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Salvatore Di Giacomo

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Salvatore Di Giacomo

Salvatore Di Giacomo (1860 – 1934), poeta, drammaturgo e saggista italiano.

Citazioni di Salvatore di Giacomo

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  • Chi bada in Napoli al suo decoro? Certo, chi dovrebbe no. Lascia fare e lascia correre – ecco la frase filosofica, sacramentale d'ogni indifferente partenopeo, sia egli in alto nella cosa pubblica o le passi accanto tranquillo.[1].
  • Ed è a proposito di Giuliano da Maiano che qui ci ricorre alla memoria quel napoletano Giovanni Donadio, detto il Mormanno, il quale ben potrebbe essere stato uno degli scolari più egregi di quell'elegante artefice fiorentino. Era il Donadio, come un suo pur conosciuto fratello, architetto e costruttore d'organi a un tempo, e forse aveva tutte e due cose appreso a Firenze da tanto maestro: certamente il costui modo nobile e ricco si riscontra in tutte le opere alle quali i signori napoletani chiamarono il Mormanno e si manifesta specie nell'architettura e nella decorazione così del palazzo dei di Capua in Via S. Biagio de' Librai, come nell'altro de' duchi di Vietri, che gli è vicino e che ora è posseduto dal duca di Corigliano Saluzzo.[2]
  • [Francesco Proto] Egli aveva detto in casa, nel caffè, nel salotto, a teatro, fin nella bottega del parrucchiere, ove i garzoni ammirati afferravan rime a volo, quel che nemmanco le gazzette avevano osato stampare: di questi ultimi tempi, in cui son precipitati a Napoli uomini e molte cose, giudizi tenuti dagli spettatori paurosamente chiusi nell'animo, il vecchio duca aveva espressi con alta e affilata parola: in verità egli ci pareva un Baretti novello che menasse attorno la sua frusta schioccante e, senza alcun odio, ma pur senza misericordia alcuna, ne andasse attorno verberando amici e nemici...[3]
  • Nannì, si ce penzo | Mme vene na cosa, | Sta sciamma annascosa | Cchiù abbampa accussì... | È overo stu suonno?... | Meh, dimme ca sì! (da Nannì!!!)
  • [Sulle Lettere dall'Italia 1765-1766 di Samuel Sharp] [...] il poco degno libro d'un insensibile, specialista delle malattie degli occhi, inventore d'un new method of opening the cornea in order to extract the crystalline humour [4] , e forse d'esso felice sperimentatore sopra se medesimo, poiché a nessun più di lui riescì a mancare, assieme a quella dello spirito, la saporosa gastronomia dello sguardo.[5]
  • Napoli è una città bella e singolare – singolare principalmente. Le sue cose rare sono mescolate alle comuni – le nobili alle volgari – a pochi passi dal silenzio è il rumore – prossimi a' luoghi più luminosi ed aperti sono le ombre e il mistero – accanto a un monumento medievale è un lurido fondaco o un vicolo e, forse, alle spalle d'un tempio un lupanare. Ciò che è qui da per tutto, è la vita: la sanguigna vita popolana, pulsante e ininterrotta, che passa e si rincorre e scivola lungo i muri del monumento e del tempio, che s'addensa e si sparpaglia, e s'agita ed urla o impreca, sotto un fulgido sole che par quasi la fecondi, e investa a un tempo col suo lume diffuso questa folla dell'ultima ora e i ruderi d'un teatro greco, e quel che fu il tempio insigne dei Dioscuri, e una chiesa angioina, e il pallido chiostro d'un antico convento di monache armene...[6]
  • Nel giornalismo io sono non uno scrittore, ma uno scrivano. La mia fissazione è questa, che Napoli è una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa.[7]
  • [Ferdinando Petruccelli della Gattina] Un de' più efficaci, originali, vibranti e sfolgoranti scrittori del tempo, un vero ingegno in una vorticosa anima ardente.[8]
  • Un grande silenzio s'era fatto per la via. La dolcezza del tramonto penetrava l'anima. E la piccola rossa, socchiuse le labbra esangui, lo sguardo perduto, continuava a sognare, come una santarellina in un'aureola di pulviscolo d'oro.[9]
  • [...] Napoli, [...] questo strano cuore d'Italia che patisce, se lo si considera bene, di tutti i mali cardiaci, dell'aritmia, dell'iperestasia, dei ribollimenti subitanei e delle lunghe paci silenziose, da' battiti lenti, quasi malati.[10]

In Napoli ieri

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  • [...] già i moti politici della seconda metà del suo secolo avevano cominciato a soffiar non so che fuoco «liberale» nel nostro attore: egli, a un tratto, mutò registro e riuscì, come dicono i retori posteri, a nobilitare la maschera. Io dico che la snaturò: proprio. Era stato il signore Pollicinello fino a quel punto un gaglioffo burlone, volgare impasto di malizia e d'ignoranza, conjuge sconoscente, pauroso, ghiottone, ineducato. Petito, nel quale i giornali rinfocolavano i diritti dell'uomo, dimenticò che Pulcinella era appunto un uomo: lo liberò subitamente del suo fondo di degenerazione innata, consciente, e gli dette un carattere. Animoso, quasi nobile, quasi coraggioso, sentenzioso perfino, ecco il nuovo Pulcinella, incarnato in un comico davvero mirabile. Ah, che comico! Tuttavia, ne' momenti in cui, ricacciata per la porta, la vecchia maschera rientrava con tutto l'antico suo bagaglio per la finestra, come Petito stesso, dimentico o resipiscente, dovette pensare che nulla davvero muta a questo mondo e che i Pulcinelli son .... sempre gli stessi. (da Pulcinella, pp. 66-67)
  • Napoli, che si va tutta rimutando e rammodernando, perde ogni giorno più le sue caratteristiche topografiche, il pittoresco delle sue vecchie strade, che tra un battagliar continuo di luci e d'ombre quasi fantastiche, videro gli umili lavoratori popolari attendere ai loro faticosi mestieri, o furono il misterioso teatro d'una delle passionali e tragiche scene plebee. Il Museo di S. Martino conserva alcune tele che di qui a qualche secolo parleranno stranamente, a' posteri nostri, d'una Napoli che in avvenire non sarà certo più quella che noi conoscemmo. Opere di eccellente fattura e di penetrante ricerca queste pitture son di mano di Vincenzo Migliaro, uno de' più personali nostri artisti. E, tra l'altre, la famosa Strettola degli orefici – della quale or si cercherebbe invano l'ubicazione o l'impressionante riscontro in qualcuna delle stradicciuole partenopee che ancor sopravvivono al risanamento della città – è qui per dirci con che singolare colorito, con quale aspetto suggestionante si offerisse un tempo all'occhio – specie del forestiero – l'antico quartiere di Porto. (da Il Museo di S. Martino, pp. 253-254)
  • Appunto una bella poesia del d'Annunzio – di quelle che si capiscono e che penetrano – addita e magnifica l'antico illustre chiostro[11]ove davvero s'esprime la fisionomia tenera e graziosa di certe cose napoletane le quali, per anni molti che sieno scorsi, son pur vive e fresche e conservano tutto quanto quel sentimento che quasi le animò in principio. Il barocco secentesco della chiesa è certamente la cornice più degna alle tele sontuose che gli artisti inspirati del diciottesimo secolo vollero porre là dentro: il piccolo cimitero del Fansaga è quanto di più delicato ed elegante sia stato architettato per assegnare a coloro che lasciavano il mondo – e da una pace forse troppo spesso interrotta passavano a quella indisturbata ed eterna della morte – una zolla perennemente coperta di fiori. Ed ecco lì sulla balaustra, tra que' teschi marmorei che davvero paiono umani, uno d'essi ricinto di lauro. O bianca fronte, coronata dal serto de' poeti! Tu forse, se quella sei stata d'un de' solitarii frati a' quali parve una gloria circondarsi dell'arte, tu forse ancor chiudi le immagini d'una luminosa canzone, che l'ala fredda della Morte interruppe... (da Il Museo di S. Martino, pp. 257-258)
  • [Il Real Albergo dei Poveri] Ed è pur lì, nella sala del Consiglio, su d'una predella addossata alla parete, la poltrona di seta rossa ove Carlo sedette nelle prime riunioni de' governatori. L'antica seggiola dorata è rimasta, dal 1751, in quel posto, e quando il governo si raccoglie e l'usciere accuratamente la spazzola riguardando distrattamente al bel ritratto di Carlo III, che pende dalla parete ed è opera di pittore settecentista non ancora saputo, par che a momenti debba scendere in quella sala l'ombra del Principe illustre. E nel cuore e nella mente di ognuno de' componenti il pietoso consesso s'imprime la severa e serena figura di tanto predecessore; un'ammonitiva immaterialità presiede alle deliberazioni, e la vasta camera, le cui finestre or affacciano su d'una via nuova e spaziosa – che la civiltà moderna, bonificando un'intricata e vecchia suburra, ha schiuso di faccia all'ospizio – diventa luminosa e solenne. (da L'Albergo dei Poveri, p. 388)
  • [Il Real Albergo dei Poveri] [...] un edifizio concepito con romana grandiosità, cinto di mura spesse e gigantesche, fabbricato, come una piccola città chiusa, a un lembo estremo dell'immensa Napoli romorosa. (da L'Albergo dei Poveri, p. 389)
  • [Il Real Albergo dei Poveri] Parecchie volte, sullo scorcio del decimottavo e al principio di questo secol nostro, è sembrato che fosse per esser travolto nella generale disgrazia delle cose e degli uomini fin l'instituto che il vittorioso di Velletri pose al rezzo del Poggio Reale, quasi a memoria del suo recente trionfo. Tuttavia, come a poche opere veramente e profondamente buone è avverso il destino, l'Albergo si tenne in piedi, se non illeso non in tutto inquinato. Gli ultimi anni di questo secolo esso attraversa con fortuna prosperante, animata dal soffio delle idee nuove. A mano amano, non rimutando, ma ben accrescendo e allargando le antiche discipline e adattandole ai bisogni e alla civiltà dell'oggi, l'ospizio troverà, forse, disadatta l'umiltà del suo nome. (da L'Albergo dei Poveri, p. 389-390)
  • [Il Real Albergo dei Poveri] In una delle sale più vaste del pianterreno è la scuola di disegno ornamentale e di plastica. La frequentano ogni giorno, nelle ore pomeridiane, moltissimi alunni e dà risultati assai soddisfacenti. Allo stesso pianterreno hanno posto tutte le altre scuole officine. Una scuola d'intaglio e d'ebanisteria artistica è diretta dal Caponetti, noto anche come bronzista. È stato da quest'illustre officina che sono usciti, opere d'eleganza e di intaglio perfette, i mobili che la Imperatrice d'Austria fece costruire per la sua villa a Corfù. I bronzi decorativi del mobilio, un gran numero di lampadari, la balaustra della scala maggiore dell'Achilleion, su disegni del Caponetti, sono pur lavori delle officine dell'Albergo de' Poveri. Quella de' bronzi artistici, alla quale è annessa una fonderia, è diretta da Gennaro Chiurazzi. È tra le più frequentate dagli alunni, che vi trovan sempre da lavorare e da guadagnare. I suoi prodotti sono spediti fuori d'Italia, ove sono conosciuti, apprezzati, forse, anche più. E l'officina ha uno stato di servizio magnifico; come quella del Caponetti essa è nata e venuta su nell'Albergo; da venticinque anni sparge nel mondo stuoli d'eccellenti artefici i quali scrivono, dalle terre anche più lontane, a' loro maestri. Altre scuole prosperano e danno lavoro ad altri giovanetti del Pio Luogo; ricordo quella d'ebanisteria e d'intaglio, la fonderia di ferro, l'officina di scultura su marmo, quella de' fabbri meccanici, l'officina meccanica per gli oggetti di chincaglieria e la scuola-officina d'incisione su pietre dure.
    Il nome di Nicola d'Arienzo mi dispensa dall'aggiunger lodi alla scuola musicale ch'egli dirige nell'Albergo. (da L'Albergo dei Poveri, pp. 392-393)
  • Uscendo dal Museo e ridiscendendo nella luminosa piazza Plebiscito, dinanzi al golfo incantato e al Vesuvio, che appaiono da lungi sulla destra del palazzo reale, sotto quest'azzurra volta di cielo, prodigo sempre di tanta e sì profonda dolcezza, guardando questo buon popolo napoletano, che si gode le bellezze del suo paese, un pensiero di ravvedimento passa pel capo di chi è stato lassù, quasi un impulso di protesta contro l'accusa che si fa spesso agli operai napoletani di essere indolenti e ignoranti.
    E la visita al Museo fa scrivere al van Eeden[12]: «I napoletani sono spesso calunniati, ma quello che ho veduto coi miei propri occhi ha più valore per me di ciò che ho inteso dire e sarei contento che alcuni dei nostri giovani fossero mandati a Napoli affinché potessero spogliarsi della loro pesantezza e del loro cattivo gusto. I nostri giovani sono forse più istruiti, ma il napoletano sa trarre maggior profitto dal poco che sa, e questa è la cosa essenziale nel mondo.» (da Il Museo Artistico Industriale, p. 409)

Assunta Spina

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Atto primo
Interno della grande sala del Tribunale penale, a Castelcapuano.
Scena prima
La folla. Ai loro posti gli uscieri Sueglia e Torelli. Avvocati che sopraggiungono. L'avvocato Buffa. Portieri. Guardie. Un prete. Contadini ecc. Gran mormorio. Tutto il parlato e il movimento seguono in fretta.
Avvocato primo: (viene dalla destra, con carte sotto il braccio, frettoloso. S'incontra con l'Avvocato secondo.)
Avvocato Franceschelli, noi siamo qua!
Avvocato secondo: Oh! Carissimo ! Dunque? C'è motivo?
Avvocato primo: Altro! Ce ne stanno dduie. Siamo a cavallo!
Avvocato secondo: Ah, neh? E ghiate dicenno... (Gli si mette a fianco. movono verso la sinistra).
Avvocato primo: Ecco qua: sulla prima posizione c'è la mancanza di presentazione di parte...
Avvocato primo: Benissimo!

Citazioni

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  • Federigo: Sapete chi è veramente libero, felice, padrone di se stesso? Chi nun è nzurato. [Chi non è sposato] (p. 146)

La Scuola di Posillipo

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  • Qui si offeriva all'occhio incantato dell'artista avvezzo alle sue brume e alla quasi geometrica fisionomia delle sue campagne una brillante, svariata, colorita distesa di verde: qui, rilevate da un cielo puro e sereno, chiome di boscaglie, pendici erte e bizzarre, rovine di templi disegnate con precisa linea sull'orizzonte e quasi librate nell'aria; qui, all'improvviso, inaspettate tenerezze di verde, biancheggianti casette in mezzo ad esse, orti e giardinetti, battaglie gioconde di sole e di ombre, e riposti cantucci adorabili, solitarii, odorosi; e più giù, più giù, al mare, acque chiare e tranquille, ed antri e specchi virgiliani, pieni d'un cullante mormorio di flutti. L'arte del Pitloo rampollò dunque da quest'incantamento perenne che lo penetrava da Pesto a Gaeta, da' Campi Flegrei, pieni ancor, quasi, d'una voce romana, alle arse terre di Resina e di Ercolano. E quest'arte fu nuova da prima per le nuove cose che ritrasse e poi per l'anima di esse che vibrò, piena di vita e di calore, nelle opere dell'artista. Egli era entusiasta, ma era pure scrupoloso; egli era poeta, ma poneva mente al suo metro; egli era, in una parola, un fiammingo rinnovellato, e rimeditante, con amor non più freddo, sotto un cielo sempre sorridente, al cospetto di una natura sempre gioconda e svariata. (pp. 954-955)
  • La fotografia non ancora, e per fortuna, poteva in quelli anni sovvenire, con la sua chimica facile e pronta, a' bisogni degli artisti. Nata da un raggio e da un veleno questa è un'altra arte la cui concessiva virtù oramai si rende complice del poco pensiero, e aiuta, compiacente, ogni più pigro artefice ad allontanar dalle tele quell'aura di mistero e di poesia secreta e personale che lì soltanto può soffiare l'arte vera. (p. 962)
  • Una esecuzione febbrile, una mano che obbediva alle più ricercate volontà dello sguardo, un lasciar palesi, nell'impasto delle tinte prodigiose, i più minuti dettagli, una colorazione sana, vergine di qualunque falsità, una sapiente conquista d'effetti e di luce, ecco, in breve, quel che a uno sguardo assaporatore presentava Giacinto Gigante, co' suoi interni di chiese, coi suoi brani di paese, con le sue limpide e ariose vedute. (pp. 967-968)
  • [Giacinto Gigante] Uno strano uomo: la sua casa era piena di colombi; spesso egli dipingeva con qualcuna delle innocenti bestiole appollaiate sugli omeri e spesso una grande lucertola verde gli veniva a mangiare le miche di pan fresco sulla tavola sparsa di colori, di pennelli, di disegni.[13](p. 968)

Tra l'accademia e il costoro verismo[14]quella schiera di paesisti pose, tuttavia, qualche segno non fuggevole. Ella vi pose la naturalezza dell'impressione, la verginità dell'espressione, la schiettezza del colorito, l'efficacia e la sobrietà. Né si dica che quelli artisti rimasero, nella contemplazione della della natura, solamente oggettivi: un qualunque paesaggio è sempre uno stato dell'anima, ogni filo d'erba ha la sua storia. E attraverso le ardite forme veristiche di quella poesia tonica e fortificante, forse è passata, per raggiungere vette più sublimi, la poesia morelliana, penetrata di terrore e di pietà.

Napoli

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  • Tempo già fu – quando il buon Dio, tenero dell'umana felicità, facea gravi di rosei grappoli le viti; quando Partenope, nella dolce estate, poteva dissetarsi all'acqua limpida e sana della Bolla e del Carmignano senza aver bisogno di badare al contatore; quando il sale, ammucchiato a ogni cantone, era libera preda de' napoletani, che lo buttavano a manate nel zuffritto e sulle torte fumanti – tempo già fu in cui nacque, a Napoli, da' soliti poveri ma onesti genitori, Pulcinella Cetrulo.[15]
  • [Marechiaro] La giornata era raggiante, piena di riso e di gaiezza: il mare e quella pace, deliziosa in tanta solitudine e in così profondo silenzio, sommovevano tutto un flutto d'idee. Lo spirito s'indugiava a rincorrerle tra le mille voluttà d'un quasi addormentamento. Come da un secreto recesso dal cavo ombroso delle rocce che ci accoglieva contemplavamo l'uguale immensità dell'acqua, la sua sterminata superficie che, lontano lontano, a perdita di vista, raggiungeva l'arco del cielo. Una larga chiazza più azzurrina, quasi bluastra, tingeva l'acque, laggiù, sotto Capri. E vagamente appariva, con disegno quasi impreciso, l'isola tiberiana. Tutto il lontano era in una pace solenne, nell'immobilità d'uno scenario.[16]
  • [L'uccisione di Masaniello e lo scempio del suo corpo] Triste storia, che, peculiarmente, dimostra come il popolo napoletano, la plebe per meglio dire, non abbia mai avuto una coscienza propria: abituata a servire, s'è macchiata, in servitù, fin del sangue suo stesso. Essa ha avuto sempre lo sciagurato destino degl'ignoranti e le sue lacrime postume non hanno cancellato mai più certe crudeltà e certi delitti i quali, tuttavia, la fanno più degna di pietà che d'odio.[17]

Luci e ombre napoletane

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  • Sulle rovine della trattoria di Solla, o meglio, della sua pagliarella famosa, sugli umidi terreni delle Paludi è sorto un quartiere novello co' suoi trenta colossali palazzi. Ed è venuto su davanti ai meravigliati occhi della gente di quartier Vicaria come in un racconto delle Mille e una notte sorge dalla fantasia di Sheherazade una reggia, rimpetto al palazzo d'Harun–al–Rascid.[18]
  • [Via Toledo] [...] la gran fiera d'ogni agitazione, il teatro d'ogni passione tumultuaria e fuggevole, la rapida scena perenne d'ogni forma della vivacità partenopea.[19]
  • In verità, quanta somiglianza di costume tra que' napoletani del tempo di Nerone e i napoletani del tempo nostro! Ecco Petronio che ci descrive un mercato di panni vecchi, così come oggi lo vediamo al Carmine e a Porta Nolana; ecco il cantastorie, tolto di mira dagli scugnizze del tempo; ecco una erbivendola che si sgola a un canto di strada; ecco Gitone e il barbiere d'Encolpio che, a braccetto, nella notte serena, se ne vanno a Crotone e cantano a distesa, o, come si direbbe adesso, a ffigliole. Un cuoco, al famoso convito di Trimalcione, mette in tavola le lumache cum tremula taeterrimaque voce accompagnando la leccornia: e così ricordiamo il nostro maruzzaro[20]e la maniera e il tono di quel suo canto che s'indugia a vantare 'e maruzze[21]d' 'a festa ca so' meglie d' 'e cunfiette. E quante forme, quasi uguali, di locuzioni e d'apostrofi! Quelli antichi partenopei dicono urceatim plovebat e noi diciamo chiuveva a langelle: dicono bonatus, e noi diciamo abbunato[22]. Per dir tu non sei del bottoneNon appartieni alla nostra combriccola.quelli dicevano non es nostrae fasciae; e la frase nescio cui terrae filius[23] tenea luogo di nun saccio a chi figlio 'e p...; e nun aiza 'a capa 'a copp' 'o libro si diceva caput de tabula non tollit. Le lievi ferite, all'uso nostro, erano medicate con la ragnatela... at Giton... primum aranei oleo madentibus vulnus... coartivit... Qualcuno diceva Dies nihil est, dum versas te nox fit[24]: – e voleva dire: – 'a jurnata è corta: mentre ca te vuote e te ggire s'è fatto notte. Ma che! Se non mi sbaglio anche il vernacchio è greco. Parla non so qual tronfio oratore alla mensa trimalcionica ed ecco qualcuno che, all'ultime enfatiche parole del conferenziere, oppositaque ad os manu nescio quid tetrum exibilavit, quod postea graecum esse adfirmabat![25][26]
  • [Luisa Sanfelice] La retorica storica la proclamò una martire: e tale davvero ella fu, senza essere un'eroina, senza sentirsi giacobina, senza aver offerto alla vendetta, lunga e feroce di Ferdinando IV[27] e all'entusiasmo ardente e apoteotico de' repubblicani pruove manifeste così d'essersi associata alle nuove idee come d'aver caldeggiato la causa della libertà con la spesa della sua parola o de' suoi scritti.[28]

Evocazioni e prose d'arte

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  • Copioso d'assonanze e di ritmi il nostro idioma popolare non pur seguitava, in quel secolo[29], ad accarezzare l'orecchio, ma, con gli armonici elementi che conteneva, quasi generava in Napoli la incantevole e insigne scuola musicale che vi prosperò fino a tardi. Saporosa composizione di sentimentale e di burlesco esso s'attagliava così agl'istromenti della piazza come alla delicata concordanza di due violini e di una spinetta: l'opera buffa era un poco in ogni manifestazione poetica e la nostra poesia dialettale suscitava, in que' tempi, un riso spontaneo, figlio non del ragionamento o del giudizio ma di una natura espressiva.[30]
  • Il nostro dialetto, fino al trecento, era stato scritto. Lo aveva posto negli atti suoi pubblici la Cancelleria della Corte Aragonese, lo avevano usato le medesime opere letterarie di quel tempo, i poemi, le cronache, i trattati: ed esso era sembrato – e fu davvero – una lingua di tutte le voci più popolari e più vivaci, sincera, spontanea, facile per ogni comune necessità e accessibile a ogni uso e a ogni persona.
    Appresso, tutto il secolo decimoquinto s'era continuato a giovare di quel pittoresco ed efficace vocabolario: ma già esso era sceso più basso, l'accademia alfonsina già stimolava, nel quattrocento, le più singolari intelligenze, e il Cariteo, Iacopo Sannazzaro, Pietro Summonte, Gabriele Altilio avevano per le mani la cosa pubblica e le lettere a un tempo.[31]
  • [...] ecco dunque il nostro dialetto che davanti a un soffio così novo e così classico[32]s'arretra a mano a mano e finalmente, dopo quasi dugento anni, ripara alla fonte primitiva che lo contenne, e torna a que' rivi gonfi ed aperti i quali da' loro facili margini già lo avevan visto traboccare e diffondersi. Ed eccolo dunque ridiventato, nel secolo decimosesto, cosa affatto particolare e propria della plebe, cosa più umile e però quasi spregiata e oscurata, ancora, dalla nobiltà dell'opera e della voce sopravveniente.
    Ma l'anima popolana, la quale sente sempre il bisogno di manifestarsi, s'agitò pur allora. Ella, impaziente, frugò in fondaci e vicoli e strettole; ella ne snidò, fremente, i suoi poeti sinceri – e a questa gente povera ma ingegnosa, intinta ancora d'un non so che di letterario che l'addestrava a metri armoniosi o suonanti, a questa gente che non mai aveva asceso scale di principi o di università, l'anima popolana, quasi inebriata da tanto e così onorevole conflitto, disse: Va, e parla, e canta pure in mio nome![33]
  • Nel maggio del '900, sovvenuto nella città di Dante dalla cortese ospitalità del luogo, io non seppi non ricordare a' fiorentini la sentenza generosa che l'Alighieri si piacque d'esprimere in una delle sue opere minori: Con l'aiuto che Dio ci manda dal Cielo noi ci sforzeremo di dar giovamento al parlare delle genti volgari. Questo egli disse, quando pel primo, e con la divinatrice mente che rivolse pur alle prime questioni filologiche, andò radunando, e raccogliendo e sceverando ogni più sparso suono perché, come quasi stillati e mescolati, essi componessero per la nostra lingua armoniosa una concorde e sonora melodia.
    E questo io ripeto ancora non perché già non numeri nella lingua nostra secoli di affermazione gloriosa e non abbia dato nitidi e vaghissimi attestati, ma appunto per osare di credere che da tanta ricchezza non sia per essere spregiata, ancor oggi, una dimessa voce, la quale pur offerse all'Italia la più antica pruova di sé: una voce che serbò quasi intatto il suo suono e che se ne vuol giovare, agli anni nostri, per dir cose che pur appartengono alla Verità e alla Vita.[34]
  • [Gli Scavi archeologici di Pompei] All'archeologo, all'artista, al frettoloso touriste questo spettacolo non cessa, sì, di offrire, ogni volta che n'è interrogato, la svariata quantità e qualità de' suoi particolari, materia di studio e conoscenza dell'antico, materia di raro allettamento estetico, d'insospettata e immensa sorpresa. Ma, quasi antevedendo tali future esplorazioni e le mille e mille insaziate interrogazioni onde sarebbero stati oggetto quelle mura superstiti, questi incliti edifici, queste case stesse di cui si continua a frugare ogni giorno la più riposta intimità, l'ospite filosofico di tanti gaudenti e spensierati suoi commensali non ha voluto forse lasciare scritta sulla parete del suo triclinio, come un freddo monito, la frase secca e definitiva che or io leggo con un sussulto, da che mi pare che risponda alla segreta, peripatetica domanda che mi sono rivolta poco fa? Fugge il tempo, e non merita fede. Perisce ogni cosa, e tante volte neppur ne rimane il ricordo. Il futuro è un mistero. E tu non confondere la tua esistenza con cercare di conoscerlo...[35]
  • [Via dell'Abbondanza nell'antica Pompei] Chi consideri questa strada pittoresca da' policromi aspetti delle sue due pareti – quasi ininterrottamente istoriate, disseminate di figure grandi e di figurette assai gentilmente e argutamente dipinte, di indicazioni e chiarimenti ai passanti, di additazioni di candidati a pubblici offici, di salaci motti popolareschi perfino – la potrà, se mai, paragonare a una di quelle folte viuzze giapponesi ove tutto è luce e colore; ove, di su le botteghe infronzolite, pendono le più immaginose leggende illustrate; ove panneggiamenti e arazzetti e banderuole e fanali multicolori allungano festosamente la lor bizzarra infilata fino al punto in cui pare che, nel lontano, la via si restringa e si concluda.
    Immaginate, rivestendo con la vostra riarchitettazione opportuna tutto quel che ora è presso che spogliato e ripopolando questa via, così frequentata una volta, delle figure umane che vi passavano, immaginate, dunque, quel traffico, quel viavai, quel continuato riempirsi e svuotarsi di questa principale arteria della felice Colonia Venerea, e la coglierete nel suo ritmo più pulsante e sonoro.[36]
  • [Raimondo di Sangro] Quell'uomo fu di grande ingegno e di grandissimo spirito: se non mi sbaglio, si valse dell'una cosa più per diletto proprio che per altro, e dell'altra usò per burlarsi un po' di tutti.
    È anche, e specie per questo, ch'egli ha meritato di passare alla posterità.[37]
  • [Su Francesco Proto] Due mesi prima, in un buon giorno di sole, il povero vecchio uscì da quella camera per rivedere, ancora, una volta, il suo studiolo, ove, finalmente, era riescito a porre in assetto i suoi libri e ad ordinare le sue carte. Ve lo ritrovai, quel giorno, sprofondato in una poltrona, presso all'aperta finestra. Un mormorio confuso saliva, da lontano, alla pace de' balconi fioriti, alla gran pace silenziosa del Palazzo Cellammare: egli ascoltava – con la bocca schiusa, col corpo lievemente proteso, con le mani spiegate su' bracciali della poltrona – la voce della città, quella voce alla quale s'eran dianzi mescolati i suoi caratteristici urli di meraviglia, le sue schiette e romorose risate, i suoi scoppii approbativi che mettevano in curiosità e in subitaneo stupore i marciapiedi di Chiaia e di Toledo.
    Ascoltava, ascoltava, estatico: s'abbeverava avidamente di quel soffio di vita e un tremor nervoso lo pervadeva tutto. Solo: or egli era solo, là dentro, egli che era stato tanto con ogni cosa viva e con tutti. E, pian piano, il suo povero corpo s'abbandonò, le mani scivolarono su pe' bracciuoli, la testa reclinò, triste, sul petto.
    – Duca?
    – Oh... figlio... buon giorno...
    – Come state?
    Egli sorrise. E disse, piano, nel silenzio, mentre pur i romori esterni parevano sopiti, disse napoletanamente:
    Nun vide? Sto murenno... [38][39][40]
  • Quelle sono, a parer mio, le opere d'arte più impressionanti le quali in coloro che, dopo d'averne rilevato tutto il fascino, se ne sono allontanati lasciano un punto impaziente e quasi tormentoso, l'eco, vorrei dire, di quella fiduciosa voce dell'artista il quale par che desideri di continuare il suo sogno nell'anima degli altri e dica loro: Cercate...[41]
  • L'arte di tutti costoro[42], è vero, fu solamente oggettiva, ma contenne seduzioni immediate. La macchia di colore che sulle piccole, piccolissime tele del Pitloo era il segno particolare delle sue impressioni istantanee, coglieva per altro tutta quanta l'animazione poetica, l'armonia delicata e misteriosa del vero, i suoi contrasti, la sua rudezza e la sua dolcezza – e così felice era sempre la scelta, così aggiustata e così nuova, che la verità naturale sembrava una meditata architettazione, e quel brano di realtà, che pur conteneva in se stesso ogni elemento armonico di colorita poesia, la creazione, addirittura, d'un artista immaginoso.[43]
  • Nel punto in cui, davanti alla ferrea porta del vecchio Istituto di Belle Arti, Palizzi e Morelli scotevano il loro labaro di verità e di rinnovazione e riescivano a trargli appresso fin gli scolari più devoti agli accademici, quel qualcuno principiava la sua cara fatica, e si preparava, solitario, a divenire l'artefice incantevole e raro della più meravigliosa finzione. Poeta sensibile, artista e pittore di razza, squisito raccontatore dell'eterna favola dell'arte, questo suo genio amabile si chiamò Edoardo Dalbono.[44]
  • È questo un gran canone di arte, benché semplice, e tanto spesso negletto. Senza idea non ci è arte; e l'artista che rinuncia a mettere nell'opera sua la sua idea, rinuncia a metterci quello che lo fa artista; ma senza realtà non ci è comunicazione possibile fra l'artista e gli altri uomini, i quali, per alzarsi fino dove l'artista vuol sollevarli a volo, non possono esser presi che per il lato umano, che è comune a loro e a lui. E nel concepimento dell'opera d'arte deve precedere il senso del reale; perché è il reale che dà la sostanza: l'ideale la purifica e la corregge mediante la forma.[45]
  • [...] il simbolismo è proprio delle religioni, e non dell'arte; e soltanto quando l'arte trova un sussidio potente nel sentimento religioso, si può con vantaggio servire del simbolo, per eccitare passioni e sentimenti.[46]
  • [Su Vincenzo Gemito] Guardate il ritratto di Fortuny, guardate quelli del Morelli e del Verdi, e vi cercherete invano le linee determinate, il segno preciso e scolastico, l'insistenza, l'incasso palese dell'occhio, l'osservativo scrupolo di quei dati somatici che sono dei più studiati e accarezzati dalla plastica, intransigente, freddo, se pur limpido specchio dell'essere. Eppur nulla è più appariscente e più vivo di quel viluppo che sembra oscuro e non è; nulla è più parlante, nulla è più fuso e più molle, e da nessuna cosa mai come da queste, che vogliono essere la reincarnazione d'una persona, si parte come un respiro, un caldo soffio di vitalità.[47]

'O voto

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Atto primo
Scena prima
Al levarsi della tela è un gran movimento nella piazzetta. Davanti alla bottega di Vito Amante si affolla la gente e si pigia per guardarvi. [...] Come la tela si leva Nunziata, che si trae dietro la ragazzetta Teresina, le parla in fretta davanti alla scena. La gente continua a sopraggiungere dai vicoli, è a chiosare, e a fermarsi.

Nunziata: (a Teresina) Va, curre| È capito? Addà don Liborio 'o farmacista, 'a vutata d' 'o vico! Duie solde 'e mistura d' 'e quatte sceruppe...
Teresina: (lasciando cadere i due soldi nel bicchiere) Duie solde 'e mistura?...
Nunziata: D' 'e quatto sceruppe! (Teresina via, correndo. Nunziata le grida appresso:) Addù don Liborio!...
Sufia: (fermandola pel braccio) Nunzià, ch'è stato?
Nunziata: È benuta na cosa a don Vito 'o tintore... Premmettete...
(Corre alla tintoria).

Citazioni

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  • Vito: (con voce piena d'emozione) Ah, Giesù Cristo mio! (Si sberretta. Tutti si sberrettano. Le donne fanno gruppo. Gente alle finestre. Quelle della mala casa si schiudono e qualche figura appare di sotto le persiane.) Io a vuie mm'arraccumanno!... (Cade lentamente in ginocchio. A uno a uno tutti si piegano o s'inginocchiano. Appare, in questo, dal vicolo a destra, donn'Amalia, s'arresta, sorpresa, e ascolta.) Io a te mm'arraccumanno cull'ànema e c' 'o cuorpo! Tu mm' aie da scanzà, tu mm'aie libberà, e p' 'e patimente ca 'e patuto e pe sta curona 'e spine... (levandosi risoluto, il braccio teso verso il Cristo, il berretto nella mano). Io te faccio 'o voto 'e levà na femmena d' 'o peccato! (p. 18-19)
  • L'invito è na cosa e l'interesse è n' ata. (p. 72)

Per la storia del brigantaggio nel Napoletano

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Qualche mese fa, discorrendo in caffè col dottor Penta, uno de' più valorosi e perspicaci psichiatri ch'esercitano a Napoli la loro illuminata professione, egli, a un punto, mi mostrò – l'aveva avuta proprio in quel giorno – la suggestiva pubblicazione del capitano Eugenio Massa, intitolata Gli ultimi briganti della Basilicata e peculiarmente dedicata a' due famosi banditi Crocco e Caruso.
- Ecco Crocco – mi diceva il Penta, puntando l'indice sul ritratto del feroce brigante, posto, con quello del Caruso, a fronte del libro. – L'ho conosciuto a Santo Stefano, nel 1886, e l'ho, come si dice, pur intervistato laggiù. Ricordo d'aver guardato ne' registri di quel Bagno Penale e d'avervi letto, a proposito di lui, ch'egli era stato condannato alla galera a vita per non meno di settantaquattro reati, tra omicidii, grassazioni, ricatti et similia.

Citazioni

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  • Il brigantaggio del novantanove fu dunque veramente politico. Furono veramente e studiatamente assoldati nelle file de' realisti que' banditi che poco prima avevano tenuto la prigione o le selve: un fondo pittoresco disegnò, in seguito, a ridosso di quelle figure quasi eroiche, la facile immaginativa de' romanzieri; Fra Diavolo percorse, nel suo costume schilleriano, non pur tutte le Calabrie e la Puglia, ma tutta la letteratura del secolo nuovo. E col ripristinato governo, che quasi rifaceva a suo profitto e in sua difesa le coscienze e i caratteri, ebbe gloria cavalleresca e ammirazione e vanto illustrativo fin nelle più piccole borgate, ove ogni bella contadina sognava d'esser rapita dall'irresistibile cavaliero e portata a dosso del suo cavallo focoso.
  • Le condizioni economiche de' contadini del Napoletano intorno al 1860 erano tali, ripeto, da quasi giustificare gli eccessi briganteschi: l'uomo della campagna era un ilota malamente remunerato, oppresso dalla fatica perenne e dura, maltrattato, roso dall'usura e dall'odio.

Poesie

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  • E menato ncopp' 'o lietto | guardo, guardo nnanze a me... | Tengo 'o sole de rimpetto | dint' 'o core tengo a tte. (da Cuntrora, Voce luntane, Tutte le poesie, Newton Compton editori, 1991)
E buttato sul letto | guardo, guardo davanti a me... | Tengo il sole dirimpetto | dentro al cuore tengo a te.

Canzone

  • Quanno sponta la luna a Marechiare | pure li pisce nce fanno all'ammore | se revotano ll'onne de lu mare, | pe la priezza cageno culore, | quanno sponta la luna a Marechiare... (da A Marechiaro, Canzone, Tutte le poesie, Newton Compton editori, 1991)
Quando spunta la luna a Marechiaro | Anche i pesci lì fanno all'amore | si rivoltano sulle onde del mare | per la contentezza cambiano colore | quando spunta la luna a Marechiaro...
  • Era de maggio e te cadeano nzino | a schiocche a schiocche li ccerase rosse, | fresca era ll'aria e tutto lu ciardino | addurava de rose a ciente passe. (da Era de maggio, Canzone, 1885)
Era maggio e ti cadevano addosso | a grappoli le ciliege rosse, | fresca era l'aria e tutto il giardino | odorava di rose a cento passi.
  • Comme a stu suonno de marenare | tu duorme, Napule, viat' a tte! | Duorme, ma nzuonno lacreme amare | tu chiagne, Napule!... Scétete, scé'!... (da Luna nova, Canzone, 1885)
  • E vota e gira, 'a storia è sempre chessa. (da E vota e gira!..., citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 206)

Ariette e sunette

  • Nu pianefforte 'e notte | sona luntanamente, | e 'a museca se sente | pe ll'aria suspirà. || È ll'una: dorme 'o vico | 'ncopp'a sta nonna nonna | 'e nu mutivo antico | 'e tanto tiempo fa. || Dio, quante stelle ncielo! | Che luna! E c'aria doce | Quanto na bella voce | vurrìa sentì cantà. || Ma sulitario e lento | more 'o mutivo antico; | se fa cchiù cupo 'o vico | dint'a ll'oscurità. || Ll'anema mia surtanto | rummane a sta fenesta. | Aspetta ancora. E resta, | ncantànnose, a penzà. (Pianefforte 'e notte, Ariette e sunette[48][49])
  • Rosa, si chiove ancora | nun t’ammalincunì, | ca d' 'o bontiempo ll’ora |sta prossema a venì. || Nun vide? ’E luce ’e sole | luceno ’e st’acqua ’e file; | è 'a morte d’ ’e vviole, | so’ ’e lacreme d’Abbrile. || Ma mo cchiù ffresca e ffina | ll'aria se torna a fa'... | Meh !... A st’aria d’ ’a matina. | Rosa, te può affaccià. || Aràpe ’e llastre : aràpe | sta vocca piccerella | addó sulo ce cape[50] | nu vaso o na resella: || canta: chist’ è ’o mumento; | tu cante e io, chiano chiano, | mme faccio 'a barba e sento, | cu nu rasulo mmano. || E penzo: «’A ì ccà[51]; s'affaccia... | Mm’ ha visto... Mme saluta ...» | E c' ’o sapone nfaccia | dico: – Buongiorno, Ro'!...(Buongiorno, Ro'!, Ariette e sunette.[52][53])
  • Marzo: nu poco chiove | e n'ato ppoco stracqua: | torna a chiovere, schiove, | ride 'o sole cu ll'acqua, | Mo nu cielo celeste, | mo n'aria cupa e nera: | mo d' 'o vierno 'e tempeste, | mo n'aria 'e primmavera. (da Marzo)
  • Vocca addurosa e fresca, | vocca azzeccosa e ddoce, | addò c' 'o tuoio se mmesca | stu sciato, addò la voce | è musica, è suspiro, | è suono cristallino... (da Vocca addurosa, Tutte le poesie, Newton Compton editori, 1991)
Bocca profumata e fresca, | bocca appiccicosa e dolce | dove col tuo si mischia | questo fiato | dove la voce | è musica, è sospiro, | è suono cristallino.

Canzone e ariette nove

  • D' 'a cchiesia 'e san Pascale | 'a campana, ca sona | — cu nu suono argentino — | a mmatutino, | a poppa e a prora | sceta chi dorme ancora | ncopp' 'o vuzzo e ’o vasciello | d' 'o Granatiello. | E, tutto nzieme, se sente na voce: | «Ccà sta Teresenella 'a purticesa! | Ddoje pe nu rano 'e purtualle doce! | E so' meglio d' 'e fravule 'e cerase!...» || 'A campana d' 'a cchiesa | mo sona — cu nu suono | ca fa malincunia — | l'avummaria. | Sciso è int'a ll'onne | 'o sole — e s'annasconne: | 'a vela 'e nu vasciello | pare ca luce, ncopp' 'o cielo d'oro | d' 'o Granatiello... | E, int' 'o silenzio, se sente na voce: | «Ccà sta Teresenella 'a purticese! | Ddoje pe nu rano 'e purtualle doce! | E so' meglio d' 'e fravule 'e cerase!..» (Doje purticese, Tramonto a Puortece, II, Ariette nove, 1916, pp. 77-78)
  • Arillo, animaluccio cantatore, | zerri-zerre d' 'a sera | ca nun te stracque maie, | addo' te si' annascosto? | 'A do' cante? Addo' staie?... | Passo — e te sento. | E me fermo a sentì... | Zicrì! Zicrì! | Zicrì! Zicrì! |Zicrì! | E me pare ca staie | (mmiez'a ll’èvera nfosa) | sott'a sta funtanella, | e int'a stu ciardeniello | ummedo e scuro | d' 'o llario d' 'o Castiello... | E cammino... E mme pare | ca no: ca staie ntanato | dint'a nu pertusillo | 'e nu spicolo 'e muro... | O, chi sa, si' sagliuto | ncopp'a na petturata 'e na fenesta, | e te si' annascunnuto | mmiez' a na testa 'aruta | e n'ata testa... | . . . . . . . . . . . . . . . . . . | Sera 'e settembre — luna settembrina, | ca int' 'e nnuvole nere | t'arravuoglie e te sbruoglie |e 'a parte d' 'a marina | mo faie luce e mo no — | silenzio, nfuso | quase 'a ll’ummedità — | strata addurmuta, | (ca cchiù scura e sulagna | quase s'è fatta mo, | e ca sento addurà | comm'addorano 'e sera | cierti strate 'e campagna) — | arillo, | ca stu strillo | mme faie dint' 'o silenzio | n'ata vota sentì... | Zicrì! Zicrì! | Zicrì! | accumpagnate 'a casa | stu pover'ommo, | stu core cunfuso, | sti penziere scuntente, | e st'anema ca sente | cadé ncopp'a stu munno | n'ata malincunia | chesta 'e ll’autunno... — (Arillo, animaluccio cantatore..., Ariette nove, 1916, pp. 96-98)
  • ’O core d’ ’a femmena | è comme a na lettera nchiusa. | chi maie ce po’ leggere? | Chi ’o po’ scanaglia?[54] | Mo abbruscia — mo spánteca — mo piglie e t’ammenta[55] na scusa, | pe nun te fa ntènnere | ca sta p’avutà... | E tu | pigliatillo | accussì, | comm’ i’ | ll’ accetto e mm’ ’o piglio... | Vuo’ sentere? | E siente | nu buono cunziglio. | Cuntentete ’e nun sapé | niente. (da E tu pigliatillo..., Ariette nove, 1916, p. 101)

Citazioni sull'arietta Arillo

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  • L'autunno darà i suoi colori d'addio all'ultimo dei più puri canti di Salvatore Di Giacomo: la piccola ode al grillo «animaluccio cantatore» la cui voce va mutando d'attimo in attimo il suo spazio vocale. Un'altra malinconia – dice il poeta –, quella di autunno, cade nell'anima. E certo questa caduta è il senso digiacomiano della morte. Dove canta il grillo? nell'erba bagnata sotto la fonte? in una fenditura allo spigolo di un muro? o forse tra una «testa d'aruta» e un'altra «testa» di fiori?
    Sera 'e settembre — luna settembrina, | ca 'int' 'e nnuvole nere | t'arravuoglie e te sbruoglie |e 'a parte d' 'a marina | mo faie luce e mo no — | silenzio, nfuso | quase 'a ll’ummedità — | strata addurmuta, | (ca cchiù scura e sulagna | quase s'è fatta mo, | e ca sento addurà | comm'addorano 'e sera | cierti strate 'e campagna) — | arillo, | ca stu strillo, | mme faie dint' 'o silenzio | n'ata vota sentì... | Zicrì! Zicrì! | Zicrì!
    Quanto alta si è levata questa musica dimessa e sottovoce! una mestizia panica è ora nel canto, e l'arte affina il metro a tal nuova pronunzia che le sillabe si iscrivono in un ideal pentagramma: e sempre più la voce s'è fatta pura, come incavandosi nella sostanza del silenzio. Gli strumenti di Piedigrotta son dunque sonati dagli angeli-musici del Beato Angelico? e le Muse del Parnaso raffaellesco cantano gioiose la canzone e l'arietta napoletana di Salvatore Di Giacomo. (Francesco Flora)

Storia del Teatro San Carlino

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  • [Giuseppa Errico, Donna Peppa, moglie di Salvatore Petito e madre di Antonio Petito] La Errico ebbe sette figli: Gaetano, Davide, Pasquale, Antonio, Michela, Adelaide e Rosa. I primi quattro erano così definiti da don Salvatore loro padre: Gaetano o' francese, Davide 'o gesuita, Pasquale l'ingrese e Totonno [56]. 'o pazzo. Quest'ultimo, ch'era il più intelligente, otteneva dalla madre tutto quel che volesse, pur non essendo il più meritevole de' quattro. Ma Donna Peppa diceva: – 'E mamme so' comme 'e nnammurate; vonno cchiù bene a chille figlie ca lle danno cchiù muorze amare. (p. 838)
  • La famiglia Petito, finché visse Donna Peppa, non si sbandò. Sedevano don salvatore e i figliuoli, nell'ora del pranzo, a una sola tavola e Donna Peppa andava intorno scodellando la minestra in ogni piatto. Però il suo tondino restava vuoto. E allora ella rifaceva il giro della tavola e da ogni piatto ricolmo toglieva una cucchiaiata pel suo. Questa e lo spendere in una giornata tutto quanto avesse guadagnato la sera avanti erano tra le sue più vecchie abitudini. Liberale, benefica, affettuosa, ella dava perfino le sue vesti per carità, ma pagava, con grande esattezza, i suoi trenta ducati al mese, per la casa e pel teatro, ai Maisto, i quali, ogni capodanno, ricevevano, assieme al denaro, un sonetto augurale, scritto da Salvatore Petito, ora in dialetto, or in una lingua che don Salvatore credeva che fosse italiana. (p. 838)
  • Nel 1850 Donna Peppa, nata nel 1792, contava cinquantotto primavere, ma, sempre vegeta e forte, non mancava di scendere ogni sera al teatro e rimanervi fino alla mezzanotte. In quell'ora, a uno a uno, il marito e i figlioli rincasavano da San Carlino e dalla Fenice, stanchi, rauchi, con ancor sulle gote e agli angoli delle palpebre le tracce del trucco. In camera da pranzo un'insalata d'indivia li aspettava nella penombra. Il palazzo Maisto dormiva. Per la via deserta era la pace della notte, a cui di volta in volta, si confidava, mormorando, il mare. E ora attorno alla tavola, Pulcinella, l'amoroso, la servetta, l'ingenua e il caratterista tranquillamente cenavano, chiacchierando e motteggiando. Coi gomiti sulla tavola, il mento nelle palme delle mani, senza toccar cibo, Donna Peppa ascoltava e sorrideva, vera dea madre, contemplante la felicità familiare e, a poco a poco, appisolandosi. (pp. 839-840)
  • Il 1848 era alle porte, ma pareva che nessuno lo sospettasse; Napoli ha sempre di queste placide esteriorità: l'interno lavorio non offusca il suo aspetto e neppur le più grandi disgrazie valgono a mutarne la fisionomia. Con un grano, in quegli anni, il lazzarone era quasi ricco, e una piastra ballonzolante nella saccoccia del panciotto a un borghese gli conferiva l'aria della più grande superiorità. L'allegra povertà, in pieno possesso della strada, vi si sciorinava al sole; il facchino appisolato, a un angolo, in una cesta, schiudeva, di volta in volta, gli occhi e tranquillamente, abituato a posare, contemplava il forestiero, inglese o francese, che, impiedi, davanti a lui, pigliava note in un taccuino. Le solite baldorie per le feste de' soliti suoi santi occupavano la gente de' quartieri inferiori – come anche adesso la occupano – ma pareva che un senso di caricatura fosse pur penetrato dal giornale fin nella plebe. (pp. 868-869)
  • [Antonio Petito] L'attore era veramente grande, la sua figura illuminava tutta la scena, riempiva tutti i vuoti, raccoglieva tutte le emozioni e gli interessamenti; così le volgari stupidaggini della commedia petitiana e il suo difetto d'umanità scomparivano in un godimento che pervadeva tutto il pubblico e durava ancor fuori del teatro: una felicità che accompagnava fino a casa gli spettatori, e lasciava ancora sorridere, nel sonno, le loro labbra dischiuse. (p. 904)
  • L'epoca del piccone cominciò a' 6 di maggio del 1844, e dopo qualche mese non rimaneva più, al posto del teatro, se non un cumulo di pietre. Su quelle rovine pianse, lungamente, tutta Napoli, memore delle ore deliziose passate in quel torrido fosso, tenera de' ricordi quasi classici che quel teatro avea tramandati, con la storia sua e de' suoi comici e dei suoi frequentatori, in tre o quattro generazioni partenopee. Spariva, difatti, un monumento napoletano, l'Eldorado della gaiezza spariva e la improvvisa e insospettata soppressione era lamentata qui come da per tutto, poi che erano state accessibili a tutti le forme comiche nostrane e nel teatrino di San Carlino era stata internazionale la risata. (p. 914)

Se v'è cosa bella ed alta e onorevole questa è l'arte davvero. Ed ella non accoglie fratellanze volgari, non tollera ammonimenti insinceri, non s'adombra per voci petulanti.
Se arte è – da sola vive, s'esalta e s'illumina.

Taverne famose napoletane

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L'idea d'occuparmi delle antiche taverne di Napoli mi nacque, recentemente, nella queta e pittoresca casa d'un vecchio e illustre artista napoletano, il commendatore don Consalvo Carelli, nestore de' pittori suoi concittadini e operoso, immaginoso, fervente e vibrante come il più giovane di costoro. È al Carelli che Napoli nobilissima ed io dobbiamo gli acquerelli i quali coloriscono, nella parte più vicina a noi, questo mio scritto di topografia aneddotica: nessuno, meglio di lui, avrebbe potuto illustrarlo con più autentici documenti e, a un tempo, con maggior grazia di tratto e di spirito grafico. Nel professarmi pubblicamente tenuto al chiaro uomo – l'unico superstite di quella scuola famosa che fu detta di Posillipo – entro subito in materia.

Citazioni

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  • Gli smargiassi, guappi del tempo, con l'alberuzzo di teletta sulle spalle, con cosciali e calze di stamma legate con cioffe e sciscioli, col cappello impennacchiato e ricco di passavolanti si pigliavano a braccetto or le donne or gli amici soldati e in comitiva si scantonava laggiù al Crispano, ove di tra la verde rete d'un pergolato brillavano fiammelle di lucerne appese e di parattelle – (ch'erano scodellette piene di sego nel quale si reggeva un grosso stoppaccio acceso) – illuminazione primitiva di cui si giovavano pur i teatri, specie per le ribalte. (p. 33)

Incipit di alcune opere

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A «San Francisco»

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La tela si leva lentamente. Quando è a metà del palcoscenico s'ode una voce interna cantare malinconicamente da un altro camerone.
Rafele e Cicciariello, seduti sulle tavole di un letto, giocano a carte e fumano.
Federico 'o pittore e Totonno seggono sulle tavole di un altro letto: il secondo stende il braccio destro denudato e il primo glie lo va tatuando con un ago e col nerofumo. Il ragazzo Luigiello, accosto ad essi, osserva curiosamente l'operazione.
Don Gennaro 'o cusetore è occupato a scrivere, con la matita, de' numeri in un libriccino. Siede sulle tavole del primo letto a sinistra dello spettatore.
Steso sul suo letto, col capo poggiato sui materassi ravvoltolati, Peppe Pazzia dorme. Sotto al suo letto è una brocca, tra un fiasco di vino e un paio di scarpe.
È sera. Tutti tacciono.

La voce interna: A San Francisco
mo' sona 'o risveglio,
chi dorme e chi veglia,
chi fa nfamità!...

La voce interna di un carceriere: Silenzio!... (e al tempo stesso s'ode un romore come di porta alla quale si batta violentemente).

L'ignoto

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Sul Piazzale di Porta Roma erano poche persone. Era deserta la via del laboratorio pirotecnico, deserta la via di faccia ad essa, ove, sul principio, è la semplice e nuda fabbrica dell'Arcivescovado a cui seguono altre fabbriche basse e la Riviera Casilina, recinta da una fila di casette rossastre.
L'ora del tramonto avanzava. Un lume dorato che poc'anzi avea tutto infiammato, nel lontano, il fuggevole dosso de' Tifati si raccoglieva in coda a' monti, ove la terra e la collina s'univano e pareva che l'ultima arborea decorazione di quelle gobbe immani sprofondasse nell'immensa e aperta campagna, verso Roma lontana. Tutto intorno taceva di quel triste silenzio invernale che pesa su Capua, città di chiese e di caserme.

Mattinate napoletane

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Napoli, Marzo 1885

CARISSIMO PAOLO,
Io non ho, qui a Napoli, con chi sfogare certe mie piccole pene, che mi pare abbiano tutta la buona intenzione di rimanersene meco alloggiate, in questa cameretta mia solitaria. Non ho stretto amicizia con nessuno, apposta per non dare a nessuno il modo di subitamente allontanarsi da me per qualche improvvisa scappatella che mi facesse il morboso carattere mio. Vivo solo e tranquillo in questa mia stanza, dalla quale esco a prima ora di mattina per trovarmi all'Istituto, e un po' a sera, col tempo buono, per avvelenarmi con una chicchera di caffè e con un sigaro napoletano. Il caffè, per acquaccia nera che sia, mi permette di studiare e di leggere fino a notte avanzata, e ciò mi fa bene, lasciandomi dimenticare, sviando il pensiero e interessandomi a qualche cosa fuori di me stesso.

Novelle Napolitane

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Giugno mite, dolcissimo, avea sorriso alle cose con l'ultima sua tepida giornata. Il piccolo vecchio sedeva in una pur vecchia poltrona ancora pienotta, nell'angolo della finestra. Le mani carezzavano i pomi dei bracciuoli; leggermente china la testa sul petto, gli occhi socchiusi, egli era vinto da un languore, nella rosea poesia del tramonto.

Citazioni su Salvatore Di Giacomo

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  • Croce elevò Di Giacomo a poeta nazionale, assoluto, liberandolo da una caratterizzazione «dialettale», in virtù del superiore valore della Poesia, che non può essere definita in generi, ma in quanto arte può soltanto essere sottoposta a giudizio estetico: quella di Di Giacomo non è poesia dialettale, ma Poesia «senz'altro». (Vincenzo Regina)
  • Il linguagguio dialettale esprime nella dignità linguistica e nell'orchestrazione del ritmo ogni commozione del poeta e nel variare del timbro dà ragione della vasta scala di sensibilità di cui era capace Di Giacomo. (Raffaele Giglio)
  • Il segno più originale della presenza di Salvatore Di Giacomo nella «belle époque» partenopea, sta nella sua sdegnosa estraneità alle mode letterarie che imperversavano in quell'epoca: il classicismo professorale di Carducci, il patetico decadentismo di Pascoli e di Corazzini, l'immaginifico barocchismo di D'Annunzio, che pure a Napoli era di casa. Chino sul foglio bianco come un grande artigiano, don Salvatore si isola dal frastuono delle gazzette e dei salotti, dedicandosi piuttosto a portare ad estrema perfezione uno strumento personale che non somiglia a nessun altro, il vernacolo, mediato sì dalla realtà popolare ma filtrato attraverso esperienze altamente sofisticate, che vanno dai lirici greci dell'epoca di Saffo all'opera buffa dell'epoca di Paisiello, passando per la narrativa del Cortese e del Basile. La fusione che egli realizza tra la struttura colta del suo dialetto e la tradizione parlata attinge la perfezione nei versi delle ariette e delle canzoni nuove, dove la parola si libera «in un aere musicale» e appare «disposta a vivere per ritmi e metri in una trepidantissima aura di suggerimenti». (Antonio Ghirelli)
  • La poesia di Salvatore Di Giacomo scapigliata, verista, decadente ad un tempo nel suo sviluppo storico, si caratterizza per essere lirica e fantastica: ha «il senso del misterioso; pova il fascino del passato [Benedetto Croce]», è immagine velata e musicale del suo tempo interiore. (Vincenzo Regina)
  • Salvatore Di Giacomo morirà solo quando Marechiaro (che ora ha una via intitolata al suo nome) e l'intera Napoli avranno cessato di esistere... (Giuseppe Marotta)
  • Salvatore Di Giacomo, poeta, narratore, drammaturgo, autore di canzoni, storico, giornalista, bibliotecario, è da ritenersi per la qualità della sua arte, per la sua opera, e per il suo valore di studioso il più illustre letterato napoletano; insieme a Benedetto Croce ha rappresentato un vertice assoluto della cultura del suo tempo, non soltanto a Napoli, ma anche in Italia e all'estero. (Vincenzo Regina)
  • Tal quale il Di Giacomo delle novelle e de versi si ritrova nei parecchi libri che ha pubblicati di ricerche storiche [...].
    L'erudito può fare qualche obiezione e dichiararsi mal soddisfatto e dell'accoppiamento di storia e immaginazione e della subordinazione dei problemi propriamente storici alla contemplazione sentimentale e passionale. Ma sotto l'aspetto artistico, come non accettare le pagine d'arte, che il Di Giacomo, non sapendo resistere alla propria natura, ha frammezzate ai suoi spogli di documenti? (Benedetto Croce)

Note

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  1. Da Il palazzo di Giustizia in Napoli, in Saggi insoliti, Stamperia del Valentino, Napoli; citato in Antonio Emanuele Piedimonte e Anna Scognamiglio, Napoli. Uomini, luoghi e storie della città smarrita Intra Moenia, Napoli, 2013, p. 13. ISBN 978-88-95178-77-6
  2. Da Napoli, pp. 92-93.
  3. Citato in Epigrammi del marchese di Caccavone e del Duca di Maddaloni, a cura di Giuseppe Porcaro, Arturo Berisio Editore, Napoli, 1968, risvolto di copertina.
  4. Nuovo metodo di apertura della cornea per estrarre l'umore cristallino.
  5. Dalla prefazione a Samuel Sharp, Lettere dall'Italia 1765-1766, A descrizione di quelli usi e costumi in quelli anni, Napoli, traduzione di Constance e Gladys Hutton, prefazione e note di Salvatore Di Giacomo, Carabba, Lanciano, 1911, p. 12.
  6. Citato in Aurelio Benevento, Fogli di diario, Guida, Napoli, 2004, pp. 11-12. ISBN 88-7188-845-6
  7. Da L'Occhialetto, XIX, 29, Napoli, 18 settembre 1886; citato in Nota bio-bibliografica di Salvatore Di Giacomo, bibliocamorra.altervista.org.
  8. Da Il Quarantotto, Napoli 1903.
  9. Da Regina di Mezzocannone, Tutte le novelle, Newton Compton editori, 1991.
  10. Da Vulite 'o vasillo?, in Novelle napolitane, prefazione di Benedetto Croce, Fratelli Treves, Editori, Milano, 1919, [1].
  11. Il riferimento è al Chiostro grande.
  12. Direttore del Museo di Haarlem (Arlem nel testo), cfr. Il Museo Artistico Industriale, p. 407.
  13. Citato in Francesco Bruno, Il Decadentismo in Italia e in Europa, a cura di Elio Bruno, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998, p. 103. ISBN 88-8114-727-0
  14. Il verismo di Domenico Morelli e Filippo Palizzi. Cfr. La Scuola di Posillipo, p. 971.
  15. Da Il teatro, p. 15.
  16. (Da La canzone, p. 52.
  17. Da Masaniello, p. 70.
  18. Da Antiche taverne, p. 137.
  19. Da Il Quarantotto, p. 144.
  20. Venditore di lumache di terra o di mare o di frutti di mare.
  21. Lumache di terra o di mare.
  22. Bonaccione, semplicione. La definizione è in Sergio Zazzera, Dizionario napoletano, Newton Compton Editori, Roma, 2016, p. 18. ISBN 978-88-541-8882-2
  23. Non so a chi tu sia figlio. Cfr. Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane, nota 2, p. 192
  24. La giornata è breve, il tempo di girarti e rigirarti ed è notte. Cfr. Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane, nota 3, p. 192.
  25. E portata la mano alla bocca, non so che cosa abbia sibilato di tetro che dopo abbia detto lingua greca. Cfr. Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane, nota 4, p. 192.
  26. Da Fuorigrotta, p. 192.
  27. Ferdinando IV di Napoli, divenuto nel 1816 Ferdinando I delle Due Sicilie.
  28. Da Luci ed ombre napoletane, Francesco Perrella Società anonima editrice, Napoli, 1914, La Sanfelice, p. 215.
  29. Il XVIII° secolo.
  30. Da Poesia dialettale napoletana, p. 254.
  31. Da Poesia dialettale napoletana, p. 254.
  32. Il riferimento è alla prospettiva culturale dischiusa dall'Umanesimo.
  33. Da Poesia dialettale napoletana, pp. 254-255.
  34. Da Poesia dialettale napoletana, p. 257.
  35. Da La via dell'abbondanza, p. 258.
  36. Da La via dell'abbondanza, pp. 259-260.
  37. Da Un signore originale, p. 270.
  38. Non vedi? Sto morendo...
  39. Da Il duca di Maddaloni, p. 283.
  40. Dalla necrologia per Francesco Proto; citato, con alcune varianti, in Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, Saggi critici, vol. III, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 19222 riveduta, p. 81. Croce cita il testo in questa forma: "Due mesi prima, in un buon giorno di sole, il povero vecchio uscì da quella camera per rivedere ancora una volta il suo studiolo, ove, finalmente, era riescito a porre in assetto i suoi libri e ad ordinare le sue carte. Ve lo ritrovai, quel giorno, sprofondato in una poltrona, presso all'aperta finestra. Un mormorìo confuso saliva, da lontano, alla pace de' balconi fioriti, alla gran pace silenziosa del Palazzo Cellammare: egli ascoltava – con la bocca schiusa, col corpo lievemente proteso, con le mani spiegate su' bracciuoli della poltrona – la voce della città, quella voce alla quale s'eran dianzi mescolati i suoi caratteristici urli di meraviglia, le sue schiette e romorose risate, i suoi scoppî approbativi che mettevano in curiosità e in subitaneo stupore i marciapiedi di Chiaia e di Toledo.
    Ascoltava, ascoltava, estatico: s'abbeverava avidamente di quel soffio di vita e un tremor nervoso lo pervadeva tutto. Solo: or egli era solo, là dentro, egli che era stato tanto con ogni cosa viva e con tutti. E, pian piano, il suo povero corpo s'abbandonò, le mani scivolarono su pe' bracciuoli, la testa reclinò, triste, sul petto.
    – Duca?
    – Oh... figlio. .. buon giorno...
    – Come state?
    Egli sorrise. E disse, piano, nel silenzio, mentre pur i romori esterni parevano sopiti, disse, napoletanamente:
    Nun vide? Sto murenno..."
  41. Da Domenico Morelli, p. 293.
  42. Gli artisti della Scuola di Posillipo.
  43. Da Edoardo Dalbono, p. 296.
  44. Da Edoardo Dalbono, pp. 297-298.
  45. Da Una difesa del realismo, p. 302.
  46. Da Una difesa del realismo, p. 302.
  47. Da Vincenzo Gemito, p. 307.
  48. Citato in Angelo Gianni, Mario Balestrieri e Angelo Pasquali, Antologia della letteratura italiana, Per le scuole medie superiori con introduzioni sugli aspetti della società e delle lettere, vol. III, parte seconda, p. 196.
  49. Con alcune differenze ortografiche in Poesie, p. 251
  50. C'entra.
  51. Eccola.
  52. Gianni, Balestrieri e Pasquali, pp. 195-196.
  53. In Poesie pp. 266-267
  54. Scandagliarlo, scrutarvi.
  55. Inventa.
  56. Diminutivo di Antonio.

Bibliografia

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  • Salvatore Di Giacomo, A «San Francisco», R. Carabba editore, 1910.
  • Salvatore Di Giacomo, Canzone e Ariette nove, Riccardo Ricciardi Editore, Napoli, 1916.
  • Salvatore Di Giacomo, Evocazioni e prose d'arte, in Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane, a cura di Romualdo Marrone, 2M Edizioni, pubblicato in accordo con Newton Compton Editori, stampa 2018, pp. 253-310. ISBN 978-88-9322-210-5
  • Salvatore Di Giacomo, L'ignoto, Lanciano, R. Carabba, 1920.
  • Salvatore Di Giacomo, La Scuola di Posillipo, in Poesie e prose, prefazione di Elena Croce, note all'edizione e cronologia a cura di Lanfranco Orsini, note ai testi, note e bibliografia a cura di Lanfranco Orsini, glossario a cura di Lanfranco Orsini, Mondadori, I Meridiani, 2007, pp. 951-971. ISBN 88-04-13499-2
  • Salvatore Di Giacomo, Mattinate napoletane, Napoli, L. Pierro, 1887.
  • Salvatore Di Giacomo, Napoli, parte prima, Istituto italiano d'arti grafiche - editore, Bergamo, 1907.
  • Salvatore Di Giacomo, Napoli: figure e paesi e Luci e ombre napoletane, a cura di Romualdo Marrone, 2M Edizioni, pubblicato in accordo con Newton Compton Editori, stampa 2018. ISBN 978-88-9322-210-5
  • AA. VV, Napoli ieri, Edizioni S.a.r.a. .
  • Salvatore Di Giacomo, Novelle Napolitane, Treves, 1919.
  • Salvatore Di Giacomo, 'O voto, Oscar Mondadori, Milano 1966.
  • Salvatore Di Giacomo, Per la storia del brigantaggio nel Napoletano, Osanna Edizioni, 1990.
  • Salvatore Di Giacomo, Storia del Teatro San Carlino, cap. VIII, IX, X, in Poesie e prose, prefazione di Elena Croce, note all'edizione e cronologia a cura di Lanfranco Orsini, note ai testi, note e bibliografia a cura di Lanfranco Orsini, glossario a cura di Lanfranco Orsini, Mondadori, I Meridiani, 20007, pp. 833-916. ISBN 88-04-13499-2

Filmografia

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Altri progetti

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