Odissea

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Voce principale: Omero.

L'Odissea (in greco Οδύσσεια), poema epico attribuito al poeta greco Omero.

Le avventure di Ulisse (Apollonio di Giovanni di Tomaso e Marco del Buono Giamberti, 1460 ca.)

Incipit[modifica]

L'íncipit del poema in lingua originale, vv. 1-9.

Originale[modifica]

Ἄνδρα μοι ἔννεπε, Μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσε·
πολλῶν δ' ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ' ὅ γ' ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.
ἀλλ' οὐδ' ὧς ἑτάρους ἐρρύσατο, ἱέμενός περ·
αὐτῶν γὰρ σφετέρῃσιν ἀτασθαλίῃσιν ὄλοντο,
νήπιοι, οἳ κατὰ βοῦς Ὑπερίονος Ἠελίοιο
ἤσθιον· αὐτὰρ ὁ τοῖσιν ἀφείλετο νόστιμον ἦμαρ.
τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν.

Rosa Calzecchi Onesti[modifica]

L'uomo ricco di astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch'ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patì in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, benché tanto volesse,
per loro propria follìa si perdettero, pazzi!,
che mangiarono i bovi del Sole Iperione,
e il Sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Anche a noi di' qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.

Ettore Capuano[modifica]

L'uomo ricordami o Musa, astuto, che molti mali
sofferse poi ch'ebbe distrutto la sacra rocca di Troia;
di molti uomini vide città e conobbe il pensiero,
molti dolori soffrì nel cuore andando sul mare
lottando per la sua anima e per il ritorno dei suoi;
ma non riuscì a salvarli sebbene lo volesse:
chè per la loro infamia si perdettero folli
cibandosi coi buoi d'Iperione Elios
che portò via il giorno del ritorno loro:
di questi fatti, o Dea, figlia di Dio ora narraci.

Maria Grazia Ciani[modifica]

L'uomo, cantami, dea, l'eroe dal lungo viaggio, colui che errò per tanto tempo dopo che distrusse la città sacra di Ilio. Vide molti paesi, conobbe molti uomini, soffrì molti dolori, nell'animo, sul mare, lottando per salvare la vita a sé, il ritorno ai suoi compagni. Desiderava salvarli, e non riuscì; per la loro follia morirono, gli stolti, che divorarono i buoi sacri del Sole: e Iperione li privò del ritorno.
Di questi eventi narraci qualcosa, dea, figlia di Zeus.

Niccolò Delvinotti[modifica]

Dimmi l'accorto eroe, Musa, che tanto
Errò, poiché le sacre a terra sparse
Ilìache mura, che di molte genti
Visitò le città, l'indol conobbe;
Che sul pelago ancor patì nell'alma
Immensi affanni, onde raddurre in salvo,
Sé medesmo esponendo, i suoi compagni.
Ma i compagni bramò raddurre invano,
Ché di lor nequitose opre perîro.
Stolti! che i sacri al Sol Iperione
Buoi divorâro, ed ei del redir loro
Il dì rapiva. O Dea, prole di Giove,
Parte a noi pure di siffatti eventi,
Donde ti è in grado più, ridir ti piaccia.

Giacomo Leopardi[modifica]

L'uom dal saggio avvisar cantami, o Diva,
Che con diverso error, poi che la sacra
Ilio distrusse, le città di molti
Popoli vide ed i costumi apprese.
In suo core egli pur di molti affanni
Nel pelago soffrì, mentre cercava
A sè la vita, ed ai compagni suoi
Comperare il ritorno. E pur nessuno,
Ben ch'il bramasse, ne salvò! Periro
Tutti per lor follia, stolti! che i buoi
Mangiàr del sole eccelso: ei del ritorno
Lor tolse il dì. Figlia di Giove, alquanto
Dinne di questi casi ancora a noi.

[Giacomo Leopardi, Saggio di traduzione dell'Odissea, in Tutte le opere, a cura di Lucio Felici, Lexis Progetti Editoriali, Roma, 1998. ISBN 88-87083-04-5]

Ippolito Pindemonte[modifica]

Musa, quell'uom di multiforme ingegno
dimmi, che molto errò, poich'ebbe a terra
gittate d'Ilïòn le sacre torri;
che città vide molte, e delle genti
l'indol conobbe; che sovr'esso il mare
molti dentro del cor sofferse affanni,
mentre a guardar la cara vita intende,
e i suoi compagni a ricondur: ma indarno
ricondur desïava i suoi compagni,
ché delle colpe lor tutti perîro.
Stolti! che osâro vïolare i sacri
al Sole Iperïon candidi buoi
con empio dente, ed irritâro il nume,
che del ritorno il dì lor non addusse.
Deh, parte almen di sí ammirande cose
narra anco a noi, di Giove figlia e diva.

Giuseppe Aurelio Privitera[modifica]

Narrami, o Musa, dell'eroe multiforme, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell'animo suo,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus.

Giuseppe Tonna[modifica]

Parlami, o Musa, dell'uomo versatile e scaltro che andò vagando tanto a lungo, dopo che ebbe distrutto la sacra roccaforte di Troia. Egli vide le città di molti uomini e ne conobbe i costumi: soffrì molte traversie in mare cercando di salvar la sua vita e il ritorno dei compagni. Ma neppure così i compagni li salvò, sebbene lo desiderasse e volesse. Morirono per le loro colpe e follie, quegli insensati: ché mangiavano i buoi del Sole Iperione. E il dio gli tolse il ritorno. Tali vicende dille anche a noi, o dea figlia di Zeus, partendo da un punto qualunque della narrazione.

Libro I[modifica]

  • Ahimè, sempre gli uomini accusano gli dei: dicono che da noi provengono le sventure, mentre è per i loro errori che patiscono e soffrono oltre misura. (Zeus agli altri dèi: 2000, p. 4)
  • Quale parola, o figlia, t'uscí dalla chiostra dei denti? (Giove ad Atena: 1926, vol. I, p. 5)
  • Ma Nettun freme d'implacabil ira | contra l'eroe, che l'occhio unico estinse | al divo Polifemo, il più gagliardo | d'infra i Ciclopi tutti. Al Dio la Ninfa | Toósa il partorì, figlia di Forco, | re dello steril mar, ché lei Nettuno | comprimea ne' segreti antri marini. | Da indi in qua, non ei percosse a morte | il divo Ulisse, ma dal patrio lido | errar lungi lo sforza. Or via, noi tutti | consultiamo del modo ond'ei ritorni. | L'ira Nettuno deporrà, ché a fronte | star non potrà di tutti i Numi ei solo. (Zeus ad Atena: 2004, vv. 89-101)
  • E tu, caro, giacché ti vedo assai grande e bello, | sii valoroso: così anche tra i posteri ci sarà chi ti lodi.[1] (Atena a Telemaco: 2013, vv. 301-302)
  • Torna ora nelle tue stanze, bada alle tue cose, al fuso e al telaio, e ordina alle ancelle di pensare al lavoro. Agli uomini sono riservati i discorsi, a tutti, ma a me soprattutto che in questa casa regno e comando. (Telemaco a Penelope: 2000, p. 13)
  • Gli rispose, quindi, la dea Glaucopide Atena: | ora non trattenerm: troppo mi urge d'andare, | il dono che mi offri, spinto da cuore amico, | lo prenderò al ritorno per portarlo a casa. | Sceglilo molto bello ché tu ne avrai uno pari. (Atena a Telemaco: 2014, p. 11)

Libro II[modifica]

  • Come la figlia del mattin, la bella | dalle dita di rose Aurora surse, | surse di letto anche il figliuol d'Ulisse, | i suoi panni vestì, sospese il brando | per lo pendaglio all'omero, i leggiadri | calzari strinse sotto i molli piedi | e della stanza uscì rapidamente, | simile ad un degli Immortali in volto. (1961, vv. 1-8)
  • Tra voi, principi insolenti, io non posso mangiare tranquillo ed essere sereno. Non vi basta, Proci, aver già divorato tante e preziose ricchezze mie, quando ero ancora ragazzo? Ora poiché sono adulto e comprendo quanto dicono gli altri, poiché il coraggio cresce nel mio cuore, cercherò di scagliare su di voi un destino amaro, sia che vada a Pilo sia che qui rimanga. (Telemaco ai Proci: 2000, p. 26)
  • Così parlo Telemaco; due aquile Zeus tonante | mandò a volo dall'alto di una vetta montana. | Esse volarono sempre con il soffio del vento | l'una accanto all'altra con le ali aperte | ma quando giunsero sopra l'assemblea vociante | voltandosi agitarono velocemente le ali | planando sulle teste di tutti con sguardo di morte; | poi lacerati con furia d'artigli collo e capo | scomparvero a destra volando per la città sulle case. (Il presagio di Zeus: 2014, p. 21)
  • Pochi dei figli, invero, riescono simili ai padri: | i più sono più tristi, ben pochi migliori dei padri. (Atena a Telemaco: 1926, vol. I, p. 30)

Libro III[modifica]

  • Uscito delle salse acque vermiglie, | montava il sole per l'eterea volta | di bronzo tutta, e in cielo ai dèi recava | ed agli uomini il dì su l'alma terra: | quando alla forte Pilo, alla cittade | fondata da Nelèo, giunse la nave. (1961, vv. 1-6)
  • Per Telemaco intanto preparava un bagno Policasta la bella, figlia minore di Nestore figlio di Peleo. E quando lo ebbe lavato e unto di olio abbondante, gli fece indossare una tunica, gli avvolse intorno un mantello bellissimo; dal bagno egli uscì bello come un dio immortale e andò a sedersi accanto a Nestore, signore di popoli. (2000, p. 44).

Libro IV[modifica]

Telemaco incontra Menelao ed Elena a Sparta, dipinto di Jean-Jacques Lagrenée, 1795
  • Giunsero all'ampia, che tra i monti giace, | Nobile Sparta, e le regali case | Del glorïoso Menelao trovaro. | Questi del figlio, e della figlia insieme | Festeggiava quel dì le doppie nozze, | E molti amici banchettava. (1961, vv. 1-6)
    • Giunsero nella concava Lacedèmone in piano | guidando il carro al palazzo dell'illustre Menelao. | Giunsero mentre offriva pranzo di nozze agli amici, | molti, nella sua casa per il figlio e la nobile figlia; | questa inviata al figlio di Achille il distruttore. | Infatti in Troia promise, convinto d'avviarla | per concederla in nozze e gli dèi assentirono. (2014 v. 1- 7)
  • Ed io non rimbrotto | che alcuno pianga un uomo domato dal fato di morte: | ché questo solo onore si rende ai mortali defunti, | recidere le chiome, bagnare di pianto le gote. (Pisistrato a Menelao: 1926, vol. I, p. 65)
  • Sappiam noi, Menelao di Giove alunno, | chi sieno i due, che ai nostri tetti entraro? | Parlar m'è forza, il vero, o il falso io dica: | però ch'io mai non vidi, e grande tiemmi | nel veder maraviglia, uomo, né donna | così altrui somigliar, come d'Ulisse | somigliar dee questo garzone al figlio, | ch'era bambino ancor, quando per colpa | ahi! di me svergognata, o Greci, a Troja | giste, accendendo una sì orrenda guerra. (Elena a Menelao: 1961, vv. 180-189)
  • [...] cosí a lungo non piangere tanto dirotto, | ché verun esito darci non posson le lagrime. (1926, vol. I, p. 77)
  • Lo vidi in un'isola [Odisseo] – versava lacrime fitte – nella dimora della ninfa Calipso che a forza lo costringe a restare. Non può ritornare alla terra dei padri, perché non ha più navi dai lunghi remi né compagni che lo conducano sulla vasta distesa del mare. (Proteo a Menelao, nel racconto di Menelao a Telemaco: 2000, p. 63).

Libro V[modifica]

  • Già l'Aurora, levandosi a Titone | d'allato, abbandonava il croceo letto, | e ai dèi portava ed ai mortali il giorno; | e già tutti a concilio i dèi beati | sedean con Giove altitonante in mezzo, | cui di possanza cede ogni altro nume. (1961, vv. 1-6)
  • Hermes – tu che sei il messaggero – alla ninfa dai bei capelli va ad annunciare la decisione immutabile, che l'intrepido Odisseo deve tornare. Tornerà senza avere compagni né dei né uomini: sopra una zattera di tronchi legati, dopo molto patire giungerà, nel ventesimo giorno, alla fertile Scheria, terra dei Feaci di stirpe divina, che come un dio lo onoreranno nel cuore e con una nave lo manderanno all'amata terra dei padri. (Zeus a Hermes: 2000, p. 74)
  • Spietati siete, dèi, e più di ogni altro gelosi, voi che invidiate le dee quando sposano un uomo che amano e apertamente dormono accanto a un mortale. (Calipso a Hermes: 2000, p. 76)
  • Se ancora qualcuno dei numi vorrà tormentarmi sul livido mare, | sopporterò, perché in petto ho un cuore avvezzo alle pene. | Molto ho sofferto, ho corso molti pericoli | fra l'onde e in guerra: e dopo quelli venga anche questo! (Ulisse a Calipso: 1989, vv. 221-24)
  • [...] l'Orsa, a cui danno anche il nome di Carro, che sempre lì [al polo] si volge, e guata Orione, e sola non partecipa dei lavacri dell'Oceano [...]. (vv. 271-274; 1937, p. 103)

Libro VI[modifica]

  • Mentre sepolto in un profondo sonno | colà posava il travagliato Ulisse, | Minerva al popol de' Feaci, e all'alta | lor città s'avviò. (1961: vv. 1-5)
  • [...] niente è più bello, più prezioso di questo, | quando con un'anima sola dirigono la casa | l'uomo e la donna [...]. (Ulisse a Nausicaa: 1989, vv. 82-84)
  • Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, ciò che ricevono, anche se poco, è gradito. Allo straniero offrite, ancelle, da mangiare e da bere, fatelo lavare nelle acque del fiume, al riparo dal vento. (Nausicaa alle ancelle: 2000, p. 93; vv. 207-8)

Libro VII[modifica]

Odisseo alla corte di Alcinoo, olio su tela di Francesco Hayez, 1814-1815
  • [...] l'uomo ardito ha sempre il vantaggio in ogni cosa che faccia [...]. (Atena a Ulisse: 51; 1937, p. 127)
  • Nulla io so di più molesto | che il digiun ventre, di cui l'uom mal puote | dimenticarsi per gravezze o doglie. (Alcinoo: 1961, vv. 279-281)
  • È difficile, mia regina, narrare dal principio alla fine le mie sventure,[2] perché gli dei del cielo me ne inflissero molte. Ma ti dirò quello che mi chiedi e domandi. Lontano di qui, in mezzo al mare, c'è un'isola, Ogigia, dove vive la figlia di Atlante, la scaltra Calipso dai bei capelli, dea potentissima. Alla sua casa nessuno va, né uomo né dio. Un demone condusse me, solo, infelice, dopo che Zeus con la sua vivida folgore colpì la mia nave veloce e la spezzò, in mezzo al mare color del vino. (Odisseo a Arete: 2000, p. 104)
  • Ospite, non è davvero tale il mio cuore nel petto | da sdegnarsi senza ragione; la misura è la cosa migliore. (Alcinoo a Ulisse: 2013, vv. 309-10)

Libro VIII[modifica]

  • Quando giunsero al mare ed alla nave in riva | tirarono la nave scura sul Mare profondo, | poi trinsero i remi negli stroppi di cuoio | e, ordinando ogni cosa, stesero le vele bianche: | posto l'albero a vela nella nave scura; | alla fine, ormeggiata la nave alla fonda, | andarono al grande palazzo del sovrano Alcínoo. (2014, v. 50-56)
  • Non c'è gloria più grande per un uomo, fintanto che viva, | di ciò che riesca a fare con i piedi o con le sue mani. (Il figlio di Alcinoo a Ulisse: 2013, vv. 147-48)
Vieni anche tu, ospite, a misurarti nelle gare, se ne conosci qualcuna – e certo tu ne conosci. Non c'è per l'uomo maggior gloria di quella che si procura coi suoi piedi, con le sue mani. Prova, dunque, scaccia i tormenti dal cuore. Il tuo cammino non è più così lungo, la nave è già in mare e sono pronti i compagni. (2000, p. 113)
  • Certo non agli uomini tutti fanno bei doni | i numi, bellezza, senno, parola eloquente. (Ulisse ad Alcinoo: 1989, vv. 167-68)
  • Il lento raggiunge lo svelto! [frase proverbiale pronunciata da un dio innominato dopo che Hefaisto, zoppo, ha incatenato con un tranello Are, il più veloce tra gli dèi] (1937, 329)
  • [...] misera garanzia garantir per i vili. (Efesto a Poseidone: 1989, v. 351)
  • Il nome dimmi, | con che il padre solea, solea la madre, | e i cittadin chiamarti, ed i vicini: | ché senza nome uom non ci vive in terra; | sia buono, o reo, ma, come aperse gli occhi, | da' genitori suoi l'acquista in fronte. | Dimmi il tuo suol, le genti, e la cittade, | sì che la nave d'intelletto piena | prenda la mira, e vi ti porti. (Alcinoo a Odisseo: 1961, vv. 717-725)
  • E dimmi perché piangi e ti lamenti entro il tuo cuore nell'udire la sorte degli Argivi Danai e di Ilio. Furono gli dei che la vollero ed essi assegnarono agli uomini la sciagura, acciocché anche i posteri avessero materia di canto. (Alcinoo a Ulisse: vv. 577-80; 1937, p. 157)
  • Certo che meno d'un fratello non è | chi t'è compagno e conosce sapienza. (Alcinoo a Ulisse: 1989, vv. 585-86)

Libro IX[modifica]

Gruppo marmoreo Polyphemus, Grecia, II sec. aev, Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga
  • Ulisse, il figlio di Laerte, io sono, | Per tutti accorgimenti al Mondo in pregio, | E già noto per fama in sino agli astri. | Abito la serena Itaca, dove | Lo scuotifronde Nerito si leva | Superbo in vista, ed a cui giaccion molte | Non lontane tra loro isole intorno, | Dulichio, Same, e la di selve bruna | Zacinto. All'orto, e al mezzogiorno queste, | Itaca al polo si rivolge, e meno | Dal continente fugge: aspra di scogli, | Ma di gagliarda gioventù nutrice. (Odisseo a Alcinoo: 1961, vv. 22-33)
  • [...] della propria casa non v'è cosa al mondo più dolce. (Ulisse ad Alcinoo: 1926, vol. I, p. 162, v. 28)
  • Da Ilio il vento mi spinse vicino ai Ciconi, a Ismaro. Qui devastai la città, uccisi gli uomini. Dalla città portammo via le donne e molte ricchezze che dividemmo perché nessuno partisse privo della sua parte. (Odisseo a Alcinoo: 2000, p. 128)
  • Di lì navigammo ancora, col cuore dolente. E arrivammo alla terra dei Ciclopi superbi e senza legge, i quali, fidando negli dei immortali, non piantano, non arano mai: nasce tutto senza semina e senza aratura, il grano, l'orzo e le viti che fioriscono di grappoli sotto la pioggia di Zeus. (Odisseo a Alcinoo: 2000, p. 130)
  • Quivi abitava un mostro feroce, [Polifemo] che i greggi pasceva, | solo, in disparte da tutti, perché non andava con gli altri, | ma se ne stava da solo, né avea pure idea di giustizia. | Era, a vederlo, un portento tremendo: ché già non sembrava | uomo che cibi pane, ma picco tutto irto di selve, | che sopra tutti gli altri si levi in un giogo di monti. (1926, vol. I, p. 167, vv. 185-190)
  • [Odisseo rivolto a Polifemo] "Tu chiedi il mio nome glorioso, Ciclope; io te lo dirò, ma tu dammi il dono che mi hai promesso. Nessuno è il mio nome, Nessuno mi chiamano padre e madre e tutti gli altri compagni".
    Così dissi e mi rispose quell'uomo dal cuore crudele:
    "Per ultimo io mangerò Nessuno, dopo i compagni, li altri li mangerò prima. Questo è il mio dono ospitale". (Odisseo a Alcinoo, nel racconto di Odisseo alla corte dei Feaci: 2000, p. 137)
  • [...] il sonno che tutto doma [...]. (2013, v. 373)
  • Vennero come le foglie che nascono in primavera | con le nebbie di Eos e cadde la sventura di Dio su noi sfortunati che soffrimmo ancora molti mali. | Schierati in battaglia lottammo presso le agili navi | e gli uni gli altri colpivano con le aste di bronzo; | finché c'era Eos e cresceva il sacro | Giorno | resistemmo a difenderci contro forze abbondanti; | ma quando Elios andava all'ora che slegano i buoi | i Ciconi respinsero gli Achei sopraffatti. (Odisseo e Polifemo, 2014)

Libro X[modifica]

Odisseo minaccia Circe con la spada, terracotta del 440 aev
  • Così dicevano, e il cattivo consiglio dei compagni prevalse. Aprirono l'otre, tutti i venti ne uscirono, e il turbine li afferrò all'improvviso e li riportò al largo, piangenti, lontani dalla patria terra. Mi risvegliai, incerto nel cuore se gettarmi giù dalla nave e morire nel mare o sopportare in silenzio e restare ancora fra i vivi. Sopportai e rimasi: avvolto nel mantello, giacqui sulla mia nave. (Odisseo alla corte dei Feaci: 2000, p. 146)
  • E giungemmo all'isola Eea. Circe dai bei capelli viveva qui, la dea tremenda che parla con voce umana, sorella del crudele Eeta: figli entrambi del Sole che illumina gli uomini, e di Perse, che fu generata da Oceano. (Odisseo alla corte dei Feaci: 2000, p. 149)
  • Mi diede un otre scuoiando un bue di nove anni | e dentro pose le vie degli uragani urlanti; | perché il Cronide lo fece come signore dei venti, | potendo fermare o slanciare tutto quello che vuole. | Legò l'otre nella concava nave con catena d'argento, | lucida; perché non soffiassero per nulla al di fuori; | mi mandò solo di dietro a soffiare Zèffiro | per portare noi e le navi; ma non doveva | condurci al fine e perimmo per la nostra follia. (Odisseo e Circe: 2014, v. 20-28)
  • [...] interrogar lo spirto | del Teban vate, che, degli occhi cieco, | puro conserva della mente il lume; | di Tiresia, cui sol diè Proserpina | tutto portar tra i morti il senno antico. | Gli altri non son, che vani spettri, ed Ombre. (Circe: 1961, vv. 613-618)
  • Chi potrìa de' numi | Scorgere alcun che qua o là si mova | Quando dall'occhio uman voglion celarsi? (Odisseo alla corte dei Feaci: 1961, vv. 711-713)

Libro XI[modifica]

Tiresia appare a Odisseo durante il sacrificio, acquerello di Johann Heinrich Füssli, 1780 ca.
  • Giunti al divino mare, il negro legno | prima varammo, albero ergemmo, e vele, | e prendemmo le vittime, e nel cavo | legno le introducemmo: indi con molto | terrore, e pianto, v'entravam noi stessi. (Odisseo alla corte dei Feaci: 1961, vv. 1-5)
  • Ma quando, nella tua casa, avrai ucciso i pretendenti, con l'inganno o affrontandoli con le armi taglienti, prendi allora il remo e rimettiti in viaggio fino a che giungerai presso genti che non conoscono il mare, da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono navi dalle prore dipinte di rosso, né gli agili remi che sono ali alle navi. Ti indicherò un chiaro segno, che non potrà sfuggirti: quando un altro viandante, incontrandoti, ti dirà che sulla spalla porti un ventilabro, pianta allora in terra il tuo agile remo, offri al dio Poseidone sacrifici perfetti – un montone, un toro, un verro che monta le scrofe – e fa ritorno a casa: qui offri sacre ecatombi agli dei immortali che possiedono il cielo infinito, a tutti, senza escludere alcuno. La morte verrà per te lontano dal mare, ti coglierà nella vecchiaia ricca di beni, e sarà dolce. Avrai, intorno a te, un popolo felice. Questa è la verità che ti dico. (Tiresia a Odisseo, nel racconto di Odisseo alla corte dei Feaci: 2000, pp. 166-167)
  • Perciò troppo benigno non sii neppur tu con tua moglie, | né confidarle tutto, qualunque discorso tu sappia; | bensì dille una cosa, ma lasciane un'altra nascosta. (Alcinoo a Ulisse: 1926, vol. I, p. 218)
  • E poi Alcmèna vidi, d'Anfitríone la sposa, | ch'Eracle furia audace, cuor di leone | tra le braccia del grande Zeus concepiva. (L'evocazione dei morti: 1989, vv. 266-269)
  • Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. | Vorrei esser bifolco, servire un padrone, | un diseredato, che non avesse ricchezza, | piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte. (Achille a Ulisse: 1989, vv. 488-91)
    • O divino Odisseo, non abbellirmi la morte. Sappi che piuttosto che il re dei morti preferirei essere l'ultimo servo dei vivi.[3]
  • Costei [Clitennestra], che tutta del peccar sa l'arte | Sé ricoprì d'infamia, e quante al mondo | Verranno, e le più oneste anco, ne asperse. (Agamennone a Odisseo, nel racconto di Odisseo alla corte dei Feaci: 1961, vv. 549-551)
  • Ed anche Sisifo vidi, che dure pene soffriva: un masso enorme reggeva con entrambe le braccia e, puntando i piedi e le mani, lo spingeva in alto, verso la cima di un colle. Ma quando stava per superare la vetta, allora una forza violenta lo precipitava all'indietro: rotolava di nuovo a terra quel masso dannato. Ancora una volta spingeva, con il corpo teso, dalle membra scorreva il sudore, dal capo saliva la polvere. (Odisseo: 2000, p. 180)
  • E poi conobbi la grande forza d'Eracle, | ma la parvenza sola: lui tra i numi immortali | gode il banchetto, possiede Ebe caviglia bella, | figlia del gran Zeus e d'Era sandali d'oro. (L'evocazione dei morti: 1989, vv. 601-604)
  • Fuori dall'Erebo si affollano le anime travolte da morte: | giovani donne e ragazzi con vecchi che | molto soffrirono; anche fanciulle tenere con fresco dolore nell'anima; | molti feriti dalle aste con la punta di bronzo; | guerrieri uccisi in lotta con armi intrise di sangue. | Molti, spingendosi tra loro, intorno alla buca | gridavano orribilmente ghiacciandomi di orrore. | Quindi spinsi subito i compagni ed ordinai di scannare le bestie con il bronzo spietato | scuoiandole per arderle supplicando gli dèi: l'invincibile Ade e la terribile Persefone. | Intanto io sfoderavo la spada affilata dall'anca | e sedendo non lasciavo avvicinare al sangue, | prima d'interrogare Tiresia, i teschi esangui dei morti. (Odisseo agli inferi: 2014)

Libro XII[modifica]

Odisseo e le Sirene, olio su tela di John William Waterhouse, 1891
  • Allora incontro ti verran le belle | spiagge della Trinacria isola, dove | pasce il gregge del Sol, pasce l'armento. (Circe a Odisseo, nel racconto di Odisseo alla corte dei Feaci: 1961, vv. 164-166)
  • Avvicinati dunque, glorioso Odisseo, grande vanto dei Danai, ferma la nave, ascolta la nostra voce. Nessuno è mai passato di qui con la sua nave senza ascoltare il nostro canto dolcissimo: ed è poi ritornato più lieto e più saggio. (Le sirene a Odisseo, nel racconto di Odisseo alla corte dei Feaci: 2000, p. 188)
  • Fremevano le pelli, muggivano sugli spiedi le carni | cotte e crude: s'udiva una voce come di vacche.[4]
  • Miei cari, noi non siamo ignari di mali, e questo | che incombe non è più grande di quando il Ciclope | con la sua forza violenta ci serrò nell'antro profondo. | Di là grazie al mio valore e intendimento e pensiero | sfuggimmo. E anche delle cose di ora, credo, ci ricorderemo. (Ulisse ai compagni, avvicinandosi a Scilla: 2013, vv. 208-212)
  • Non permise il padre degli dei e degli uomini che mi vedesse Scilla: non avrei potuto sfuggire all'abisso di morte. Per nove giorni vagai, la decima notte gli dei mi gettarono sull'isola Ogigia, dove vive Calipso dai bei capelli, la dea che parla con voce umana. Lei mi accolse ed ebbe cura di me.
    Ma perché sto a raccontare? Già l'ho narrato ieri, in questa sala, a te e alla tua nobile sposa, non amo ripetere cose già dette. (Odisseo a Alcinoo: 2000, p. 196)

Libro XIII[modifica]

  • Pontonoo, nella coppa grande mescola l'acqua col vino e, nella sala, versalo a tutti affinché, dopo aver invocato il padre Zeus, lasciamo che l'ospite torni nella terra dei padri. (Alcinoo all'araldo: 2000, p. 198)
  • Scaltro sarebbe davvero chi ti superasse nelle tue astuzie, anche se fossi un dio. O uomo tenace, mai sazio di inganni, neppure adesso che sei nella tua terra vuoi rinunciare alla bugie, alle invenzioni che ti sono care. Ma ora finiamola, entrambi sappiamo essere astuti, tu fra tutti gli uomini sei il migliore per la parola e i pensieri, e io fra tuti gli dei sono famosa per intelligenza e saggezza. (Atena a Ulisse: 2000, p. 205)

Libro XIV[modifica]

  • [...] odioso quell'uomo | che, da miseria astretto, s'induce a spacciare menzogne. (Ulisse a Eumeo: 1926, vol. II, p. 26)
  • [...] varj dell'uom sono i desiri. (Ulisse a Eumeo: 1961, v. 265)
    • Chi trova piacere in una attività chi in un'altra. (2013, v. 229)
  • Io millantarmi alquanto | voglio qual mi comanda il folle vino, | che talvolta i più saggi a cantar mosse | più in là d'ogni misura, a mollemente | rider, spiccar salti improvvisi, ed anche | quello a parlar, ch'era tacere il meglio. (Ulisse a Euméo: 1961, vv. 550-553)

Libro XV[modifica]

  • Mal si comporta, così chi l'ospite contro sua voglia | spinge a partire, come chi vuol trattenerlo se ha fretta. (Menelao a Telemaco: 1926, vol. II, p. 43, vv. 72-4)
  • Non c'è per i mortali cosa peggiore dell'andare errabondo; | ma per colpa del ventre maledetto soffrono miseri patimenti | gli uomini, a cui tocchi vita raminga e pena e dolore. (Ulisse a Eumeo: 2013, vv. 343-45)
  • [...] l'uomo s'allegra sinanche al ricordo dei mali [...]. (Eumeo a Ulisse: 1926, vol. II, p. 54)

Libro XVI[modifica]

  • Se in man nostra tutto | fosse, il ritorno a procurar del padre | non si rivolgerebbe ogni mia cura? (Telemaco: Libro XVI: 1961, vv. 167-169)
  • Ma sta sulle ginocchia dei Numi l'evento futuro. (Telemaco a Ulisse: 1926, vol. II, p. 67)
  • [...] si presero il dono del sonno. (2013, v. 481)

Libro XVII[modifica]

  • [...] il dio sempre il simile al suo simile appaia. (Melanzio a Eumeo e Ulisse; 2013, v. 218)
  • I servi, quando non ci sono più i padroni a comandare, | non hanno più voglia di fare il lavoro dovuto. (Eumeo a Ulisse; 2013, vv. 320-21)
  • [...] rotto cade ogni ritegno, dove | regna la copia, e dell'altrui si dona. (Antinoo a Ulisse: 1961, vv. 548-49)

Libro XVIII[modifica]

  • Sai tu di quanto | spira e passeggia su la terra o serpe, | ciò che al Mondo havvi di più infermo? È l'uomo. | Finchè stato felice i déi gli dànno, | e il suo ginocchio di vigor fiorisce, | non crede che venir debbagli sopra | l'infortunio giammai. Sopra gli viene? | Con repugnante alma indegnata il soffre. (Ulisse ad Anfinomo: 1961, vv. 162-69)
    • Nessun essere nutre la terra più miserevole dell'uomo | fra tutti quanti sopra la terra respirano e camminano. | Egli pensa che mai dovrà soffrire qualche male in futuro, | finché gli dèi gli concedono forza e le ginocchia sono agili; | ma quando gli dèi beati gli danno anche cose funeste, | anche questo sopporta, pur renitente, con cuore paziente. (2013, vv. 130-35)
  • [...] la mente degli uomini terreni si muta, come varia il giorno che manda[5] su di loro il padre degli uomini e degli dèi. (Ulisse ad Anfinomo: 1937, 135-37)
  • [...] nessuno mai per nessuna ragione sia iniquo, | ma si tenga in silenzio i doni degli dèi, qualunque cosa gli | diano. (Ulisse ad Anfinomo: 2013, vv. 140-42)

Libro XIX[modifica]

  • [...] il ferro da solo trascina la gente. (Ulisse a Telemaco: 1926, vol. II, p. 125)
  • [...] presto, | se la sciagura li opprime, divengono vecchi i mortali. (Ulisse a Penelope: 1926, vol. II, p. 137)
  • Tal cicatrice l'amorosa vecchia [Euriclèa] | conobbe, brancicandola, ed il piede | lasciò andar giù: la gamba nella conca | cadde, ne rimbombò il concavo rame, | e piegò tutto da una banda; e in terra | l'acqua si sparse. (Libro XIX: 1961, vv. 574-579)
  • Ospite, per i sogni siamo senza risorse, il loro linguaggio | è confuso, e non tutto dei sogni si compie per gli uomini. | Due sono le porte dei sogni, immagini senza vigore: | una è fatta di corno, l'altra di avorio. | Quelli che vengono attraverso l'avorio intagliato, | sono ingannevoli e portano parole ineffettuali; | quelli che vengono attraverso il corno ben levigato, | realizzano il vero, quando qualcuno dei mortali li veda. (Penelope a Ulisse: 2013, vv. 560-67)
  • Ma non è possibile per gli uomini restare sempre | senza sonno: per ogni cosa gli immortali hanno assegnato ai | mortali | ciò che tocca ad ognuno sulla terra dispensatrice di biade. (Penelope a Ulisse: 2013, vv. 591-94)

Libro XX[modifica]

  • Ma questo è un male sostenibile, quando uno | durante il giorno piange fittamente afflitto nel cuore, | ma la notte è soggiogato dal sonno, che induce l'oblio | del male e del bene, quando gli occhi avvolga e ricopra. (Penelope ad Artemide: 2013, vv. 83-86)

Libro XXI[modifica]

  • Ma Palla[6], occhio azzurrino, alla prudente | figlia d'Icario entro lo spirto mise | di propor l'arco ai proci e i ferrei anelli, | nella casa d'Ulisse: acerbo gioco, | e di strage principio e di vendetta. (libro XXI: 1961, vv. 1-5)

Libro XXII[modifica]

  • [...] non è lecito menar vanto sui cadaveri degli uccisi. (Ulisse a Euriclea; libro XXII; 1937, 411)

Libro XXIII[modifica]

  • La buona vecchia [Euriclèa] gongolando ascese | nelle stanze superne, alla padrona | per nunzïar, ch'era il marito in casa. (libro XXIII: 1961, vv. 1-3)
  • Come bramata la terra ai naufraghi appare, | a cui Poseidone la ben fatta nave nel mare | ha spezzato, travolta dal vento e dalle grandi onde; | pochi si salvano dal bianco mare sopra la spiaggia | nuotando, grossa salsedine incrosta la pelle; | bramosi risalgono a terra, fuggendo la morte; | così bramato era per lei lo sposo a guardarlo, | dal collo non gli staccava le candide braccia. (Penelope si ricongiunge con Ulisse; libro XXIII: 1989, vv. 233-40)

Explicit[modifica]

Originale[modifica]

ὣς φάτ' Ἀθηναίη, ὁ δ' ἐπείθετο, χαῖρε δὲ θυμῷ.
ὅρκια δ' αὖ κατόπισθε μετ' ἀμφοτέροισιν ἔθηκε
Παλλὰς Ἀθηναίη, κούρη Διὸς αἰγιόχοιο,
Μέντορι εἰδομένη ἠμὲν δέμας ἠδὲ καὶ αὐδήν.

Di Benedetto e Fabrini[modifica]

Così disse Atena, e lui obbedì e gioiva nel cuore.
Tra le due parti poi il patto giurato per il futuro stabilì
Pallade Atena, la giovane figlia di Zeus egìoco,
a Mentore somigliante per l'aspetto e anche per la voce.

Ippolito Pindemonte[modifica]

Obbedì Ulisse e s'allegrò nell'alma.
Ma eterno poi tra le due parti accordo
La figlia strinse dell'Egìoco Giove
Che a Mentore nel corpo e nella voce
Rassomigliava, la gran dea d'Atene.

Citazioni sull'Odissea[modifica]

  • Come fare allora per capire l'Odissea? Dobbiamo capirla perché comprenderla significa comprendere l'Occidente, la Grecia, noi stessi, l'arte moderna, il nostro futuro. (Pietro Citati)
  • Della nostra storia Ulisse è il deuteragonista: la protagonista è Itaca, la meta del viaggio.
    Itaca con i suoi abitanti, le sue istituzioni, la sua storia. (Eva Cantarella)
  • L'Iliade e l'Odissea sono rimasti esemplari per tutta l'epopea occidentale, sino ai tempi più recenti, sino al Goethe e al Pascoli. (Giorgio Pasquali)
  • L'Odissea ha minore forza ma più fascino, più discrezione, più mezze tinte, una psicologia più sfumata. A volte nell'Odissea si ha come il rifiuto della dimensione eroica, come un rinnegamento dell'epica in favore di una dimensione più lirica, più sentimentale. (Jacqueline Worms de Romilly)
  • La fedeltà è il tema centrale della Telemachiade; la costanza non già verso Odisseo, che è un personaggio del mito, ma verso il mito stesso, la sua forma che deve essere custodita e trasmessa intatta, perché tutto abbia senso. Penelope, Telemaco, Euriclea nei primissimi canti sono i segnacoli di questa costanza, i celebranti di un mistero che va protetto con arguzia e ostinazione; e anche quel misterioso Mentore, che sospettiamo alle soglie del terrestre, quasi un mutevole volto di Atena. (Giorgio Manganelli)
  • La nostalgia è il sentimento originario che muove l'arte, il pensiero, la grande letteratura e si condensa in mito: l'Odissea è il poema della nostalgia. L'uomo è un animale nostalgico, non sa vivere solo del presente ed è indotto a mitizzare per dare un significato alla vita. Nella sua vita nutre la nostalgia delle origini. (Marcello Veneziani)
  • Nell'Odissea nasce la religione della casa, che ha dominato l'Occidente imbevendo di sé il romanzo dell' Ottocento, fino e oltre Guerra e pace e Anna Karenina. (Pietro Citati)
  • Noi abbiamo un'idea riduttiva dell'epos di Omero, come mero ricettacolo di racconti leggendari. Ma la storicità della vicenda, dall'assedio di Troia alla figura di Agamennone, la spedizione dei principi greci e i loro tormentatissimi ritorni, non sono discutibili. L'archeologia cerca qualcosa che forse c'è stato, pur tra colpi di fortuna ed equivoci. Non è come cercare la Sindone. E Omero non è un poeta. Lui ci offre un racconto storico scritto in esametri, perché quella era l'unica forma di comunicazione. (Luciano Canfora)
  • Non puoi immaginare che felicità sia leggere l'Odissea nell'originale. Si ha l'impressione che basti sollevarsi sulla punta dei piedi e allungare la mano per toccare le stelle. (William Somerset Maugham)
  • Omero compose l'Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, è impossibile non comporre, almeno una volta, l'Odissea. (Jorge Luis Borges)

Note[modifica]

  1. Cfr. III, vv. 199-200.
  2. Qui prende inizio la narrazione di Odisseo presso la corte dei Feaci, che proseguirà descritta nei libri dal IX al XII.
  3. Citato in Luciano De Crescenzo, I pensieri di Bellavista, Mondadori, 2005, p. 191. ISBN 88-04-53961-5. Nella traduzione di Pindemonte la corrispondenza è coi versi 613-617.
  4. Citato in Plutarco, I dispiaceri della carne. Perì sarcophagìas, a cura di Alessandra Borgia, Stampa alternativa, Roma, 1995, p. 11. ISBN 88-7226-269-0. Nella traduzione di Pindemonte la corrispondenza è coi versi 509-512.
  5. prop.; «è tale quale (è) il giorno (che) adduce» ecc. La sentenza si trova ripetuta quasi con le stesse parole da Archiloco; e fu proverbiale; e anche rivolta a scusa di opportunismo.
  6. Appellativo di Atena.

Bibliografia[modifica]

  • Omero, Odissea, 2 voll., traduzione di Ettore Romagnoli, illustrazioni di Adolfo De Carolis, Zanichelli, Bologna, 1926.
  • Omero, Odissea, traduzione di Nicola Festa, Sandron, Palermo-Milano, 1937.
  • Omero, Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte, Rizzoli, 1961.
  • Omero, Odissea, traduzione di Giuseppe Tonna, Garzanti, 1974.
  • Omero, Odissea, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, prefazione di Fausto Codino, Einaudi, Torino, 1989. ISBN 88-06-11604-5
  • Omero, Odissea, traduzione di G. A. Privitera, Mondadori, 1991.
  • Omero, Odissea, a cura e traduzione di Maria Grazia Ciani, Marsilio, 2000. ISBN 8831763490
  • Omero, Odissea, a cura di Vittorio Volpi, traduzione di Niccolò Delvinotti, In Fonte, Iseo, 2004. ISBN 8887997187
  • Omero, Odissea, introduzione, commento e cura di Vincenzo Di Benedetto, traduzione di Vincenzo Di Benedetto e Pierangelo Fabrini, Rizzoli, Milano, 2013 (edizione elettronica). ISBN 978-88-58-64904-6
  • Omero, Odissea, traduzione originale in esametri epici di Ettore Capuano, a cura di Carlo G. Alvano, ABA Napoli, 2014.

Voci correlate[modifica]

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