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Camillo Benso, conte di Cavour

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Camillo Benso, conte di Cavour

Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour (1810 – 1861), politico italiano.

Citazioni di Camillo Benso, conte di Cavour

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  • Avete ragione di parlare di "inferno", giacché da quando vi ho lasciato, vivo in una specie di inferno intellettuale, ossia in un paese ove l'intelligenza e la scienza sono reputate cose infernali da chi ha la bontà di governarci.[1][2]
  • Continuerò a sostenere le opinioni liberali con lo stesso calore, senza sperare, né quasi desiderare di farmi un nome. Le sosterrò per amore della verità e per simpatia per l'umanità.[2]
  • Dal momento in cui mi trovai in condizione di poter leggere da me stesso i libri di Rousseau, ho sentito per lui la più viva ammirazione. È a mio giudizio l'uomo che più ha cercato di rialzare la dignità umana, spesso avvilita nella società dei secoli trascorsi. La sua voce eloquente ha più di ogni altra contribuito a fissarmi nel partito del progresso e della emancipazione sociale. L'Emile soprattutto mi è sempre piaciuto per la giustezza delle idee e la forza della logica».[2]
  • Egli è un fatto incontestabile che nelle ultime elezioni il clero, ossia la gran maggioranza del clero, prese una parte più attiva, più decisa che non per lo passato [...] E non fu questo un intervento accidentale, isolato, individuale, per agire a pro di questo o di quell'altro candidato; fu un intervento universale, regolato, fatto con ordine gerarchico, con perfetta disciplina, con intelligenza assai profonda (mi si permetta la parola impropria parlandosi del clero) della guerra elettorale [...] Abbiamo veduto un'infinità di presbiteri trasformarsi in congreghe elettorali; vedemmo un andirivieni di una gran quantità di sacerdoti lasciare da banda per qualche tempo gli uffici del loro divin ministero per trasformarsi in zelantissimi agenti elettorali [...] Si denunzia l'uso dei mezzi spirituali nella lotta elettorale; si denunzia che il pergamo e l'altare furono trasformati in tribune politiche; che il confessionale fu un'arma per agire sulle coscienze timorate; che i fulmini della Chiesa furono minacciati e contro i candidati di altro partito e contro coloro che ad essi fossero favorevoli [...] ove si lasciasse in questo terreno pigliar piede e assoldarsi l'uso di queste armi spirituali, la società correrebbe i più gravi pericoli; la lotta del legale correrebbe rischio di trasformarsi in lotta materiale. Quando il clero potesse impunemente denunciare nei comizi elettorali i suoi avversari politici, a cominciare da coloro che reggono lo Stato, fino all'ultimo fautore delle idee liberali, come nemico acerrimo della Chiesa, come uomo colpito dai fulmini divini, esso potrebbe facilmente ottenere da quella gente di opporsi e al Governo e alla maggioranza, non solo colle armi legali, ma altresì coi mezzi materiali. Laonde in non esito a proclamare che, se l'impiego abusivo delle armi religiose potesse farsi impunemente dal clero, noi saremmo minacciati, a un tempo più o meno lungo, degli orrori della guerra civile.[3]
  • Facciamo sì che tutti i nostri concittadini, ricchi e poveri, i poveri più dei ricchi, partecipino ai benefici della progredita civiltà, delle crescenti ricchezze, ed avremo risolto pacificamente, cristianamente il gran problema sociale ch'altri pretenderebbe sciogliere con sovversioni tremende e rovine spaventose. [4]
  • Forse questa mia dichiarazione sarà tacciata d'imprudenza, poiché dopo di essa il Ministero deve aspettarsi di perdere in modo assoluto il debole appoggio che da qualche tempo esso riceveva dall'onorevole deputato Menabrea e da' suoi amici politici. [...] Già nel 1848 ebbi a pugnare contro di lui, io nelle file degli uomini moderati, egli associato agli individui che rappresentavano l'opinione più avanzata; e mi rassegnerò di nuovo a combatterlo ora che è a capo di coloro che, a creder mio, si preoccupano delle idee di conservazione a tal punto da dimenticare i grandi principii di libertà.[5]
  • Garibaldi ha reso agli italiani il più grande dei servigi che un uomo potesse rendergli: ha dato agli italiani fiducia in se stessi, ha provato all'Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistarsi una patria.[6]
  • Gita a Fernet col principe di Craon. Abbiamo visitato il salotto e la stanza da letto di Voltaire. In essa tutto è rimasto come quando Voltaire vi abitava. I mobili sono molto semplici. Il salotto è pieno di quadri indecenti.[2]
  • Ho lo spirito molto elastico, e credo di sapermi adattare a qualsiasi posizione. La sola cosa che non potrei guardare senza fremere, sarebbe una vita perfettamente oziosa oppure unicamente speculativa. Ho bisogno d'impiegare non solo le mie facoltà intellettuali, ma anche le mie facoltà morali.[7][2]
  • Il formare l'Italia, fondere insieme gli elementi che la compongono, armonizzare il Nord con il Sud, presenta altrettanti difficoltà di una guerra contro l'Austria o una lotta con Roma.[8]
  • Il primo bene di un popolo è la sua dignità.[9]
  • [A Vittorio Emanuele II opponendosi alla scelta di accettare l'armistizio di Villafranca] Il vero re sono io.[10]
  • Il Quinet ci fa notare l'assenza completa di sentimento cristiano nel primo poema epico dell'Europa moderna.[2]
  • In Francia si attribuisce moltissima importanza alle lettere di buon anno, è un uso al quale non si manca mai fra parenti, a meno di essere guastati mortalmente.[11][2]
  • In nome dei diritti d'umanità deve impedirsi che i corpi mercenari reprimano colla violenza le espressioni dei sentimenti delle popolazioni.[12]
  • L'avvilimento della patria ha così sconvolto il suo cuore che s'appiglia con foga ai principî che giudica più atti per ridare a quella la libertà e la indipendenza. Ho fatto tutti gli sforzi per richiamarla a sentimenti più ragionevoli. Mi è stato facile mostrarle la vanità e il nessun fondamento delle teorie che l'avevano sedotta. La ragione è onnipotente quando ha per ausiliario l'amore.[13][2]
  • L'Italia del Settentrione è fatta, non vi sono più né Lombardi, né Piemontesi, né Toscani, né Romagnoli, noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i Napoletani. Oh! vi è molta corruzione nel loro paese. Non è colpa loro, povera gente: sono stati così mal governati! E quel briccone di Ferdinando! No, no, un governo così corruttore non può essere più restaurato: la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il paese, educar l'infanzia e la gioventù, crear sale d'asilo, collegi militari: ma non si pensi di cambiare i Napoletani ingiuriandoli. Essi mi domandano impieghi, croci, promozioni. Bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, promozioni, decorazioni; ma soprattutto non lasciar passargliene una: l'impiegato non deve nemmeno esser sospettato. Niente stato d'assedio, nessun mezzo da governo assoluto. Tutti son capaci di governare con lo stato d'assedio. Io li governerò con la libertà, e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le provincie più ricche d'Italia. No, niente stato d'assedio: ve lo raccomando.[14]
  • La coscienza del Re Vittorio Emanuele non gli permette di rimanersi testimonio impassibile delle sanguinose repressioni con cui le armi dei mercenari stranieri soffocherebbero nel sangue italiano ogni manifestazione di sentimenti nazionali.[12]
  • La grande politica, quella delle risoluzioni audaci.[15]
  • La nostra stella polare, o signori, è di fare che la città eterna sovra la quale venticinque secoli accumularono ogni genere di gloria diventi la splendida capitale del Regno italico.[16][17]
  • La pace universale sarebbe un beneficio immenso, ma mi sembra che il mezzo da voi proposto (per ottenerla) sarebbe illusorio... Il filantropo deve indicare il fine e i mezzi che presentano le minori difficoltà per arrivarvi, e benché il fine sia eccellente, se lo si vuol raggiungere direttamente si corrono i pericoli più gravi. Per traversare una montagna che ci separa da una fertile pianura, bisogna fare lunghi giri per evitare i precipizi di cui il più sovente è seminato il cammino.[18][2]
  • Le virtù cittadine, le provvide leggi che tutelano del pari ogni diritto, i buoni ordinamenti politici indispensabili al miglioramento delle condizioni morali di una nazione sono pure le cause precipue dei suoi interessi economici [...] Le condizioni economiche di un popolo sono favorevoli quanto è possibile, sempre che il moto progressivo si operi in modo ordinato. Tuttavia l'industria, per lo svolgersi e prosperare, abbisogna a segno tale di libertà che non dubitiamo affermare essere i suoi progressi più universali e più grandi in uno stato inquieto sì, ma dotato di soda libertà, che in uno tranquillo ma vivente sotto il peso di un sistema di compressione [...] Pronti a combattere tutto ciò che potrebbe sconvolgere l'ordine sociale, dichiariamo, però, di considerare come stretto dovere della società il consacrare parte delle ricchezze, che si vanno accumulando col progredire del tempo, al miglioramento delle condizioni materiali e morali delle classi inferiori [...] Facciamo sì che tutti i nostri concittadini ricchi e poveri, i poveri più dei ricchi, partecipino ai benefici della progredita civiltà e delle crescenti ricchezze e avremo risoluto pacificamente e cristianamente il grande problema sociale, che altri pretenderebbe risolvere con sovversioni tremende e rovine spaventose.[19]
  • Libera Chiesa in libero Stato.[20]
  • Nel secolo attuale, nell'epoca che corre, non sono più i diplomatici che dispongono dei popoli, sono i popoli che impongono ai diplomatici le opere che hanno da adempiere.[21]
  • Niun Governo ha diritto di abbandonare all'arbitrio di una schiera di soldati di ventura gli averi, l'onore, la vita degli abitanti di un paese civile.[12]
  • Non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Io credo che con un parlamento si possano fare parecchie cose che sarebbero impossibili per un potere assoluto. [..] Io non mi sono mai sentito debole, se non quando le Camere erano chiuse. D'altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita: sono figlio della libertà. È ad essa che debbo tutto quel che sono [22]
  • Non tengo, voi lo sapete, al potere per il potere; tengo ad esso per essere in condizione di fare il bene del mio paese.[23][2]
  • Non vi è principio, per quanto giusto e ragionevole, il quale, se lo si esageri, non possa condurci alle conseguenze le più funeste.[24]
  • Parigi è il paese del mondo ove si giudica meno bene la situazione politica. Tutte le persone hanno un vivo interesse in un senso o nell'altro...[25][2]
  • Perché, signora [Mélanie Waldor], abbandonare il mio Paese? Per venire in Francia a cercare una reputazione nelle lettere? Per correre dietro a un po' di rinomanza, un po' di gloria, senza poter mai raggiungere lo scopo che si propone la mia ambizione? Quale bene potrei fare all'umanità fuori del mio Paese? Quale influenza potrei esercitare a favore dei miei fratelli sventurati? ... Sono deciso, non separerò mai la mia sorte da quella dei piemontesi. Fortunata o sfortunata, la Patria avrà tutta la mia vita, non sarò mai ad essa infedele.[26][27]
  • Se vi è paese al mondo in cui la quistione delle foreste abbia un'importanza speciale, è il nostro, dove non solo esse sono destinate a fornirci il necessario combustibile, ma a farvi l'ufficio di preservare le valli sottostanti da pericoli gravissimi.[28]
  • Si arriva con piacere a Verona. La città conserva le vestigia di un'antica grandezza. L'anfiteatro è molto ben conservato e degno della magnificenza romana. Per rispetto a Shakespeare e per scrupolo di coscienza sono andato a vedere la tomba di Romeo e Giulietta. È un abbeveratoio di buoi al quale si è dato un nome pomposo.[2]
  • Sono figlio della libertà, e a lei devo tutto ciò che sono.[29]
  • Sono stato lungamente indeciso fra queste tendenze contrarie. La ragione mi portava verso la moderazione; l'eccessivo desiderio di spingere innanzi i retrogradi mi cacciava verso la rivoluzione: finalmente, dopo molte violente agitazioni e oscillazioni, ho finito con lo stabilirmi, come il pendolo, nel punto di mezzo. Così vi annunzio che come onesto uomo di mezzo, desiderando ardentemente il progresso sociale e lavorando per esso, ho risoluto di non acquistarlo a costo di un generale rovesciamento politico e sociale.[30][2]

Lettere edite ed inedite di Camillo Cavour

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  • Molto tempo ci volle per dimostrare che io non volevo punto rovinare il commercio di Genova o sacrificare questa città a Torino ed alla Spezia. Pochi anni or sono, una metà dei Genovesi era clericale, l'altra metà repubblicana. Tuttavia io non mi perdetti mai d'animo: ero convinto che verrebbe il tempo in cui Genova avrebbe capito l'avvenire che io le preparo. (p. CXLI)
  • Sono molto lusingato dell'opinione che il vostro illustre amico manifesta al mio riguardo, ma non posso condividerla. Egli diffida troppo della libertà e fa eccessivamente conto sull'influenza che possiedo. Personalmente, non ho alcuna fiducia nelle dittature e sopratutto nelle dittature civili. Io credo che con un Parlamento si possano fare molte cose impossibili ad un potere assoluto. Un'esperienza di tredici anni mi ha convinto che un ministero onesto ed energico, che non abbia nulla da temere dalle rivelazioni della tribuna e che non sia incline a lasciarsi intimidire dalla violenza dei partiti estremi, ha tutto da guadagnare nelle lotte parlamentari. Non mi sono mai sentito tanto debole quanto nel momento in cui le Camere erano chiuse. D'altra parte, non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita. Sono figlio della libertà, ed è ad essa che devo quello che sono. Se si dovesse mettere un velo sulla sua statua, non spetterebbe a me farlo. Se si riuscisse a persuadere gli italiani che hanno bisogno di un dittatore, sceglierebbero Garibaldi e non me, ed avrebbero ragione. La strada parlamentare è più lunga, ma è più sicura...
Je suis très flatté de l'opinion que votre illustre ami manifeste a mon égard, mais je ne puis la partager. Il se méfie trop de la liberté et il compte beaucoup trop sur l'influence que je possède. Pour ma part, j'ai nulle confiance dans les dictatures et surtout dans les dictatures civiles. Je crois qu'on peut faire avec un Parlement bien des choses qui seraient impossibles à un pouvoir absolu. Une expérience de treize années m'a convaincu qu'un ministère honnête et énergique, qui n'a rien à redouter des révélations de la tribune et qui n'est pas d'humeur à se laisser intimider par la violence des partis extrêmes, a tout à gagner aux luttes parlementaires. Je ne me suis jamais senti si faible que lorsque les Chambres étaient fermées. D'ailleurs, je ne pourrais trahir mon origine, renier les principes de toute ma vie. Je suis fils de la liberté, et c'est à elle que je dois ce que je suis. S'il fallait mettre un voile sur sa statue, ce ne serait pas à moi de le faire. Si l'on parvenait à persuader aux italiens qu'il leur faut un dictateur, il choisiraient Garibaldi et pas moi, et ils auraient raison. La route parlementaire est pus longue, mais elle est plus sûre...(dalla lettera alla contessa Anastasia De Circourt, da Torino dell'ottobre 1860, p. 25)
  • Io reputo [...] che non sarà l'ultimo titolo di gloria per l'Italia di aver saputo costituirsi a nazione senza sacrificare la libertà alla indipendenza, senza passare per le mani dittatoriali di un Cromwell, ma svincolandosi dall'assolutismo monarchico senza cadere nel dispotismo rivoluzionario. (dalla lettera all'avvocato Vincenzo Salvagnoli, (Deputato al Parlamento), da Torino del 2 ottobre 1860, p. 24)
  • Carissimo Amico,
    Io riassumo in due parole il concetto politico e militare che bisogna attuare.
    Ristabilire l'ordine a Napoli prima, domare il Re (Borbone) dopo. Guai se si invertisse il modo di procedere. Quindi occupazione immediata di Napoli... Occupate senza indugio gli Abruzzi. Fate entrare il Re in una città qualunque, e là chiami Garibaldi a sé. Lo magnetizzi... La spedizione di Cialdini a Napoli compie l'opera: Cialdini fa da dittatore militare sino all'arrivo del Re nella capitale...
    ...Ecco il solo programma d'esito sicuro.
    Bisogna evitare che l'assedio di Gaeta preceda l'entrata di Vittorio Emanuele in Napoli. (dalla lettera a Luigi Carlo Farini da Torino del 5 ottobre 1860, pp. 31-32)
  • Cara Lady,
    Se la costituzione dell'Italia è posta a repentaglio perché non ho voluto ammettere ora, in via eccezionale, nella marina un giovane che dava la sua dimissione, e se ne stava a casa quando i suoi compagni si battevano, bisogna dire ch'essa è talmente dilicata da non potere durare tre mesi.
    Sapete perché Napoli è caduta sì basso? Si è perché le leggi, i regolamenti non si eseguivano quando si trattava di un gran signore o di un protetto del Re, dei Principi, dei loro confessori od aderenti. Sapete come Napoli risorgerà? coll'applicare le leggi severamente, duramente, ma giustamente. Così ho fatto nella marina; così farò nell'avvenire, e vi fo sicura che fra un anno gli equipaggi napoletani saranno disciplinati come gli antichi equipaggi genovesi. Ma per ottenere questo scopo, credete alla mia vecchia esperienza, bisogna essere inesorabile. (dalla lettera a una gentildonna inglese da Torino del novembre 1860, p. 91)
  • Collega ed Amico carissimo
    [...] Il tempo stringendo non le parlerò di Sicilia ove le cose procedono bene e mi restringerò al doloroso argomento di Napoli.
    Divido pienamente il suo modo di vedere. Il nostro buon Farini ha preso una via falsa, ma può riparare l'errore, se alla caduta di Gaeta adotta un altro sistema. Bisogna parlargli schietto, è uomo generoso che non ha altro pensiero che il trionfo della causa cui ha dedicato la sua vita. Farini deve proclamare l'idea unificatrice ed attuarla, qualunque sieno gli ostacoli che gli si parano innanzi. La menoma esitazione in proposito sarebbe fatale: glielo ripeta su tutti i tuoni e con tutte le forme. Dato poi che Farini non reggesse o per difetto di forze fisiche o per qualunque altro motivo, che cosa fare?
    Ci ho studiato bene , e non ho trovato che due soluzioni. Mandare Rattazzi e La Marmora a governare Napoli oppure andarci io.
    La prima sarebbe preferibile sotto ogni rispetto. Ma Rattazzi e La Marmora accetteranno? Solo il Re potrebbe decidere il primo, ed il primo trarre seco il secondo.
    So che Rattazzi riuscendo a Napoli, gli spetterà il primo posto nel ministero: ma ciò poco monta. Trionfi pure Rattazzi purché si salvi il paese. Se egli evita una crisi a Napoli, gli daremo l'intiero nostro appoggio come cittadini e come deputati.
    La seconda ipotesi può avere conseguenze fatali pel paese e per me. Egli è evidente che ho tutto a perdere e nulla a guadagnare.
    Corro pericolo di vedere distrutta la riputazione che 13 anni di lotte continue mi valsero, senza possibilità di accrescerla. Ma ciò poco monta. L'uomo di Stato che non è disposto a sacrificare il suo nome al suo paese, non è degno di governare i suoi simili (dalla lettera a Giovanni Battista Cassinis del 14 dicembre 1860 da Torino, pp. 122-123)

Attribuite

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[Ultime parole pronunciate in punto di morte]

  • L'Italia è fatta, tutto è a posto.[31]
  • Frate, libera Chiesa in libero Stato.[32]
Vittorio Emanuele Taparelli d'Azeglio, in un articolo del 20 febbraio 1890 pubblicato sulla Gazzetta Piemontese, riporta la testimonianza della marchesa Giuseppina Benso di Cavour Alfieri di Sostegno, sua cugina e nipote di Cavour, secondo la quale lo statista in punto di morte pronunciava frasi incoerenti.[33]

Citazioni su Camillo Benso, conte di Cavour

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  • Anche il suo linguaggio politico è da ricordare: agli "energumeni da comizio" egli [Cavour] opponeva parole che esaltavano la necessità della preparazione, della buona amministrazione come essenziali per ottenere i risultati voluti. (Mario Draghi)
  • Anche per ragioni di famiglia, come noto la madre era di origine ginevrina, nel periodo della sua formazione Cavour guardò al di là delle Alpi, soprattutto ai fermenti politici della Francia di Luigi Filippo e al mondo produttivo inglese. Tramite l'opera di Cavour, l'Europa trovò un canale importante per influire sulla cultura della classe dirigente del Piemonte sabaudo e successivamente dell'Italia unita. (Mario Draghi)
  • Camillo Cavour è piemontesissimo! (Giorgio Pallavicino Trivulzio)
  • «Cavour, aggiungono i suoi detrattori, avrebbe dovuto rifiutare schiettamente la proposta di alleanza, non già mostrare di accettarla, e di celato usare tutti gli artifizi della sua volpina politica per mandarli a monte.»
    Ma anche qui ci sia lecito ripetere: siamo sinceri e imparziali tanto verso una parte, quanto verso un'altra. Come si può, invero, pretendere Cavour che agisse schiettamente, e non pretendere nel tempo stesso che il Borbone agisse del pari?
    In sostanza, niuno potrebbe negarlo, l'alleanza era tanto uggiosa al Borbone, quanto al conte di Cavour. Era fra essi una lotta di astuzia, di abilità, in cui la vittoria sarebbe toccata al più abile, al più valente, o, se vuolsi, al più fortunato dei due.
    Ora, come in un duello, una finta che metta l'avversario fuori di guardia, e lo scopra per più facilmente ucciderlo, è ammessa dalle leggi della cavalleria, mentre nel corso ordinario della vita ogni finzione sarebbe rigorosamente bandita dalla condotta d'un uomo onesto, così non si può far carico al conte di Cavour, come non deve farsi carico al Borbone, se, nelle condizioni in che si trovarono l'uno rimpetto all'altro, usarono l'astuzia e l'inganno.
    Cavour, s'è visto, aveva fatto tutti gli sforzi immaginabili per schermirsi di entrare in negoziati col Borbone; non riuscitovi, perché, tranne l'Inghilterra, tutta l'Europa lo richiedeva in termini più che imperiosi, cedette.
    In altre parole, egli scese sul terreno, sul quale il Borbone lo sfidava. È in condizioni come queste che il Conte avrebbe dovuto rifiutare decisamente la partita? Quale uomo di senno, quale patriota avrebbe osato dargli un simile consiglio? Non credasi, del resto, che il conte di Cavour si trovasse nel suo elemento, seguendo una politica, come quella che abbiamo sin qui tratteggiata. Sappiamo dai suoi intimi che egli trattava questi negozi con vivo senso di repulsione. Ma dacché non si era sentito tanto forte da impedire l'imbarco della spedizione dei Mille, che anzi aveva dovuto agevolarlo e proteggerlo, Cavour sentiva il peso della tremenda responsabilità che si era assunta, e il dovere di salvare – ad ogni costo – gli interessi della Monarchia. Non potendo ritirarsi, malgrado il desiderio vivissimo che ne avrebbe avuto – perché in quelle congiunture il ritiro sarebbe stata viltà – Cavour, diremo col Villari, non poteva seguire altra norma di morale, che la sola possibile in quei tempi eccezionali; bisognava che egli sapesse essere a un tempo volpe e leone. Pretendere di poter essere in queste condizioni leale, significa volere, sin dai primi passi, affogare nel ridicolo, e procurare a sé stesso una certa rovina, senza giovare ad alcuno. (Luigi Chiala)
  • Cavour aveva una conoscenza imperfetta dell'italiano e preferiva scrivere in francese. I suoi collaboratori dovevano rivedere gli articoli che scriveva per i giornali, e il suo segretario soffriva a sentirlo parlare in pubblico in italiano. Fino a molto tardi la lingua italiana non fu accettata nella buona società torinese, e Cavour, che conosceva meglio la letteratura francese e la storia inglese di quella italiana, non costituiva un'eccezione. (Denis Mack Smith)
  • Cavour era portato agli studi sociali e politici, ma non ebbe né tempo né occasione di elaborare una propria riflessione sulla società italiana e sulle forme del suo divenire. Per lui i modelli politici ed economici a cui ispirarsi erano altrove, a Parigi e a Londra. Occorreva creare le premesse politiche affinché l'Italia potesse finalmente adottarli; il resto sarebbe venuto da sé. Quale Italia? Pragmatico e sottile, Cavour lasciava spazio agli avvenimenti ed era pronto a coglierne il senso, la direzione. Ma l'obiettivo iniziale era certamente la costituzione d'uno Stato omogeneo, limitato alle regioni settentrionali. L'Italia centro-meridionale, dal Lazio alla Sicilia, gli appariva lontana e indecifrabile. (Sergio Romano)
  • Cavour non fu un patriota del tipo Pellico ed Inno di Mameli, ma un uomo dinamico, certamente colto, ma non di una cultura umanistica all'italiana, tipo Alfieri, Balbo, Gioberti... Era uno che amava rischiare. Come tutti i torinesi ricchi aveva una formazione francese e un solido parentado elvetico. È noto che essendo di madrelingua francese, per mettersi in politica, l'italiano lo dovette imparare. È anche noto che era il comproprietario di un feudo-tenuta che si scrive e si legge in francese. Molto ricco, curioso, intraprendente, sicuro di sé, conosceva di Parigi i luoghi che contavano, non certo le banlieu, e a Parigi si fermò a giocare in Borsa. Perdendo, purtroppo. Perché, se avesse vinto, l'Italia di oggi avrebbe una diversa classe dirigente. Visitò Londra e anche Edimburgo, capitale della massoneria. Non girò l'Italia come Massimo d'Azeglio. Anzi, non la conosceva affatto. Non fu mai a Palermo e a Napoli, non vide mai Roma, che voleva come capitale d'Italia al solo scopo di non lasciare spazi all'azione di Mazzini e dei repubblicani; non andò mai a Venezia, che pure cercò arditamente di portare nei confini sabaudi. Solo una volta fu a Firenze, per sbrigare un affare di governo, e forse due volte a Milano, per lo stesso motivo. (Nicola Zitara)
  • Come andrebbero diversamente le cose in Germania se i nostri amici politici berlinesi potessero essere rimpiazzati da Cavour e d’Azeglio! Ma verranno anche i nostri tempi. Max Duncker [34]
  • Come economista, il Cavour non occupa un posto a sé nella scienza: non iscoprì alcun teorema, non legò il suo nome ad alcuna teoria. Ma i suoi saggi rivelano una solida quadratura mentale di economista. I suoi scritti sono sempre rivolti a questioni di politica economica, o, se così vuolsi dire, di economia applicata: pure, è evidente la compiacenza con la quale egli si richiama alla teoria, non appena il destro gli si offra. È realistico, corrobora il suo dire coi numeri della statistica, tiene sempre l'occhio ai fatti. Egli ha molto viaggiato e osservato, sa dominare gli avvenimenti con sicuro sguardo di economista e di politico, le sue diagnosi sono esatte, le sue previsioni spesso si avverano. (Umberto Ricci)
  • Definire la vastità e la mente di Camillo Cavour non è guari possibile. [...].
    Io ho due termini in mente per dare una idea di ciò che voglio dire; e mi vengono sempre presenti quando penso al genio di Camillo Cavour.
    Uno di questi è una lettera scritta ad un suo amico in cui gli dà consigli per suo nipote che va a fare studi in Inghilterra, e dove gli tratteggia minutamente gli effetti del drenaggio dei prati secondo le varie qualità dei terreni nelle diverse contee, lo informa delle varie razze di animali ovini e delle differenze dei loro prodotti secondo i sistemi osservati nelle diverse località e li raffronta con quelli degli altri paesi, aggiungendo di passaggio alcuni particolari ragguagli sovra certa macchina per seminare.
    L'altro termine è il discorso di Camillo Cavour in Parlamento sulla famosa proposizione "Libera Chiesa in libero Stato," nel quale si librò sulle più alte cime della filosofia politica trascinandosi con sé l'Assemblea entusiasmata.
    Ecco i due termini. Ora pensate voi fra questi quale vastità di intelletto si comprenda. (Desiderato Chiaves)
  • È stato veramente il più grande uomo politico del suo tempo, e la cui gloria crescerà sempre di più [...] In oltre cinque anni di amministrazione con perspicua mente, molte cose modificò, molte corresse. L'amministrazione centrale ridusse notevolmente, modificò gli uffici provinciali. Assorbito da altre cose, non poté però compiere l'opera iniziata, e l'ordinamento piemontese rimase rigido, pesante, costoso. (Francesco Saverio Nitti)
  • Fin da fanciullo, Cavour aveva una passione ardente per la libertà. L'accoglieva come il principio maestro, che doveva risolvere tutte le difficoltà; e la sua passione era fondata sulla ragione, non era meramente un entusiasmo romantico, né una fiamma che brilla e si spegne. Così, il Cavour voleva applicare la libertà al commercio, all'educazione, alla politica, alla Chiesa. Ne sapeva bene i difetti ed i pericoli; sapeva che per avere i frutti perfetti della libertà bisogna che gli uomini siano colti, morali, civilizzati; che la libertà a metà conduce all'anarchia. Ma non si spaventava del rischio. I danni della vera libertà erano per lui preferibili ai benefizi del feudalismo in dissoluzione. (W. R. Thayer)
  • Gettiamo un velo sul passato, che io possa senza rimorso e senza onta felicitarmi di avere la vostra amicizia, ma che io non pensi mai come l'ho ottenuta. Cominciate a conoscermi solo da ora e io mi sforzerò di darvi buona opinione di me. (Anna Giustiniani Schiaffino)
  • I miti storiografici e letterari, che il romanticismo aveva rinverditi e che fornirono un'impalcatura ideologica al moderatismo italiano prequarantottesco, come l'idea del primato italiano, il neoguelfismo, ecc., ebbero scarsissima presa su Cavour, il quale concepiva il Risorgimento essenzialmente come un movimento destinato a portare a poco a poco l'Italia al livello dei paesi più progrediti d'Europa e concentrava la sua attenzione sul complesso sviluppo economico e sociale di questi paesi e sulle ripercussioni che esso avrebbe necessariamente avuto sull'Italia. (Giorgio Candeloro)
  • Il Cavour fu ben diverso da quello che piacque di dipingerselo ad alcuni, come il Brofferio, il quale osò affermare che «di lettere non aveva traccia». Infatti quanta larghezza fosse in quella mente poderosa, aperta ad ogni senso di modernità e di coltura, basterebbe ad attestarci un aneddoto che rammento qui perché pochissimo noto. Nell'aprile del '60, recatosi a visitare la biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, dinanzi a tante meraviglie del nostro classicismo, così dell'antico, come del Rinascimento, il grande ministro uscì in questa sentenza che dedicò ai novissimi riformatori degli studî: «Il latino è come il pane che dà consistenza ad ogni alimento di dignità nazionale, se dobbiamo essere razza latina». (Vittorio Cian)
  • Il Conte di Cavour, convinto che la unità d'Italia e la sua indipendenza avevano per necessario complemento la fine della potestà temporale del Papa e il possesso di Roma come capitale del Regno, cominciò dal tentare accordi diretti con la corte Pontificia, consenziente l'Imperatore Napoleone[35], e sulla base di «libera Chiesa in libero Stato».
    In cambio della potestà temporale, la Chiesa acquisterebbe in Italia tutta la libertà che aveva sempre invocata come necessaria al suo ministero, libertà di riunione, di pubblicazione, di scelta dei vescovi e via dicendo.
    Sperò il Conte un momento che la grandezza del suo concetto potesse abbagliare ed attrarre una parte del sacro collegio: sperò di vincere la parte avversa: ma già nel marzo 1861 era chiaro che la corte di Roma rifiutava sdegnosamente ogni accordo. (Marco Minghetti)
  • Il conte di Cavour, senza contestazione, è il terzo uomo di Stato d'Europa – con lord Palmerston e l'Imperator Napoleone. La perdita di questo uomo, nelle circostanze attuali, sarebbe, per l'Italia, una sventura irreparabile. La forza del conte di Cavour non è nei suoi principii; egli non ne ha alcuno d'inesorabilmente determinato. Ma egli ha uno scopo, uno scopo fisso, netto, la di cui grandezza avrebbe data la vertigine a tutt'altro uomo – dieci anni fa – quello cioè di formare un'Italia una ed indipendente. [...] Il signor di Cavour possiede la conoscenza generale degli affari; egli ha delle idee larghe, molto liberali, niente complicate; ma egli manca dell'abilità pratica della messa in scena. [...] Il diplomatico è un gigante; l'amministratore, mediocre; l'uomo, un'antitesi. Con lui non si resta giammai in un'attitudine indeterminata: gli si ubbidisce o gli si addiviene ribelle. È non lascia menarsi dai suoi amici, non conta i suoi amici. È il pensiero d'Italia, all'estero; all'interno, ne è il cuore. Egli è l'anima sempre del Gabinetto, che in lui s'identifica, s'illusa, direbbe Dante. (Ferdinando Petruccelli della Gattina)
  • Il genio di Cavour era positivo ed egli non sciupava il tempo in problemi che la sua ragione aveva dichiarato insolubili. Interamente persuaso che era vano sofisticare sugli enigmi dell'esistenza, rivolse la sua attenzione all'aspetto pratico della religione. Avrebbe voluto che il culto fosse soltanto affare di coscienza e di rito; avrebbe voluto che le verità morali venissero insegnate nella loro semplice maestà invece di essere incastonate in velenose superstizioni; Che fosse ad uomini spirituali affidato di parlare dello spirito. Ma i suoi accenni all'istituzione cattolica, dopo questa diagnosi, sono pochi. Era sicuro che l'istituzione richiedeva una completa riorganizzazione e che rigenerando le condizioni politiche, economiche e sociali del tempo anche la Chiesa sarebbe stata obbligata a riformarsi. (W. R. Thayer)
  • L'elasticità della sua natura non fu mai messa a più rude prova che quando, passando dalla politica agli affari, dagli affari alle scienze sociali, dalle scienze sociali all'industria, uomo al tempo stesso di salotto e di club, condusse dall'alto il corso delle cose, con quel grande andamento che Balzac chiama l' inverso. (Auguste-Arthur de La Rive)
  • L'unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto.[36] (Fëdor Dostoevskij)
  • La teoria del gradualismo nelle conquiste sociali e politiche venne da lui delineata con estrema chiarezza quando aveva appena diciannove anni. (Italo de Feo)
  • La vita del Conte di Cavour porge ampio ed inesauribile argomento alle riflessioni dello statista, alle considerazioni dello storico, alle osservazioni del filosofo. La di lui biografia si confonde e si immedesima con la storia della formazione della nazionalità italiana, ed è in pari tempo una pagina luminosa, forse la pagina maggiore della storia della civiltà nel secolo decimonono. (Giuseppe Massari)
  • La vita di un uomo come Camillo di Cavour può essere il risultato di una serie di coincidenze che, unite insieme, produssero un genio di cui è difficile trovare l'eguale. (Italo de Feo)
  • Passando noi vicini al Varignano, sito prima prescelto per l'erezione del nostro principale arsenale marittimo, per la cui costruzione eransi già spesi parecchi milioni, mi feci lecito osservare all'illustre ministro, come quel luogo non ammettendo ampliamento per essere addossato ad un monte, non fosse il meglio adatto allo stabilimento di un arsenale militare d'una grande marina; e come per trovarsi in una punta estrema del golfo, fosse poco difendibile dal lato del mare. Egli in un subito, probabilmente già prevedendo coll'acutezza del suo pensiero l'unità d'Italia, decise che l'arsenale s'ergesse a San Vito, nel piano cioè fra Spezia e Marola, ove ora sorge, oso dire, il più splendido d'Europa, sacrificando ad un vantaggio assai maggiore le non lievi somme già spese al Varignano.
    Tali sono i beni che la nazione ricava da un vasto intelletto che le tocchi in sorte; laddove l'ingegno ristretto, non essendo capace di elevarsi all'altezza della bisogna, crede, facendo risparmi, di operare bene, mentre in realtà non di rado, ben lungi dall'economizzare, spreca il pubblico denaro. (Carlo Pellion di Persano)
  • Se sulla grandezza di Cavour non è certo possibile avanzare dei dissensi, resta aperto il discorso sul contenuto della sua politica, sull'influenza che esso ebbe non solo sul processo unitario, ma anche sugli avvenimenti che seguirono la sua scomparsa. (Aurelio Lepre)
  • Secondo una inchiesta che io ho svolto fra gli studenti delle scuole medie inferiori, ecco, alcuni di loro credevano che Cavour fosse vissuto tra la pagina 89 e la pagina 94 del capitolo ottavo del manuale di storia. (La scuola)
  • Tu hai una forza di volontà politica: abbi una forza morale, e tutti ne saranno contenti. (da una lettera del padre a Cavour[2])
  • Un uomo abominevole. (Leopoldo I del Belgio)
  • Vuolsi che il ministro Cavour nell'udire le stragi di Perugia, uscisse in questa sentenza: essere stato assai meglio per la causa d'Italia che il pontefice[37] apparisse in figura di carnefice che in figura di vittima. Certo è ad ogni modo che per quelle stragi, commentate e lamentate dalle deputazioni dei nuovi esuli perugini, egli depose la vecchia idea di limitare le annessioni al Rubicone; e gli eventi posteriori non fecero che confermarlo nella cangiata risoluzione. (Luigi Bonazzi)
  • Cavour non concepiva grandi amori, ed ancor meno grandi odii; ma posso dirlo qui francamente, conscio di dire la verità, che sarebbe stato felice dell'amicizia di Garibaldi, e che questi avrebbe trovato in Cavour tutt'altr'uomo che non s'immaginava. Ma pur troppo Garibaldi (e non glie ne faccio carico perché subì l'influenza altrui) vide sempre in Cavour l'uomo che aveva venduto la di lui patria[38].
  • Il conte Cavour aveva sortito dalla natura un'eccellente costituzione fisica; piuttosto piccolo di statura, di carnagione fiorita, di temperamento sanguigno, mostravasi inclinato a pinguedine. Vivacissimo in tutti i suoi movimenti, quando lo si credeva sopra pensiero scappava talora in un fregamento di mani quasi convulsivo che finiva sempre col rasserenarlo, apparendo sul suo viso un'espressione di vero sollievo.
  • Il conte Cavour uscì fuori un giorno a dirmi: «Convenga con me, che il Connubio fu il più bell'atto della mia vita politica
    Io lo guardai negli occhi, e poi gli risposi: «A me lo dice? a me che ho durato quasi un anno a persuadere or lei, or Rattazzi[39] onde portarli a quel punto che Ella ben ricorda?» e Cavour scoppiando in una gran risata sclamò: «È vero, è vero (già cà l'è vera), mio caro Castelli,» e poi a furia una fregatina di mani.
  • Cavour al contrario [del d'Azeglio] era aristocratico in fondo all'anima: avverso al profano volgo, pieno della propria capacità, troppo certo dell'inettezza altrui: uno dei più doviziosi signori del Piemonte, congiunto di parentela colle più illustri famiglie. Esordì, nel 1847, come giornalista, redattore del Risorgimento, uno dei fogli più conservativi tra i costituzionali, né fece mistero delle sue speranze che il giornale avesse, nelle sue mani, a cangiarsi in portafoglio. In quel tempo, e per tutta la crisi del 1848-49, si rese poco accetto, a motivo sopratutto de' modi suoi assoluti e alquanto imperiosi, e passò per Codino: ma era uomo di gran senno, e vide come uno Stato libero debba esser retto dalla vera sua aristocrazia; capi cioè che, o la nobiltà dee dar prova di nuove facoltà e sforzarsi, come fa sempre negli Stati liberi, a tenere il primato per proprio merito, o dee rassegnarsi a vedere il potere nelle mani di gente nuova, dee dar luogo a' suoi «superiori.»
  • Cavour è grande e come amministratore e come oratore; porta alle Camere uno spirito guerriero, ed ha l'occhio vivo, l'orecchio attento, la mano pronta, la duttilità, il tempo, tutte le doti d'un impareggiabile schermidore. Nulla gli sfugge, si volge a dritta e a sinistra, e non ama entrare in lizza finché non è certo di avere a fronte tre o quattro competitori, per godere il diletto di abbatterli l'uno sull'altro. Ha la parola alquanto impacciata; e l'uso costante del francese fa che sgrammatichi in italiano terribilmente; ma uomini come egli han diritto di dire: «Tanto peggio per la grammatica!» Ei va dritto al suo scopo, lottando contro ogni ostacolo, né cessa finché non gli sia riuscito il frizzo o l'epigramma che dee annientare il suo avversario, e cattivare a sé il buon umore della Camera. Del resto, ha poco cuore, o non ne fa mostra; la politica è per lui un giuoco d'invito; e il suo sangue freddo gli dà facilmente il di sopra sugli avversari appassionati.
  • Già nel 1852, Cavour avea tentato di formare un governo per mezzo di una combinazione de' suoi più stretti amici i semi-conservativi del Centro Destro, coi semi-radicali del sinistro [...]. Non riuscì per allora, ma ebbe miglior fortuna l'anno appresso, e da quell'anno il Governo è sempre stato nelle mani di questo finanziere a testa massiccia, centi-mano, insonne, infaticabile – e la sua politica fu quale dovea aspettarsi da una coalizione o Connubio di tutti i partiti, tranne gli estremi. L'ambizione torreggiante del Primo Ministro, commensurata alla sua rara energia ed impareggiata abilità non ammette non solo rivali, ma neppur soci d'autorità, almeno in quei dipartimenti su cui ama di esercitare più o men diretta influenza. Ove si eccettuino La Marmora per la guerra, e Paleocapa pei lavori pubblici, Cavour non vuole intorno a sé se non uomini mediocri.
  • Cavour fu liberale d'istinto, d'impeto, di necessità. Con questo voglio dire che a farlo tale, oltre le ragioni fondamentali e decisive, ma per noi misteriose, della psiche e del temperamento, conferirono massimamente le idee e i fatti, e in misura molto, ma molto più scarsa gli uomini.
  • Il Conte di Cavour ebbe fin da giovinetto in altissima considerazione la scienza, e non solamente per il lustro che ne poteva derivare ad una nazione, sì bene anche per il vantaggio. Poiché egli la scienza considerava uno dei più validi fattori della prosperità e del progresso di un popolo; anzi, come una vera forza sociale, come uno strumento di supremazia.
  • La verità è, che dei primitivi suoi studi di matematica egli sempre si lodò, come di quelli da cui aveva derivato l'impostatura incrollabile del suo ragionamento e la connessura impeccabile del suo argomentare, ma che le scienze morali fin da giovinetto preferì massimamente perché aveva compreso che esse sono le più adatte a formare l'uomo di Stato moderno e a fornirgli lo strumento per governare gli uomini. Onde fin da studente a Plana[40], che lo eccitava a darsi alle matematiche e ad emularvi la gloria di un Lagrange[41], egli avrebbe risposto: "Non è più tempo di matematiche: bisogna occuparsi di economia politica: il mondo progredisce".

Note

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  1. Da una lettera a De La Rive.
  2. a b c d e f g h i j k l m n Citato in Italo de Feo, Cavour: l'uomo e l'opera, A. Mondadori, 1969.
  3. Dal discorso alla Camera dei Deputati del 30 dicembre 1857.
  4. Cavour. Studio biografico sulla vita e le opere di Camillo Benso Giuseppe Talamo
  5. Da Discorsi parlamentari, volume 4, Botta, Torino, 1865, p. 335.
  6. Citato in Aldo Cazzullo, L'elite dimenticata del nostro Risorgimento, Corriere della Sera, 9 marzo 2017, p. 31
  7. Dalla lettera al padre del 2 dicembre 1830.
  8. Da una lettera a William de la Rive, in La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia. Carteggi di Camillo Cavour, a cura della Commissione editrice, Zanichelli.
  9. Discorso alla Camera dei deputati, 16 aprile 1858, da Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour.
  10. Citato in Cossiga, 2007.
  11. Da una lettera al cugino Paolo Emilio Maurice.
  12. a b c Da una lettera al cardinale Antonelli, 1860; citato da Luigi Pianciani nella Tornata del 20 agosto 1870 della Camera dei Deputati (Regno d'Italia).
  13. Dal diario, settembre 1835.
  14. Citato in Giosuè Carducci, Lettere del Risorgimento Italiano.
  15. Da Scritti politici.
  16. 11 ottobre 1860, riportata in una targa posta nella Sala Cavour di Palazzo Madama.
  17. Dal sito istituzionale del Senato
  18. Da una lettera allo zio.
  19. Da un articolo sul Risorgimento, 15 dicembre 1847; citato da Francesco Colitto nella seduta del 27 maggio 1959 della Camera dei Deputati.
  20. Dal discorso alla Camera dei deputati, Torino, 27 marzo 1861; da Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour, 1872.
  21. Da Discorso alla Camera dei Deputati dell'11 ottobre 1860, in Scritti di economia, a cura di Francesco Sirugo, Feltrinelli, Milano, 1962, p. IX.
  22. Tempi e Culture. vol. 2 Storia dal 1650 al 1900 Alberto Mario Banti
  23. Da una lettera a Teodoro di Santarosa, il figlio di Santorre.
  24. Da Discorsi parlamentari.
  25. Da una lettera al cugino Paolo Emilio Maurice.
  26. Discorso fatto in Parigi nel 1838 alla nuova amante, Mélanie Waldor, che lo sollecitava a trasferirsi nella capitale francese. Dopo poco rientrava in Torino.
  27. Citato in Roberto Gervaso, La bella Rosina, Bompiani editore.
  28. Citato da Adolfo Ferrari nella 1a Tornata dell'11 luglio 1922 della Camera dei Deputati (Regno d'Italia).
  29. Epigrafe sulla sua tomba.
  30. Da una lettera ad Augusto De La Rive.
  31. Citato in Rosario Romeo, Vita di Cavour, Bari, 2004, p. 525. ISBN 88-420-7491-8.
  32. Citato in Massari, Il conte di Cavour, ricordi biografici, 2 edizione, 1875, p. 434; citato in Fumagalli, Chi l'ha detto?, p. 214
  33. Cfr. Fumagalli, Chi l'ha detto?, pp. 214-215
  34. Paolo Mieli I conti con la storia: Per capire il nostro tempo
  35. Napoleone III di Francia, nipote di Napoleone Bonaparte.
  36. Giudizio dato da Dostoevskij in relazione alla modestia dello stato unitario italiano rispetto alla sua storia.
  37. Pio IX.
  38. Si allude alla cessione alla Francia di Nizza, città natale di Garibaldi, nel 1860.
  39. Urbano Rattazzi (1808–1873), politico italiano.
  40. Giovanni Plana (1781 – 1864), matematico, astronomo, geodeta e senatore italiano.
  41. Joseph-Louis Lagrange.

Bibliografia

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