al limite, trovare qualcuno da amare?
    Così, a poco a poco, abbiamo iniziato a pensare alla rovescia un po' tutti, e ad adottare, come utile, la regola che qualsiasi partita si poteva giocare a patto di poter disporre i pezzi su quella scacchiera illuminata che la superficie del mondo: finché rimanevano nascosti in profondità, controllati a vista da caste sacerdotali, tutto era immensamente più incasinato: e infondo ingiusto, falso e pericoloso. Così, in una spettacolare impresa collettiva, ci siamo messi a dissotterrare il cuore del mondo e a posarlo in superficie: l'habitat in cui ci siamo scoperti adatti a vivere. (pp. 154-155)
  • Per un lungo istante, che forse non è ancora finito, la distinzione tra profeti e coglioni è diventata visibile solo a occhi molto freddi e allenati. Ce n'era abbastanza per sconcertare i più lenti e per mettere in allarme i più svegli. (p. 158)
  • Ti servono solo velocità, superficialità, energia. Il tuo stare nelle cose è un movimento, una immobilità; scendere in profondità di rallenta solo, il senso di qualsiasi figura è legato alla tua capacità di muoverti con la necessaria velocità; sei in molti posti simultaneamente e questo è il tuo modo di velocità, superficialità, energia. Il tuo stare nelle cose è un movimento, una in mobilità; scendere in profondità di rallenta solo, il senso di qualsiasi figura è legato alla tua capacità di muoverti con la necessaria velocità; sei in molti posti simultaneamente e questo è il tuo modo di abitarne uno solo uno solo, quello che stai cercando. (p. 164)
  • L'esperienza, come la immaginava il 900, era compimento, pienezza, rotondità, sistema realizzato. La post-esperienza è, al contrario, squarcio, esplorazione, perdita di controllo, dispersione. (p. 167)
  • Provo dirlo in due parole: l'esperienza era un gesto, la post-esperienza è un movimento. I gesti mettono in ordine il mondo, i movimenti lo destabilizzano. I gesti ricuciono, i movimenti riaprono. Ogni gesto è un punto d'arrivo, ogni movimento è un punto di partenza. I gesti sono porti, il movimento e il mare aperto. Ma anche: i gesti sono fermezza, il movimento è VIBRAZIONE. (pp. 167-168)
  • POST-VERITÀ è il nome che noi élite diamo alle menzogne quando a raccontarle non siamo noi ma gli altri. In altri tempi le chiamavamo ERESIE. (p. 279)
  • […] vi starete rendendo conto che voi quello schema lo conoscete, è quello che governa tutti i tool digitali, è la storia dell’MP3, meno suoni ma più trasportabili, è la storia del passaggio al digitale, un filo di imprecisioni in più in cambio di un’immensa agilità. È la storia della superficialità al posto della profondità. È la forma del Game. (p. 289)

Tre volte all'alba[modifica]

Incipit[modifica]

C'era quell'albergo, di un'eleganza un po' appannata. Probabilmente era stato in grado, in passato, di mantenere certe promesse di lusso e garbo. Aveva ad esempio una bella porta girevole in legno, un particolare che sempre inclina alle fantasticherie.

Citazioni[modifica]

  • Si incontreranno per tre volte, ma ogni volta sarà l'unica, e la prima, e l'ultima.
  • Si ricomincia da capo per cambiare tavolo, disse. Si ha sempre quest'idea di essere capitati nella partita sbagliata, e che con le nostre carte chissà cosa saremmo riusciti a fare se solo ci sedevamo a un altro tavolo da gioco. Lei aveva lasciato il bambino a sua madre e aveva ricominciato da un'altra città, da un altro mestiere, da un altro modo di vestire. Probabilmente voleva anche lasciarsi dietro un po' di cose che non era possibile rimettere a posto. Adesso non riusciva a ricordare bene. Ma certo era stufa di perdere. Come le ho detto, aggiunse, cambiare le carte è impossibile, non resta che cambiare il tavolo da gioco.
  • Venga, le ho detto.
    Perché?
    Guardi fuori, è già l'alba.
    E allora?
    È ora che torni a casa a dormire.
    Cosa c'entra che ore è, sono mica una bambina.
    Non è questione di ore, è una questione di luce.
    Che cavolo dice?
    È la luce giusta per tornare a casa, è fatta apposta per quello.
    La luce?
    Non c'è luce migliore per sentirsi puliti. Andiamo.
  • Cos'è che vuole sapere esattamente?
    Cosa vuol dire essere pazzo di qualcuno.
    Non lo sa.
    No.
    Alla donna venne soltanto in mente che capisci tutti i film d'amore, li capisci veramente. Ma anche quello non era facile da spiegare. E suonava un po' idiota.
    Senza volerlo le tornarono in mente tante scene che aveva vissuto al fianco dell'uomo che amava, o lontano da lui, che poi era la stessa cosa, lo era da un sacco di tempo. Di solito cercava di non pensarci. Ma lì le tornarono in mente e in particolare si ricordò di una delle ultime volte in cui si erano lasciati e di quello che aveva capito in quell'istante. Quel che aveva capito, con certezza assoluta, era che vivere senza di lui, sarebbe stato, per sempre, la sua occupazione fondamentale, e che da quel momento, le cose avrebbero avuto ogni volta un'ombra, per lei, un'ombra in più, perfino nel buio, e forse soprattutto nel buio.
  • Guardava quella casa, davanti a sé, e pensava alla misteriosa permanenza delle cose nella corrente mai ferma della vita. Stava pensando che ogni volta, vivendo con loro, si finisce per lasciare su di loro come una mano leggera di vernice, la tinta di certe emozioni destinate a scolorare, sotto il sole, in ricordi.
  • Stava pensando alla misteriosa permanenza dell'amore, nella corrente mai ferma della vita.
  • Era l'alba. Guardò il cielo lontano rischiarato da una luce ambigua e non fu più sicuro di niente.
  • Non è neanche detto che se ami davvero qualcuno, ma tanto, la cosa migliore che puoi farci insieme sia vivere.

Smith & Wesson[modifica]

  • Wesson: Allora glielo dico io. È quello che voglio, essere me stesso. Capisce cosa voglio dire?
    Rachel: Certo, E' quello che vogliamo tutti, signor Wesson, Esistere.
  • Quel che avrei potuto dirle, per aiutarla, l'ho capito solo più tardi ripensando a quel giorno, al suo salto, alla sua follia. Le avrei dovuto dire che tanti saltano nello stesso modo via dalla loro vita, oltre se stessi, rischiando rischiando tutto per sentirsi davvero vivi. Avrei dovuto dirle che tutti lo fanno chiusi nelle loro paure, chiusi dentro la botte mefitica delle loro paure. Un posto piccolissimo, molto nero, dove sei solo, e fai fatica a respirare.
  • Non c'è nulla che si possa fare per cambiare le cose e già si è fortunati se qualcuno ha avuto per noi l'attenzione di mettere una piccola musica, là dentro; o se capita di avere un amico ad aspettarci ad un'ansa del fiume per riportarci a casa, in una qualche casa.
  • Si semina, si raccoglie, e non c'è nesso tra una cosa e l'altra. Ti insegnano che c'è, ma... non so, io non l'ho mai visto. Accade di seminare, accade di raccogliere, tutto lì. Per questo la saggezza è un rito inutile e la tristezza un sentimento inesatto, sempre. Seminammo con cura, tutti, quella volta, seminammo immaginazione, e follia e talento. Ecco cosa abbiamo raccolto, un frutto ambiguo: la luce bella di un ricordo e il privilegio di una commozione per sempre ci renderà eleganti, e misteriosi. Voglia il cielo che questo basti a salvarci, per tutto il tempo che ci sarà dato, ancora.

Citazioni su Alessandro Baricco[modifica]

  • [Guardando le Olimpiadi] Dimenticavo tutto: le noie, le mediocrità, gli errori della mia vita; dimenticavo perfino "l'Iliade" di Baricco, e la vasta e incomprensibile ottusità dei volti di Roberto Calderoli e di Alfonso Pecoraro Scanio. (Pietro Citati)
  • Citati non è obbligato ad apprezzare Baricco, ma dovremmo gioire le rare volte in cui la letteratura entra nel mainstream, non rinfacciarle la popolarità. (Dave Eggers)
  • Uno sfoggio virtuosistico, la cui simulazione lascia poco spazio a un vero abbandono. (Filippo La Porta)

Note[modifica]

  1. a b c Da "Mi resta ancora del gioco, non so quanto. Ma un po' ce n'è", la Repubblica, 13 novembre 2011.
  2. Da La partita più bella del mondo, Repubblica.it, 3 maggio 2015.
  3. Da Un mito compie 60 anni: il mondo celebra Bob Dylan, Corriere della Sera, 22 maggio 2001.
  4. a b c Citato in Raffaella De Santis, Baricco torna in pubblico al Festival di Mantova: "Che emozione essere qui", Repubblica.it, 7 settembre 2022.
  5. Da Rugby, bellezza della sconfitta, la Repubblica, 19 marzo 2000.
  6. Da All Blacks. La ballata del rugby, La Stampa, 21 novembre 1995.
  7. a b Da Adoro come scrive Dickens, perché non c'è nessuno con quella luce nella scrittura, la Repubblica, 5 agosto 2012.
  8. Da Il mondo senza nome dei nuovi barbari, Repubblica.it, 21 settembre 2010.
  9. Da E la pompa di benzina si accese Amoco Amoco, La Stampa, 8 giugno 1994, p. 15.
  10. Da La grande sfida del pallone ovale , la Repubblica, 23 marzo 1998.
  11. Da "[1]","uscito originariamente su «La Repubblica»", 26 marzo 2020.
  12. Citato in Baricco, Steinbeck per vittime migrazioni, Ansa.it, 2 ottobre 2017.

Bibliografia[modifica]

  • Alessandro Baricco, Barnum. Cronache dal grande show, Feltrinelli, 1995. ISBN 8807813467
  • Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Rizzoli, 1991. ISBN 8817660396
  • Alessandro Baricco, City, Rizzoli, 1999.
  • Alessandro Baricco, Emmaus, Feltrinelli, 2009.
  • Alessandro Baricco, I Barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, 2006. ISBN 8860440777
  • Alessandro Baricco, Mr Gwyn, Feltrinelli, 2011. ISBN 9788807018626
  • Alessandro Baricco, Novecento, Feltrinelli, 1994. ISBN 8807813467
  • Alessandro Baricco, Oceano mare, Feltrinelli, 1993. ISBN 8817660434
  • Alessandro Baricco, Oceano mare, Rizzoli, 1998. ISBN 8817660434
  • Alessandro Baricco, Omero, Iliade, Feltrinelli, 2004. ISBN 8807490315
  • Alessandro Baricco, Questa storia, Fandango, 2005.
  • Alessandro Baricco, Senza sangue, Rizzoli, 2002. ISBN 881787017X
  • Alessandro Baricco, Seta, Rizzoli, 1996.
  • Alessandro Baricco, The game, Einaudi, 2018. ISBN 978-88-06-23555-0
  • Alessandro Baricco, Tre volte all'alba, Feltrinelli, 2012. ISBN 9788807019050
  • Alessandro Baricco, Smith & Wesson, Feltrinelli, 2014. ISBN 9788807031229

Voci correlate[modifica]

Altri progetti[modifica]

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