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Platone

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Platone ne La scuola di Atene di Raffaello Sanzio

Platone (in greco antico Πλάτων, Plátōn) soprannome di Aristocle di Atene (428/7 a.C. – 348/7 a.C.), filosofo greco.

Citazioni di Platone

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  • Aster, prima splendevi come stella del mattino tra i viventi, ora, morto, tra i defunti splendi come stella della sera.[1]
  • Dalla democrazia nasce per natura il dispotismo, e dalla libertà estrema la forma più grave di tirannia e di schiavitù.[2]
  • E se mai... la vita dell'uomo è degna di essere vissuta, lo è quando ha raggiunto la visione dell'essenza stessa della bellezza.[3]
  • Gli incanti sono le parole buone.[4]
  • Interrogarsi è compito del filosofo, perché non vi è altro modo per dare inizio alla filosofia.[5]
  • I particolari riconducono necessariamente e inevitabilmente a universali.[6]
  • Il buono, naturalmente, è sempre bello, e il bello non è mai privo di proporzione.[7]
  • La bellezza è mescolare in giuste proporzioni il finito e l'infinito.[8]
  • La geometria è conoscenza di ciò che esiste sempre.[9]
  • [...] noi uomini non osavamo neppure assaggiare la carne bovina, non immolavamo animali vivi, ma libagioni, frutti guarniti di miele e altre offerte di analoga purezza. La carne, invece, la rifiutavamo, perché ritenevamo un'empietà sia il consumarla, sia il macchiare di sangue gli altari degli dèi.
    Insomma, i nostri antenati realizzavano quell'ideale di vita, cosiddetto orfico, che consiste nel mangiare ogni cibo inanimato e nel rifiutare ogni cibo animale.[10]
  • La democrazia... anarchica e varia è dispensatrice di uguaglianza tanto a uguali che a ineguali.[11]
  • O Dione, col tuo amore hai reso pazzo il mio cuore.[1]
  • Per natura, all'opinione piace opinare.[12]
  • Una delle punizioni per non aver partecipato alla politica è quella di essere governato da esseri inferiori.[13]

Attribuite

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  • Il bello è lo splendore del vero.
Citazione "attribuita volgarmente a Platone", come menzionato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921, p. 38.
  • L'uomo è un bipede implume.
Attribuita da Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, VI, cap. 2, § 40. Non trova riscontri nelle sue opere.[14]
  • Solo i morti hanno visto la fine della guerra.
[Citazione errata] Attribuita nel film Black Hawk Down, non trova riscontri nelle sue opere.[15][16] È una frase di George Santayana, da Soliliquies in England, 1924.

Apologia di Socrate

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Che impressione, Ateniesi, abbiano prodotto sui vostri animi i miei accusatori, non so. Quanto a me, ascoltandoli, per poco non mi sono dimenticato di me stesso; tanto persuasivamente parlavano.

Citazioni

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  • Cherefonte, penso, voi lo conoscete. [...] Sicché un giorno, andato a Delfi, osò interrogare l'oracolo su questo — e, come dico, non fate chiasso, cittadini — dimandò dunque, se ci fosse qualcuno più sapiente di me. Ebbene la Pitia rispose che più sapiente non c'era nessuno. (cap. V, p. 24)
  • Di quest'uomo [un politico con cui Socrate aveva dialogato] son più sapiente io. Poiché, c'è pericolo che nessuno di noi due sappia nulla di bello e di buono; ma costui crede di sapere qualcosa e non sa, mentre io, come non so, non credo neanche di sapere. E però forse io sono almeno in questo, per poco che sia, più sapiente di lui: che ciò che non so, non credo neppure di saperlo. (cap. VI, p. 25)
  • [...] anche dei poeti io conobbi in breve questo: che non per sapienza poetavano come poetavano, ma per certa natura e ispirazione divina, come i profeti ed i vati, giacché questi pure dicono tante belle cose, ma poi non sanno nulla di quel che dicono. (cap. VII, p. 26)
  • [...] chi mai al mondo penserebbe che ci sieno, sì, figliuoli di dei [i dèmoni], ma non dei? (cap. XV, p. 33)
  • [...] molta avversione ed in molti s'è accumulata contro di me; questo, sappiatelo, è verissimo; ed è ciò che mi perderà, dato che mi perda; non Meleto né Ànito [gli accusatori di Socrate], ma la calunnia e il malanimo della gente. Questo ha già perso molti altri valentuomini, e ne perderà, credo, anche in avvenire. Oh! non c'è pericolo che si fermi in me. (cap. XVI, p. 34)
  • Tu, amico, non parli bene, se credi che debba tener conto del pericolo di vivere o di morire un uomo di qualche valore, per piccolo che sia, piuttosto che considerare soltanto, se, quando opera, operi secondo giustizia o no, e se faccia azioni degne d'un uomo dabbene o d'un malvagio. (cap. XVI, p. 34)
  • La morte difatti nessuno sa neppur se non sia per l'uomo il maggiore di tutti i beni; e gli uomini la temono quasi sapessero di certo ch'è il maggiore dei mali. (cap. XVII, pp. 35-36)
  • [...] io, in confronto di quei mali, di cui so che son mali, non temerò mai né fuggirò quelli che non so se per caso non sieno anche dei beni. (cap. XVII, p. 36)
  • [...] non da ricchezza nasce agli uomini virtù, ma da virtù ricchezza e ogni altro bene, così in privato come in pubblico. (cap. XVII, p. 37)
  • A me senza dubbio non può far male né Meleto né Ànito; non ne ha nemmeno il modo; poiché non è, penso, conforme a giustizia che uno migliore soffra danno da uno peggiore. Potrà mettere a morte o mandare in esilio o privare dei diritti di cittadino. Ma tali cose costui forse e qualche altro le stimerà dei grandi mali; io no, che considero assai maggior male quello che fa ora costui, d'adoperarsi a uccidere ingiustamente un uomo. (cap. XVIII, p. 37)
  • [...] ove mandiate a morte me, non troverete facilmente un altro simile a me, il quale, per quanto sappia di ridicolo il dirlo, sono stato dal dio addirittura applicato alla città, come ad un cavallo grande e generoso, ma per la sua stessa mole alquanto pigro e bisognoso d'esser tenuto desto da una specie di tafano. Ed è proprio così, se non erro, che il dio ha assegnato alla città me, un uomo, cioè, tale che non tralasciò di destarvi, di persuadervi, di riprendervi uno per uno l'intero giorno standovi addosso dovunque. Orbene, cittadini, un altro simile non vi nascerà facilmente; ma se mi date retta, mi risparmierete. Eppure chi sa che voi, incolleriti con me, come chi è destato quando sonnecchia, per compiacere ad Ànito non mi diate un colpo, e mi uccidiate facilmente per seguitar poi a dormire durante il resto della vita [...]. (cap. XVIII, p. 38)
  • Non c'è uomo che possa salvarsi, quando s'opponga francamente a voi, come ad ogni altra moltitudine, ed impedisca che si compiano in città tanti atti ingiusti od illegali; ma è necessario che chi combatte davvero in difesa della giustizia, se vuole esser salvo anche per poco, meni vita privata, non pubblica. (cap. XIX, p. 39)
  • [...] una vita che non dia luogo ad esame non merita d'esser vissuta [...]. (cap. XXVIII, p. 48)
  • [...] né in tribunale né in guerra non è lecito, né a me né ad altri, di ricorrere a qualunque mezzo per scampare ad ogni costo alla morte. (cap. XXIX, p. 49)
  • Però io temo, cittadini, che il difficile sia non già schivare la morte, ma assai più difficile sottrarsi alla malvagità, che corre più veloce della morte. (cap. XXIX, p. 50)
  • [...] se credete che con l'uccidere le persone tratterrete qualcuno dal biasimarvi di non vivere rettamente, v'ingannate. Questa via di liberazione non è né pratica né bella; bellissima invece e facilissima quella, non già di chiudere agli altri la bocca, ma apparecchiare se stessi a diventare quanto si può migliori. (cap. XXX, p. 50)
  • Ora, se non è nessuna sensazione, ma come un sonno, quando dormendo non si veda nemmeno alcun sogno, un guadagno meraviglioso sarebbe la morte. (cap. XXXII, p. 52)
  • [...] all'uomo dabbene nulla può toccare di male né vivo né morto [...]. (cap. XXXIII, p. 53)

Ma è già l'ora d'andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada incontro ad una sorte migliore, a tutti è ignoto, fuorché al dio.

Cratilo

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Ermogene: Vuoi dunque che mettiamo a parte di questo nostro discorso anche Socrate, qui presente?
Cratilo: Se a te pare.
Ermogene: Cratilo, qui presente, sostiene che ciascun essere possiede la correttezza del nome che per natura gli conviene e che il nome non è quello col quale alcuni, come accordatisi a chiamarlo, lo chiamano, mettendo fuori una piccola parte della propria voce, ma che una correttezza riguardo ai nomi esista per natura per Greci e barbari ed è la stessa per tutti. Io gli domando dunque se egli ha a nome Cratilo conforme verità ed egli ne conviene. "E che dire", gli chiedo, "per Socrate?" "Socrate", mi risponde. "Dunque anche per tutti gli altri uomini, il nome col quale chiamiamo ciascuno, questo è il nome che a ciascuno conviene?" "Ma non per te, di certo, il nome è Ermogene", ha risposto, "anche se tutti gli uomini ti chiamano così ". E benché io gli domandi e desideri sapere cosa mai dica, non si spiega per nulla, e si prende gioco di me, fingendo di pensare qualcosa entro se stesso, come se ben conoscesse in merito tali cose che, se volesse dire chiaramente, farebbe in modo che anch'io concordassi e dicessi quello che lui dice. Se tu dunque in qualche modo sei in grado di cogliere il responso di Cratilo, ti ascolterei volentieri. Anzi ancor con più gusto vorrei imparare da te che te ne pare sulla correttezza dei nomi, sempre che tu sia d'accordo.
Socrate: O Ermogene, figlio di Ipponico, è un proverbio antico che è difficile capire le cose belle come stanno realmente.

Citazioni

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  • Socrate: Dunque, se tutte le cose non sono per tutti insieme allo stesso modo e sempre, né per ciascuno ogni cosa di quelle esistenti si trova ad essere in un modo particolare, è chiaro che le cose stesse hanno in sé una sostanza certa, che non ci riguarda e che esse non si lasciano trascinare da noi su e giù secondo il nostro estro, ma che sono di per se stesse secondo la loro sostanza così come l'hanno ottenuto da natura. (3)
  • Socrate: Io dunque faccio questa supposizione: mi pare che i primi uomini che abitavano in Grecia considerassero dèi soltanto quelli che ora anche molti barbari stimano tali, e cioè il sole, la luna, la terra, gli astri e il cielo, e siccome li vedevano tutti andare sempre di corsa e correre, da questa loro natura del thein ('correre'), li chiamarono theous ('dèi'); in seguito poi, riconosciute le altre divinità, le chiamarono tutte con questo nome. Ti pare che quel che dico in qualche modo si avvicini al vero oppure in niente? (9)
  • Socrate: Dice Eraclito "che tutto si muove e nulla sta fermo" e confrontando gli esseri alla corrente di un fiume, dice che "non potresti entrare due volte nello stesso fiume". (11)
  • Socrate: In realtà sembra pure che questo nome abbia una qualche attinenza con la parola, e l'essere hermeneus ('interprete'), nunzio, ladro, ingannatore nei discorsi e trafficante è questa tutta una attività che riguarda la potenza della parola. Quello che dicevamo anche prima, l'eirein e l'uso del 'parlare'. L'altra parte poi, come anche Omero spesso dice, adopera emesato ('escogitò') che vuol dire 'macchinare', mechanesasthai. Servendosi dunque di queste due parti il legislatore ci presenta questo dio come ho mesamenos ('colui che escogitò') il parlare e la parola, il parlare infatti è eirein, e quasi ci ordina: "O uomini, colui che escogitò il parlare, è giusto che da voi venga chiamato Eiremes". Ora noi, abbellendo, come crediamo, il suo nome, lo chiamiamo Ermes. (14)
  • Socrate: Ci appariranno ridicoli, a mio parere, o Ermogene, gli oggetti, una volta che ci siano ben chiari per averli imitati con le lettere e con le sillabe. Tuttavia è necessario. E non abbiamo nulla di meglio a cui riportarci circa la verità dei primi nomi, a meno che, come fanno i tragici quando non hanno modo di risolvere qualche difficoltà, fanno ricorso alle macchine sollevando in alto degli dèi, non voglia anche tu che ci sottraiamo allo stesso modo, dicendo che i primi nomi li hanno posti gli dèi immortali e per questo vanno bene. E potrà essere per noi questo il miglior consiglio? Oppure quest'altro: che noi li abbiamo accolti da alcuni barbari, e i barbari sono più antichi? O perché, data la loro antichità, è impossibile sottoporli al vaglio, come anche i nomi forestieri? E tutti questi sarebbero espedienti, anche molto acuti, per chi non vuole dare conto dei primi nomi se sono stati posti correttamente. E sì che chi non conosce la correttezza dei primi nomi è impossibile che conosca quella degli ultimi che necessariamente vengono resi chiari da quelli di cui nessuno sa nulla. Ma è chiaro che, chi va dicendo di essere esperto di tali cose, deve mostrare di esserlo particolarmente sui primi nomi e nel modo più chiaro, o essere ben consapevole che sugli ultimi nomi non potrà dire che delle sciocchezze. Oppure a te sembra diversamente?
    Ermogene: In modo diverso, Socrate? Niente affatto. (22)

Critone

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Francesco Acri

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Socrate: O Critone, come va a quest'ora? non è ancora mattino?
Critone: Oh sì!
Socrate: Che ora è mai?
Critone: È quasi alba.
Socrate: Mi maraviglio come il carceriere t'abbia lasciato entrare.
Critone: È tanto che io ci vengo, che oramai egli mi s'è un poco domesticato; e poi gli ho fatto anche bene.
Socrate: E sei tu venuto ora, o è un pezzo?
Critone: Un gran pezzo.
Socrate: E perché non isvegliarmi subito, e ti sei posto a sedere allato a me, in silenzio?
Critone: Perché neanche io, per Giove, vorrei stare a vegghiare, con tanta tribolazione. E poi, io m'era incantanto [sic] a guardarti come dormivi quieto; e non t'ho svegliato a posta, acciocché ti passasse il tempo, quanto esser può, dolcemente. E tante volte, anche prima, considerando io la tua natura, ho detto nel cuore mio: «Come è felice!» Ciò dico specialmente ora in questa tua sciagura, vedendo come la sopporti in pace, con una faccia serena.
[Platone, Il Critone ovvero Di quel che si dee fare, versione di Francesco Acri, Einaudi, 1970]

Maria Michela Sassi

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Socrate Come mai sei venuto qui a quest'ora, Critone? Non è ancora presto?
Critone È presto, sì.
Socrate Che ora è, di preciso?
Critone Manca poco all'alba.
Socrate Mi meraviglio che la guardia della prigione abbia acconsentito ad aprirti.
Critone Ormai mi conosce bene, Socrate: vengo qui spesso, e gli ho pure fatto qualche favore.
Socrate Sei qui da poco, o da tanto?
Critone Da un bel po'.
Socrate E allora perché non mi hai svegliato subito, e te ne stai seduto lì in silenzio?
Critone No davvero, Socrate! Neanch'io vorrei vegliare insonne in tanta sventura. Peraltro sono rimasto meravigliato a vedere come dormivi tranquillamente, e lungamente, non ti svegliavo apposta per farti continuare così, nella massima tranquillità. Se già in più di un'occasione, nel corso della vita, ho avuto a giudicarti felice per il tuo comportamento, a maggior ragione lo farò in una circostanza come questa, che riesci a vivere con tanta serenità e calma.
[Platone, Critone, traduzione di Maria Michela Sassi, in "I grandi classici Latini e Greci", Fabbri Editori, 1994.]

Citazioni

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  • Socrate: Ho sognato una donna, bella e avvenente, tutta vestita di bianco, che mi si è avvicinata e mi ha detto: «Socrate, fra tre giorni, tu sarai nei felici campi di Ftia.»
    Critone: Che strano sogno, Socrate.
    Socrate: A me, Critone, sembra chiaro. (cap. 2)
  • Passare per uno che tiene più al denaro che agli amici: cosa mi potrebbe capitare di peggio? (Critone, cap. 3)
  • Magari, Critone, fosse capace di fare il male, perché, allora, sarebbe capace, anche di fare il bene. E questa sarebbe una gran bella cosa. Invece non è capace di fare né l'uno né l'altro, non ti fa diventare né saggio né stolto, ma agisce, così, a casaccio. (Socrate, cap. 3)
  • Mi pare proprio che tu, oltretutto, non compia una cosa giusta lasciandoti andare, mentre potresti salvarti, perché, in fondo, ti adoperi a far quello che vorrebbero i tuoi nemici, anzi, che hanno già ottenuto, volendoti morto. E, in più, mi sembra che tu tradisca anche i tuoi figli che potresti allevare e educare e che, invece, abbandoni e che, per quanto dipende da te, vivranno in balia del destino, come degli orfani. (Critone, cap. 5)
  • Mio caro Critone, questo tuo zelo sarebbe assai lodevole se fosse conforme a giustizia, altrimenti, più esso è insistente, più è biasimevole. (Socrate, cap. 6)
  • Se noi, prestando orecchio a quelli che non se ne intendono, roviniamo ciò che diventa migliore attraverso un sano esercizio e va, invece, in malora con pratiche dannose, che ne sarà della nostra vita? (Socrate, cap. 8)
  • L'importante non è vivere, ma vivere bene. (Socrate, cap. 8)
  • Far del male non è per nulla diverso dall'essere ingiusti. (Socrate, cap. 10)

Socrate: Quindi, per quel che ora ne penso, sta pur certo che, se tu non tenterai di persuadermi del contrario, la tua sarà fatica sprecata. Tuttavia, parla pure se credi di poter riuscire in qualcosa.
Critone: Ahimè, Socrate, io non so proprio cosa dire.
Socrate: E allora lascia andare, Critone, facciamo come dico io, dato che il fato ci ha messi su questa strada.

Fedone

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Manara Valgimigli

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Echècrate. Proprio tu c'eri, o Fedone, con Socrate, quel giorno che bevve il farmaco nel carcere; oppure ne udisti da qualcun altro?
Fedone. Proprio io c'ero, o Echècrate.
Echècrate. E allora; che disse l'amico nostro prima di morire? e come morì? Volentieri ascolterei. Anche perché dei miei concittadini di Fliunte nessuno c'è che sia solito di questi giorni recarsi ad Atene; e d'altra parte è gran tempo che da Atene non è giunto più qui alcun forestiero il quale fosse in grado di raccontarci esattamente come andarono le cose; all'infuori di questo, che egli bevve il veleno e morì; e di tutto il rimanente non aveva da dire.
Fedone. Dunque neanche del giudizio avete saputo in che maniera andò?
Echècrate. Di questo sì, ce ne riferì un tale; e anzi noi ci meravigliamo che, mentre il giudizio era già avvenuto da un pezzo, solo dopo molto tempo, com'è chiaro, egli morì. Come mai avvenne questo, o Fedone?
Fedone. Una combinazione fu, o Echècrate. Si dette che proprio il giorno prima del giudizio fosse stata incoronata la poppa della nave che gli Ateniesi sono soliti mandare a Delo.

Francesco Acri

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Echecrate: Ci eri proprio tu, o Fedone, quel giorno nel quale Socrate bevve il veleno nella carcere [sic], o te l'han contato?
Fedone: Ci era proprio io, Echecrate.
Echecrate: E che è ciò ch'egli disse avanti di morire? e come è morto? io avrei voglia di saperlo. Ora cittadini di Fliunte non ce ne va più nessuno ad Atene; e forastieri è tanto che non ce n'è capitati di là, i quali ci recassero chiare novelle: salvo ch'egli morì bevendo veleno; e null'altro.
Fedone: E non v'han neppure contato come fu fatto il giudizio?
Echecrate: Questo sì, ce l'ha contato un tale; e ci siamo maravigliati che passasse tanto tempo dopo la condanna, innanzi ch'egli fosse fatto morire. Come fu, Fedone?
Fedone: Per un caso, Echecrate; perché, giusto il dì innanzi, avvenne che fosse coronata la poppa della nave che gli Ateniesi mandano a Delo.
Echecrate: Che è questa nave?
Fedone: Quella su la quale Teseo una volta, come narrano gli Ateniesi, partì verso Creta, conducendo i sette giovani e le sette fanciulle, e scampato sé e quelli da morte, tornossene a casa. Ora aveano gli Ateniesi fatto voto ad Apollo, se mai coloro fossero tornati salvi, di mandare ogni anno a Delo una ambasceria sacra; e così han fatto sempre infino d'allora tutti gli anni, e così seguitano a fare. E tosto che incomincia la festa, hanno per legge di serbare pura la città, e di non mettere niuno a morte per giudizio di popolo, infino a che dura: cioè, infino a che la nave non sia arrivata a Delo, e tornata qua di nuovo: e alcuna volta passa gran tempo, quando spirano venti contrarii. La festa incomincia immantinente che il sacerdote di Apollo ha incoronata la poppa della nave, e ciò, come io dico, avvenne il dì avanti alla sentenza: per questa ragione Socrate ebbe a stare così lungo tempo nella carcere; il tempo che passò dal giudizio alla morte.
[Platone, Il Fedone ovvero Della immortalità dell'anima, versione di Francesco Acri, Einaudi, 1970]

Citazioni

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  • Ora che ci penso, che strano effetto mi faceva stare accanto a quell'uomo; ero lì, che moriva un amico, e non provavo alcuna pietà. Mi pareva felice, Echecrate, sia dal suo modo di fare che da come parlava: c'era in lui una nobile e intrepida fierezza, tanto da farmi pensare che egli se ne andava non senza il soccorso di un dio e che, nell'aldilà, sarebbe stato il più felice di tutti. Ecco perché, forse, non provavo quella pietà che pure sarebbe stata così naturale in tanta sventura. (Fedone, cap. II)
  • Che strana cosa, amici, par che sia quello che la gente chiama piacere, e in che meraviglioso rapporto per natura con quello che sembra il suo contrario: il dolore! E pensare che entrambi insieme non vogliono mai trovarsi nell'uomo; ma quando qualcuno insegua l'un d'essi e lo prenda, costui si trova in certo modo costretto a prender sempre anche l'altro, quasi che, sebbene sieno due, pure si trovino legati allo stesso capo. (Socrate: cap. III; 1935, pp. 33-34)
  • La filosofia è la musica più grande. (cap. IV)
  • L'uomo è un prigioniero che non può aprire la porta della sua prigione e scappare... deve aspettare; e non è libero di gestire la sua vita finché un dio non lo chiama. (cap. VI)
  • Cose, come per esempio la grandezza, la sanità, la forza e, in una parola, della sostanza di tutte le cose, di ciò che ciascuna è. La verità di esse si contempla forse mediante il corpo o avviene che chi di noi si accinge più degli altri e con più accuratezza a pensare ciascun oggetto della sua indagine in sé, costui si avvicina il più possibile alla conoscenza dell'oggetto? E potrà farlo nel modo più puro chi si dirigerà verso ciascun oggetto, il più possibile, con il solo pensiero, senza intromettere nel pensiero la vista e senza trascinarsi dietro con il ragionamento alcun altro senso, ma utilizzando solo il puro pensiero di per se stesso, andrà a caccia di ciascuno degli enti in sé nella sua purezza, dopo essersi liberato il più possibile da occhi, orecchie e, a parlar propriamente, da tutto il corpo, perché turba l'anima e non le consente di acquistare verità e intelligenza, quando comunica con essa. Non è forse costui, Simmia, se mai altri, che coglierà l'essere? È straordinariamente vero, disse Simmia, ciò che dici, Socrate. (cap. X)
  • Alla fine tutte le cose non devono forse essere inghiottite dalla morte? (cap. XVII)
  • E non dicevamo da un pezzo anche questo: che, quando l'anima s'associa il corpo nell'indagare alcunché mediante o la vista o l'udito o un altro senso qualunque – perché indagare mediante il corpo non vuol dire altro che indagare mediante i sensi – allora dal corpo è tratta verso quelle cose che non permangono mai identiche a sé, ed essa medesima erra e si turba e barcolla come briaca, perché tali sono le cose con cui viene a contatto? [...] Invece, quando l'anima indaga tutta sola di per sé, allora s'innalza verso ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile; e, come congenere con questo, non solo aderisce sempre ad esso ogni qualvolta si raccolga in se stessa e ne abbia il modo; ma ecco ch'ella cessa dall'errare e, rispetto a quegli enti, permane sempre invariabilmente costante, perché tali sono le cose con cui viene a contatto. E questa condizione dell'anima è chiamata intelligenza? (Socrate: cap. XXVII; 1935, p. 65)
  • [...] credo che in simili argomenti [immortalità dell'anima] si debba conseguire uno di questi scopi: o apprendere da altri come stieno, o trovarlo da sé; oppure, ove ciò riesca impossibile, attenendosi, se non altro, al migliore e al più inoppugnabile dei ragionamenti umani, e affidandosi ad esso, come ad una zattera,[17] navigare a proprio rischio attraverso la vita, quando non si possa con più sicurezza e minor pericolo compiere questo viaggio su una più salda nave, voglio dire su una parola divina. (Simmia: cap. XXXV; 1935, pp. 73-74)
  • La misantropia difatti s'insinua nell'animo nostro dall'avere senz'arte posto soverchia fiducia in qualcuno e averlo creduto un uomo in tutto veritiero, sano d'animo e fido; e trovarlo di lì a poco malvagio e infido, e poi ancora sempre diverso. E quando uno ci capiti spesso, e per opera specialmente di quelli che egli riteneva i più sicuri ed intimi amici; costui, a furia d'inciampare, finisce per odiar tutti e credere che assolutamente non ci sia in nessuno nulla di sano e di schietto. (Socrate: cap. XXXIX; 1935, p. 80)
  • [...] il parlare in modo impreciso non è soltanto sconcio in se stesso, ma nuoce anche all'anima. (Socrate: cap. LXIV; 1935, p. 121)
  • — Critone, disse [Socrate] — e furono le sue ultime parole — siamo in debito d'un gallo ad Asclépio;[18] offriteglielo; non ve ne dimenticate. (cap. LXVI; 1935, p. 125)

Egli era già freddo, fino all'addome, quando si scoprì (s'era, infatti, coperto) e queste furono le sue ultime parole: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate.» «Certo,» assicurò Critone, «ma vedi se hai qualche altra cosa da dire.» Ma lui non rispose. Dopo un po' ebbe un sussulto. L'uomo lo scoprì: aveva gli occhi fissi. Vedendolo, Critone gli chiuse le labbra e gli occhi. Questa, Echecrate, la fine del nostro amico, un uomo che fu il migliore, possiamo ben dirlo, fra quanti, del suo tempo, abbiamo conosciuto e, senza paragone, il più saggio e il più giusto.

Citazioni sul Fedone

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  • Il Fedone rimane una tappa fondamentale dell'itinerario platonico, sia per la sua alta qualità letteraria sia per la sua ricchezza e densità filosofica. (Bruno Centrone)
  • Il Fedone, sia per la sua perfezione letteraria e drammatica, sia per la compiutezza dei contenuti filosofici, è senz'altro ascrivibile a una fase matura dell'attività di Platone. (Bruno Centrone)
  • L'autenticità dell'uomo, nel Fedone, risiede solo nell'anima, non nel corpo né nell'unione di anima e corpo; il corpo è strumento dell'anima, come è tematizzato nell'Alcibiade primo dove si sostiene che lo strumento non fa parte della autentica natura di chi se ne serve, come i colori non rientrano nella natura del pittore: l'uomo è dunque essenzialmente la sua anima. (Bruno Centrone)

Fedro

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Arturo Brambilla

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Socrate: O caro Fedro, dove vai e donde vieni?
Fedro: Da Lisia, o Socrate, il figlio di Cefalo. E me ne vado a passeggio fuor delle mura, poiché là passi molto tempo seduto, fin dal mattino. Seguendo il consiglio del tuo e mio amico Acumeno, faccio le mie passeggiate lungo le strade maestre; egli infatti afferma che ristorano di più di quelle fatte sotto i portici.
Socrate: Ha ragione, amico mio. Lisia dunque, a quanto pare, era in città?
Fedro: Sì, da Epicrate, nella casa di Morico, quella lì vicino al tempio di Giove Olimpio.
Socrate: Bene; e come passavate il tempo? Senza dubbio erano discorsi quelli che Lisia vi imbandiva, non è vero?
Fedro: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi, strada facendo.
[Platone, Fedro, traduzione di Arturo Brambilla, Carlo Signorelli, Milano, 1945.]

Francesco Acri

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Socrate: Dove, caro Fedro? e donde?
Fedro: Da Lisia, o Socrate, il figliuol di Cefalo, e me ne vo a spasso fuor le mura; che ben l'ho passata lì a stare a sedere sin dal mattino. E all'amico tuo e mio dando io mente, ad Acumeno, passeggio per le vie aperte; che, dice così, ci s'invigorisce più che ad andar sotto a' loggiati.
Socrate: È dice bene, o amico; ma Lisia era in città, pare?
Fedro: Sì, da Epicrate; qui a casa Morico, qui, presso all'Olimpio.
Socrate: Che vi si è fatto? O gli è certo v'ha convitato Lisia, dandovi a mangiar le sue orazioni.
Fedro: Saprai, se hai tempo di camminare tu, e prestarmi orecchi.
Socrate: Che? non credi tu che la cosa dell'aver novella della conversazione tua con Lisia io la pongo sovra a ogni cosa io, a dirla con Pindaro?
Fedro: Via, muoviti.
Socrate: Di', se vuoi.
Fedro: È convien bene, Socrate, che tu m'ascolti, ché, non so come, era ella d'amore l'orazione con la quale ce la siam passata. Lí ritrasse Lisia una di coteste bellezze, che è accostata; ma non da amatore. E l'è immaginata con arguzia, perché dice che piú presto si ha ad essere graziosi a un che non ami, che a un che ami.
[Platone, Il Fedro ovvero Della bellezza, in "Dialoghi", versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.]

Citazioni

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  • La scoperta della scrittura avrà l'effetto di produrre la dimenticanza nelle anime che l'impareranno, perché, fidandosi della scrittura, queste si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesime.
  • L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. [...] Perché, oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore.
  • Le parole false non sono solo male in se stesse, ma infettano l'anima con il male.
  • L'anima di un uomo è immortale e incorruttibile.
  • E come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da superfici levigate e solide, viene rinviata al punto di emissione, così il flusso della bellezza, arrivando nuovamente al bell'amato attraverso gli occhi, che sono la via naturale per arrivare all'anima, come vi è giunto e l'ha eccitata al volo, irrora i condotti delle ali, stimola il formarsi delle ali e colma d'amore l'anima, a sua volta, dell'amato.
  • Poiché dunque il pensiero di un dio si nutre di intelletto e di scienza pura, anche quello di ogni anima che abbia a cuore di accogliere quanto le si addice, quando col tempo abbia scorto l'essere, ne gioisce e, contemplando la verità, se ne nutre e si trova in buona condizione, finché la rotazione circolare non riconduca allo stesso punto. Durante l'evoluzione esso vede la giustizia in sé, vede la saggezza, vede la scienza, non quella alla quale è connesso il divenire, né quella che è diversa perché è nei diversi oggetti che noi ora chiamiamo enti, ma quella che è realmente scienza nell'oggetto che è realmente essere. E dopo aver contemplato allo stesso modo le altre entità reali ed essersene saziata, si immerge nuovamente nell'interno del cielo e torna a casa. E una volta arrivata, l'auriga, arrestati i cavalli davanti alla mangiatoia, li foraggia di ambrosia e dopo questa li abbevera di nettare.
  • Quanto alla divina follia ne abbiamo distinto quattro forme, a ciascuna delle quali è preposta una divinità: Apollo per la follia profetica, Dioniso per la follia iniziatica, le Muse per la follia poetica, mentre la quarta, la più eccelsa, è sotto l'influsso di Afrodite e di Amore.
  • Il sopraccelestiale luogo non lo inneggiò alcun de' poeti di qua mai, e mai non lo inneggerà degnamente. Ecco: e si ha a dir vero, parlando specialmente della verità. La verace essenza, che né colore ha, né figura, e non può essere toccata; che può esser contemplata solo dalla mente, reggitrice dell'anima; che è obbietto della verace scienza, ha questo luogo. (Socrate, seconda orazione: 1988, XXVII)
  • [...] la scrittura ha di grave questo; ed è proprio simile alla pittura. Imperocché i figliuoli di questa stanno lì come vivi; ma se alcuna cosa domandi, maestosamente tacciono: e così le orazioni scritte. (Socrate: 1988, LX)
  • [Riferito alla scrittura] Tu offri ai discenti l'apparenza, non la verità della sapienza; perché quand'essi, mercé tua, avranno letto tante cose senza nessun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pur'essendo fondamentalmente rimasti ignoranti e saranno insopportabili agli altri perché avranno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza.[19]

Francesco Acri

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Socrate: Isocrate ancora è giovine, o Fedro; ma quel che divino io di lui, te lo vo' dire.
Fedro: Che?
Socrate: Ei mi pare essere di miglior natura di quella che si mostra nelle orazioni di Lisia, e anche di piú gentile costume; sí che non sarebbe niente da maravigliare se, crescendo la età, nell'istessa oratoria alla quale attende presentemente, vincesse tutti coloro che si provarono in passato nelle orazioni, più che s'ei fosser fanciulli; e se, non contentandolo più il detto studio, a maggiori cose menasselo un cotale divino impeto; perciocché certa naturale filosofia è nella mente di lui, o amico. Queste cose da parte di quest'Iddii annunzierò io al diletto mio Isocrate, e tu quelle altre al tuo Lisia.
Fedro: Sì, lo farò: ma andiamo, ora che è calato un po' il caldo.
Socrate: E non s'ha a pregare quest'Iddii prima di andar via?
Fedro: Come no?
Socrate: O caro Pane, e voi tutti che di questo luogo siete Iddii, concedetemi che sia bello io di dentro, e che tutto quel che ho di fuori si concordi con quel di dentro; e ch'io reputi ricco il savio; e ch'io abbia tant'oro, quanto ne può solo portar seco colui che è temperato. – Oh che c'è bisogno d'altro? di', Fedro. Quel che ho pregato io, mi basta.
Fedro: Cosí prega tu anche per me, che le cose degli amici sono comuni.
Socrate: Andiamo.
[Platone, Il Fedro ovvero Della bellezza, in "Dialoghi", versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.]

Filebo

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Socrate: Considera, Protarco, quale discorso stai per ricevere adesso da Filebo e con quale nostro discorso dovrai contendere, qualora le parole dette non rispecchiassero il tuo pensiero. Vuoi che li riassumiamo per sommi capi tutti e due?
Protarco: Sì, certamente.
Socrate: Dunque Filebo afferma che per tutti i viventi il bene consiste nel godimento, nel piacere, nella voluttà, e in tutto ciò che rientra in questo genere di cose. La ragione della nostra controversia consiste allora nel fatto che non queste realtà, ma che l'attività dell'intelligenza, della mente, e della memoria, e altre cose affini, come l'opinione giusta e i veritieri ragionamenti, siano migliori e preferibili al piacere per tutti quanti hanno la possibilità di prenderne parte: ed è proprio questa possibilità che rappresenta per tutti quelli che stanno vivendo o vivranno il vantaggio senz'altro più significativo. Non è dunque in questi termini che noi discutiamo, Filebo, uno da una parte e l'altro dall'altra?
Filebo: Certamente, Socrate.
Socrate: E tu, Protarco, accetti questo discorso che ti è stato appena consegnato?
Protarco: Non posso farne a meno: infatti il nostro bel Filebo vi ha rinunciato.
Socrate: Ma non si deve ad ogni costo arrivare alla verità riguardo a tali questioni?
Protarco: Sì, è necessario.

Citazioni

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  • Due o tre volte le cose belle. (59ce)[20]
Δίς καί τρίς τό καλόν.

Gorgia

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Callicle: Si dice, o Socrate, che questo è il modo di prendere parte ad una guerra e ad una battaglia!
Socrate: Ma allora, come dice il proverbio, arriviamo alla fine di una festa e ormai in ritardo?
Callicle: E alla fine di una festa davvero elegante: poco fa, per noi, Gorgia ha fatto mostra di sé in molte e belle cose.
Socrate: Ma la colpa di questo, Callicle, è del nostro Cherefonte, che ci ha fatto perdere tempo in piazza.
Cherefonte: Non importa, o Socrate: vi porrò io rimedio. Gorgia, infatti, è amico mio, sicché si esibirà apposta per noi, adesso, se ti pare il caso, oppure, se vuoi, un'altra volta.
Callicle: Che hai detto, o Cherefonte? Socrate desidera ascoltare Gorgia?
Cherefonte: Proprio per questo siamo qui!

Citazioni

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  • Socrate: Dimmi, dunque: discorsi su cosa? Nell'insieme delle cose esistenti, qual è l'oggetto dei discorsi di cui si serve la retorica?
    Gorgia: Si tratta, o Socrate, delle più grandi e delle migliori fra le umane faccende.
    Socrate: Ma, o Gorgia, è controversa anche questa tua affermazione, e non è affatto chiara. Immagino, infatti, che tu abbia già avuto occasione di sentir cantare nei banchetti quello scolio in cui si enumerano i beni, cantando che essere sani è il primo bene, secondo viene l'essere belli, e il terzo, come dice l'autore dello scolio, è l'essere ricchi senza frode.
    Gorgia: L'ho già sentito. Ma a che proposito dici questo?
    Socrate: Supponiamo che in questo istante ti si parassero dinanzi gli artefici di questi beni che l'autore dello scolio elogiava, cioè il medico, il maestro di ginnastica e l'uomo d'affari, e che per primo il medico dicesse: "O Socrate, Gorgia t'inganna: non è la sua arte ad occuparsi del bene più grande per gli uomini, ma la mia". Se io allora gli domandassi: "E chi sei tu per dire questo?", egli certamente mi risponderebbe che è medico. "Ebbene, cosa hai detto? è forse opera della tua arte il bene più grande?" "E come potrebbe non esserlo", probabilmente direbbe, "Socrate, visto che si tratta della salute? Che cosa è bene più grande per gli uomini della salute?". Se poi, dopo di lui, a sua volta, il maestro di ginnastica dicesse: "Resterei stupito anch'io, Socrate, se Gorgia sapesse dimostrarti che il bene che è frutto della sua arte è maggiore di quanto io saprei dimostrare che lo è il bene prodotto dalla mia arte", io, a mia volta, potrei dire anche a costui: "E tu chi sei, o uomo, e qual è il tuo mestiere?". "Sono maestro di ginnastica", risponderebbe, "e il mio mestiere è di rendere gli uomini belli e forti nel corpo". Dopo il maestro di ginnastica, sarebbe l'uomo d'affari a dire, con fare, credo, assai sprezzante per tutti: "Ebbene, pensaci su, Socrate, se ti pare che esista bene più grande della ricchezza, sia presso Gorgia sia presso chiunque altro". Ed io allora gli direi: "E allora? Ne sei forse l'artefice?". Egli affermerebbe di esserlo. "E chi sei tu?" "Un uomo d'affari". "E allora? Pensi forse che il bene più grande per gli uomini sia la ricchezza?", diremo noi. "E come no?", risponderà.
  • A che genere di uomini appartengo? A quello di chi prova piacere nell'essere confutato, se dice cosa non vera, e nel confutare, se qualcuno non dice il vero, e che, senza dubbio, accetta d'esser confutato con un piacere non minore di quello che prova confutando. Infatti, io ritengo che l'esser confutati sia un bene maggiore, nel senso che è meglio essere liberati dal male più grande piuttosto che liberarne altri. Niente, difatti, è per l'uomo un male tanto grande quanto una falsa opinione sulle questioni di cui ora stiamo discutendo. Se dunque anche tu sostieni di essere un uomo di questo genere, discutiamo pure; altrimenti, se credi sia meglio smettere, lasciamo perdere e chiudiamo il discorso. (Socrate)
  • La retorica, dunque, a quanto pare, è artefice di quella persuasione che induce a credere ma che non insegna nulla intorno al giusto e all'ingiusto. (Socrate)
  • La scienza non è altro che percezione. (Socrate)
  • Spesso, ormai, mi sono recato con mio fratello e con altri medici da qualche ammalato che non voleva bere medicine o mettersi in mano al medico lasciando che questi praticasse tagli o cauterizzazioni, e, mentre il medico non riusciva a persuaderlo, io lo persuasi con non altra arte che la retorica. Sostengo, anzi, che, se un retore e un medico arrivassero in una città qualsiasi, e se si trovassero a dover competere a parole nell'assemblea o in un'altra pubblica adunanza su quale dei due vada scelto come medico, il medico non avrebbe alcuna possibilità di uscirne vincitore, ma la scelta cadrebbe su quello capace di parlare, ammesso che costui lo volesse. E se si trovasse a competere con qualsiasi altro specialista, il retore saprebbe persuadere a scegliere sé piuttosto che chiunque altro. Non c'è infatti argomento di cui il retore, di fronte alla folla, non sappia parlare in modo più persuasivo di qualsiasi altro specialista. (Gorgia)
  • Uno ha imparato il pugilato, il pancrazio e la lotta con le armi in modo da essere più forte degli amici come dei nemici, non per questo egli deve percuotere gli amici, né ferirli né ucciderli. (Gorgia)
  • Accade invece che, quando ci si trovi in disaccordo su qualche punto, e quando l'uno non riconosca che l'altro parli bene e con chiarezza, ci si infuria, e ciascuno pensa che l'altro parli per invidia nei propri confronti, facendo a gara per avere la meglio e rinunciando alla ricerca sull'argomento proposto nella discussione. (Socrate)
  • Dunque, il retore e la retorica si trovano in questa posizione rispetto a tutte le altre arti: non c'è alcun bisogno che sappia come stiano le cose in sé, ma occorre solo che trovi qualche congegno di persuasione, in modo da dare l'impressione, a gente che non sa, di saperne di più di coloro che sanno. (Socrate)
  • Apposta noi ci procuriamo amici e figli! perché quando noi, divenuti più vecchi, cadiamo in errore, voi che siete più giovani, al nostro fianco, raddrizziate la nostra vita nelle opere e nelle parole. (Socrate)
  • Se uno fa una cosa per un fine, non vuole la cosa che fa, bensì la cosa per cui fa quello che fa. (Socrate)
  • Non bisogna invidiare chi non è degno di essere invidiato né gli sciagurati, ma averne piuttosto compassione. (Socrate)
  • Io non preferirei né l'uno né l'altro; ma, se fosse necessario o commettere ingiustizia o subirla, sceglierei il subire ingiustizia piuttosto che il commetterla. (Socrate)
  • Quant'è difficile confutarti, Socrate! Ma non riuscirebbe a confutarti anche un bambino, dimostrandoti che non dici il vero? (Polo)
  • Polo: Ti metti a dire cose assurde, Socrate!
    Socrate: E cercherò di far sì che anche tu, amico mio, dica le stesse cose che dico io.
  • La verità non si confuta mai. (Socrate)
  • I felici sono felici per il possesso della giustizia e della temperanza e gli infelici, infelici per il possesso della cattiveria. (Socrate)
  • Io invece credo, o carissimo, che sarebbe meglio che la mia lira fosse scordata e stonata, e che lo fosse il coro che io dirigessi, e che la maggior parte della gente non fosse d'accordo con me e mi contraddicesse, piuttosto che sia io, anche se sono uno solo, ad essere in disaccordo con me stesso e a contraddirmi. (Socrate)
  • È opportuno che il malvagio venga punito, quanto lo è che il medico curi l'ammalato: ogni castigo, infatti, è una sorta di medicina. (Socrate)
  • E questo perché tu, o Socrate, mentre sostieni di cercare la verità, in realtà porti gli altri a fare affermazioni di questo genere, grossolane e volgari, che non sono belle rispetto alla natura, ma rispetto alla legge. E queste, vale a dire la natura e la legge, sono nella maggior parte dei casi opposte. Dunque, quando uno si vergogna e non osa dire le cose che pensa, finisce necessariamente per contraddirsi. (Callicle)
  • Avvalendosi di quale diritto Serse mosse guerra alla Grecia, o suo padre agli Sciti? (Callicle)
  • La filosofia è un'amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in giovane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini. (Callicle)
  • Quando vedo un uomo già avanti negli anni che ancora coltivi la filosofia e non sappia separarsene, mi sembra, o Socrate, che costui abbia bisogno di essere preso a botte. (Callicle)
  • Dimmi, o Socrate, non ti vergogni, alla tua età, di andare a caccia di parole, e, quando uno si sbagli di una parola, di credere di aver trovato in questo una fortuna inaspettata? (Callicle)
  • Chissà se ciò che è chiamato morire è vivere, oppure se vivere è morire. (Socrate, citando Euripide)
  • Anche un allevatore di asini, di cavalli e di buoi, che fosse tale quale Pericle fu, avrebbe la fama di essere un cattivo allevatore. (Socrate)
  • La morte, come mi sembra, altro non è che la separazione di due cose, l'anima e il corpo, l'una dall'altra. (Socrate)
  • Dai potenti vengono gli uomini più malvagi. (Socrate)
  • Peraltro, o Socrate, bisogna fare uso della retorica come di tutti gli altri strumenti di lotta. Infatti, anche di tutti gli altri strumenti di lotta non bisogna servirsi in modo indiscriminato e contro tutti. (456 c)[21]

E poi, quando avremo in questo modo fatto pratica di virtù insieme, allora, se ci sembrerà utile, ci dedicheremo alle faccende politiche; o qualunque cosa ci parrà opportuna, allora prenderemo decisioni, perché saremo più capaci di prendere decisioni di quanto non lo siamo ora. Infatti è brutto che, nelle condizioni in cui è evidente che noi ora ci troviamo, ci comportiamo con baldanza, convinti di valere qualcosa, noi che non abbiamo mai la medesima opinione sulle medesime questioni, e questo proprio sulle questioni più importanti: a tal punto di ignoranza siamo giunti! E così, allora, prendiamo come guida il ragionamento che ora ci si è rivelato, il quale ci fa vedere che questo è il modo migliore di vivere, vale a dire vivere e morire coltivando la giustizia e ogni altra virtù. Seguiamo, dunque, questo modo di vivere, e invitiamo anche gli altri a seguirlo, e non quello a cui tu, fidandoti di esso, mi inviti, perché, o Callicle, non vale nulla.

La Repubblica

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Per approfondire, vedi: La Repubblica (dialogo).

Lettera VII

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Platone agli amici e ai familiari di Dione con l'augurio di felicità.

Mi avevate comunicato che avrei dovuto ritenere i vostri progetti in tutto uguali a quelli di Dione, e mi chiedevate anche di essere al vostro fianco per quanto potevo con l'azione e la parola. Ed io, se la vostra mente e il vostro cuore sono gli stessi di quelli di Dione, non ci penso due volte a unirmi a voi, altrimenti dovrò rifletterci molto. Ora, dunque, vorrei dirvi quel che pensava e desiderava, dato che lo conosco bene e non per sentito dire. Quando io arrivai la prima volta a Siracusa avevo all'incirca quarant'anni –, Dione aveva l'età che oggi ha Ipparino, e proprio allora maturò quell'idea che in seguito non mutò più: era convinto, cioè, che i Siracusani meritassero la libertà, sotto la guida delle migliori leggi. A tal punto non c'è nulla di strano che un qualche dio suggerisse il medesimo progetto politico anche ad Ipparino. Comunque è importante che giovani e non giovani ascoltino il modo in cui si formò questo pensiero. Cercherò dunque di illustrarvelo fin dall'inizio, approfittando di questa occasione propizia.

Citazioni

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  • Mi resi conto, allora, che in breve tempo questi individui riuscirono a far sembrare l'età dell'oro il periodo precedente, e fra le altre scelleratezze di cui furono responsabili, mandarono, insieme ad altri, il vecchio amico Socrate – una persona che non ho dubbi a definire l'uomo più giusto di allora – a rapire con la forza un certo cittadino al fine di sopprimerlo. E fecero questo con l'intenzione di coinvolgerlo con le buone o con le cattive nelle loro losche imprese. Ma Socrate si guardò bene dall'obbedire, deciso ad esporsi a tutti i rischi, pur di non farsi complimenti delle loro malefatte.
  • Di fronte a tali episodi, a uomini siffatti che si occupavano di politica, a tali leggi e costumi, quanto più, col passare degli anni, riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto.
  • Senza uomini devoti e amici fidati non era possibile combinare nulla e d'altra parte non era per niente facile trovarne di disponibili, dato che ormai il nostro stato non era più retto secondo i costumi e il modo di vivere dei padri ed era impossibile acquisirne di nuovi nell'immediato.
  • Il testo delle leggi, e anche i costumi andavano progressivamente corrompendosi ad un ritmo impressionante, a tal punto che uno come me, all'inizio pieno di entusiasmo per l'impegno nella politica, ora, guardando ad essa e vedendola completamente allo sbando, alla fine fu preso da vertigini.
  • Ad un certo punto mi feci l'idea che tutte le città soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l'umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia.
  • Né c'è legge che possa assicurare la pace ad uno Stato i cui cittadini si credono in dovere di dilapidare ogni sostanza in spese pazze, e stimando quasi un obbligo l'ozio, interrotto solamente da banchetti, libagioni e piaceri d'amore. È evidente che tali città siano coinvolte in una continua sequela di tirannidi, oligarchie, democrazie, i cui capi non vorranno neppure sentir parlare di una costituzione giusta ed equilibrata.
  • Mi sarei vergognato moltissimo se mi fossi scoperto un uomo buono solo di parlare e incapace di tradurre in atto le proprie idee.
  • Il primo dovere di chi dà consigli a un uomo infermo che segue una dieta nociva alla salute è quello di cambiar sistema di vita; le altre indicazioni verranno solo se egli accetta con convinzione queste disposizioni. Se, invece, non vuole lasciarsi convincere, un vero uomo e un medico che io possa stimare tali rifuggiranno dal dargli altri consigli, perché chi continuasse a fare ciò sarebbe tutto l'opposto di un vero uomo e di un esperto di medicina. Lo stesso vale anche per lo Stato, sia quello in cui uno solo ha il potere, sia quello dove molti comandano.
  • L'uomo intelligente non fa mai affidamento sulle affinità psicologiche e fisiche.
  • La tirannia non è una buona soluzione, né per chi la subisce, né per i suoi figli né per i suoi discendenti; essa piuttosto, è di per sé un fatto negativo. In effetti, solo gente dalla mente ristretta e servile, che vive e vivrà nell'ignoranza di ciò che è giusto e buono nei confronti degli uomini e degli dei potrebbe godere di guadagni ammassati illegalmente.
  • Nessun uomo è nato per essere immortale, né, se lo divenisse, sarebbe per questo felice, anche se molti pensano il contrario.
  • Dopo di ciò, la mia vita e quella di Dionigi si svolgevano più o meno così: io lì a guardar fuori, come un uccello che aspetta solo di spiccare il volo, lui lì a tentarle tutte per tenermi tranquillo, senza però nulla voler restituire delle cose di Dione. Agli occhi di tutta la Sicilia, però, ci professavamo amici.
  • Sarò di certo con voi se, provando bisogno di reciproca amicizia, cercherete di fare qualcosa di buono; ma finché siete a desiderare il male, chiamate in aiuto qualcun altro.
  • Ho paura d'essere stato proprio io, inconsapevolmente e senza accorgermene, a porre i presupposti per la caduta della tirannide, quelle volte che mi incontrai con Dione, allora giovane, e gli dimostrai per via di ragionamento ciò che mi pareva essere il meglio per l'uomo, esortandolo a realizzarlo. (327a)
  • [In merito alla morte di Dionisio I e all'intronizzazione di Dionisio II] Se mai altra volta, certo ora potrà attuarsi la nostra speranza che filosofi e reggitori di grandi città siano le stesse persone. (328a[22]; attribuita a Dione)
  • [Dionisio I di Siracusa] Dopo aver conquistato molte e grandi città della Sicilia messe a sacco dai barbari, non fu in grado, dopo averle colonizzate, di insediare in ciascuna di esse governi fidati di suoi compagni, né di altri [...] e risultò sette volte più inefficace di Dario, il quale, facendo affidamento non su fratelli o creature sue, ma solo su persone che avevano partecipato alla sottomissione del Medo eunuco, fece una divisione in sette parti, ciascuna più grande della Sicilia [...] con le leggi che promulgò, infatti, ha fatto sì che l'impero persiano si conservasse fino ad oggi. E inoltre anche gli Ateniesi colonizzarono essi stessi molte città greche che avevano subito l'invasione dei barbari, ma le conquistarono già abitate, e tuttavia mantennero l'impero per settant'anni, per essersi assicurati degli amici in ciascuna delle città. Dionisio invece, che aveva riunito in un solo stato tutta quanta la Sicilia, non fidandosi nella sua saggezza di nessuno, a stento riuscì a salvare se stesso. (331e-332c[23])
  • Io, cittadino ateniese, amico di Dione, suo alleato, mi recai dal tiranno per cambiare in amicizia un rapporto di ostilità; combattei contro i calunniatori, ma ne fui sconfitto. Tuttavia, per quanto Dionigi con onori e ricchezze cercasse di tirarmi dalla sua parte per usarmi come prova a favore della legittimità dell'esilio di Dione, in questo fallì miseramente. (333d[24])
  • Mi recai alla corte del tiranno, io, ateniese, amico di Dione e suo alleato, per cercare di riportare fra di loro l’amicizia dopo l’ostilità; ma fui sconfitto dalle maldicenze dei calunniatori. Allora Dionisio, offrendomi onori e ricchezze, cercò di convincermi a passare dalla sua parte, di diventargli amico, dando così testimonianza che l’esilio di Dione era meritato: ma non riuscì nel suo intento. (333d[25])
  • Se mi darai ascolto e verrai in Sicilia, per prima cosa la situazione di Dione verrà regolata secondo i tuoi desideri – desideri che saranno senz'altro ragionevoli e ai quali io non farò opposizione; in caso contrario, nulla si farà di quanto tu desideri per i suoi affari e per lui. (339c[25]; attribuita a Dionisio II) [rivolgendosi a Platone]

Né Dione né qualcun altro mai si orienterà, di sua volontà, verso un potere eternamente dannoso per sé e per la sua stirpe, ma piuttosto verso una costituzione e un apparato di istituti giuridici che siano i migliori e i più giusti, e che si impongano al consenso senza una sola condanna a morte o all'esilio; così faceva Dione, il quale preferiva subire un'ingiustizia che farla (anche se naturalmente cercava di fare il possibile per non doverla subire). Cadde però quando stava per avere la meglio su i suoi nemici, e la sua sorte non deve fare meraviglia. Un uomo santo in mezzo agli empi, un uomo saggio e dotato di ragione, non sarà mai possibile ingannarlo del tutto sull'anima di persone del genere, ma non ci si può meravigliare se gli capita quel che capita anche ad un buon pilota di nave, che non viene colto di sorpresa dall'avvicinarsi della tempesta, ma non può certo prevederne l'intensità, e deve soccombere alla sua improvvisa violenza. È all'incirca la stessa ragione che Dione fallì; sicuramente percepiva la malizia di quei che poi lo trassero in rovina, ma non poteva sapere quanto fossero profonde la loro malvagità e la loro stoltezza, dalle quali sconfitto egli cadde, e immenso dolore ne è sparso per la Sicilia. Quale sia il mio consiglio a proposito di ciò che vi ho or ora narrato, l'ho già detto e lo si tenga per detto: i motivi, che ho richiamato, del mio secondo viaggio in Sicilia, mi sembrava necessario enunciarli per l'assurdità e la stranezza di quel che è accaduto. Se dunque quel che ho detto sembrerà ragionevole, e si vorrà tenere valida la spiegazione dei fatti da me fornita, mi parrà misurato e sufficiente quel che ho appena finito di esporre.

Liside

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Elmo Totti

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M'incamminavo dall'Accademia direttamente verso il Liceo per la via che rasenta all'esterno le mura della città, quand'ecco che, giunto presso la porta, dov'è la fonte di Panope, mi incontro in Ippotale di Geronimo, in Ctesippo il Peaniese e in molti altri giovinastri che eran con loro. E Ippotale, come vide che m'avvicinavo: Oh! Socrate, disse, dove ti avvii e donde vieni?

Citazioni

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  • I
    Mio caro figliuol di Geronimo, Ippotale, bada: non ti chiedo, se sei o no innamorato di qualcuno. Lo so che non solo ami, ma che hai già fatto molto cammino sulla via dell'amore. Nelle altre cose valgo ben poco, e sono disutile; ma, non so come, ho ricevuto da un dio questo dono: d'indovinare a colpo d'occhio chi ama e chi è amato. (p. 13)
  • IX
    E dimmi, quando uno ama un altro, chi dei due diventa amico dell'altro: l'amante dell'amato o l'amato dell'amante? o è affatto indifferente? (p. 21)
  • Il simile è amico al simile: che, cioè, il solo buono è amico al solo buono, mentre il cattivo non contrae mai una vera amicizia né col buono né col cattivo. (p. 23)

[Platone, Liside, da Discorsi sull'amicizia e sull'amore, introduzione di Giovanni Pugliese Carratelli, a cura di Elmo Totti, traduzione di Emidio Martini, BIT, Editoriale Opportunaty Book, 1995. ISBN 88-8111-001-6]

Menone

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Menone Mi sai dir tu, Socrate, se la virtú s'apprenda per insegnamento, o per abito; o né l'una cosa né l'altra, ma sibbene ella germogli nel cuore naturalmente, o per altra via e modo?
Socrate O Menone, i Tessali prima eran chiari fra gli Elleni e ammirati per lo cavalcare e per loro ricchezze; presentemente poi anche per sapienza, a quel che io vedo. E se i paesani del tuo Aristippo, quei di Larissa, non istanno in coda, ringraziatene Gorgia, che, andato là, innamorò di sé, per la sapienza sua, i piú notabili degli Alevadi, fra i quali il tuo Aristippo, cosí come innamorato avea il fiore degli altri Tessali. Ve l'appiccicò egli codest'abito di rispondere a testa ritta a qualunque v'interroghi, come ha a fare gente che ne sa, come fa egli, che lí per lí si profferisce ad ogni Elleno che abbia voglia d'interrogarlo su qual sia argomento; e, interrogato, non istà a bocca chiusa. Ma da noi, Menone mio dolce, gli è tutt'altro; ci è una cotal carestia di sapienza, e par ella si sia scasata di qua per accasarsi là da voi. Se dunque ti viene in capo far di siffatte interrogazioni a alcuno di qua, non troverai chi non ti dica, facendo una risata: – Eh, ti par proprio cera da beato la mia, o forestiero, che io abbia a sapere se la virtú si procacci per insegnamento o per alcuno altro modo? mi ci vuol tanto a saper se ella s'insegni o no, che io non so pure che cosa ella sia. Anch'io, Menone; e per questo rispetto io sono povero uomo né piú né meno de' miei paesani; sí che io mi arrovello meco medesimo a vedere che di virtú non ne so niente proprio. E se io non so ciò ch'ella è, vuoi che io sappia com'ella è fatta? o ti pare che un che non conosca punto Menone possa sapere se bello egli sia o no, se ricco, se nobile uomo? di'.
Menone Non par a me. E veramente non sai che è virtú, o Socrate? e di te recheremo noi a casa questa novella?
Socrate E quest'altra anche, mio caro, che non mi par d'essermi abbattuto mai a persona che ne sapesse!
[Platone, Il Menone ovvero Della virtù, in "Dialoghi", versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.]

Citazioni

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  • E così è anche per le virtù: anche se sono molteplici e di diversi tipi, tutte hanno un'unica e identica forma, a causa della quale esse sono virtù, e verso la quale è bene che guardi colui che deve rispondere a chi domanda di spiegare che cosa mai sia la virtù. (Socrate)
  • Tutti quanti gli uomini sono buoni nella stessa maniera: infatti, diventano buoni, venendo in possesso delle medesime cose. (Socrate)
  • L'anima dell' uomo è immortale, e che talora termina la vita terrena – ciò che si chiama morire –, e talora di nuovo rinasce, ma che non perisce mai: per questa ragione, bisogna vivere la vita nel modo più santo possibile. (Socrate)
  • Col credere che si debba far ricerca delle cose che non si sanno, diventiamo migliori, più forti e meno inetti, che non se credessimo che sia impossibile trovare ciò che non sappiamo. (Socrate)
  • Quando un uomo è audace senza senno ne riceve danno, quando invece con senno ne trae vantaggio. (Socrate)
  • Potremo chiamare divini quelli che ora dicevamo: gli indovini, i vati, i poeti tutti. E i politici, non meno di costoro, potremmo affermare che sono divini e che sono ispirati, essendo infiammati e posseduti dal dio, allorché colgono nel giusto, dicendo molte e grandi cose, ma senza conoscere nulla di ciò che dicono.

Socrate: Ora, se noi in tutto questo ragionamento abbiamo proceduto e detto rettamente, la virtù non dovrebbe essere data né per natura né per insegnamento, ma dovrebbe toccare per sorte divina, senza che quelli cui tocca ne abbiano conoscenza. A meno che fra gli uomini politici non ce ne sia uno capace di rendere politici anche gli altri; e se mai ci fosse, di lui si potrebbe dire che, fra i vivi, è come Omero affermò essere Tiresia fra i morti, dicendo di lui che nell'Ade solo ha mente saggia mentre gli altri sono solamente ombre erranti. E costui, quassù, sarebbe, rispetto alla virtù, appunto come una realtà accanto alle ombre.
Menone: Mi sembra, o Socrate, che tu dica benissimo.
Socrate: Da questo ragionamento, dunque, Menone, pare che la virtù tocchi per sorte divina a coloro a cui è data. Questo però lo sapremo con certezza quando, prima ancora di ricercare in che modo la virtù sia data agli uomini, affronteremo in primo luogo la ricerca sulla virtù in sé e per sé. Adesso, per me è ora di andare, e tu vedi di convincere quest'ospite Anito delle cose di cui tu stesso sei rimasto persuaso, affinché si calmi: e, se riuscirai a convincerlo, forse recherei beneficio anche agli altri Ateniesi.

Parmenide

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Cefalo Noi ci movemmo di casa, da Clazomene, per andare a Atene; e là giungendo, ci abbattemmo a Adimanto e Glaucone, nella piazza. Adimanto, pigliatomi per mano, disse: – Ti saluto, o Cefalo; se mai ti abbisogna cosa di qua, che noi possiamo, di'.
Risposi: – Io sono venuto per cotesto, ché io ho bisogno di voi.
Ed egli: – Che hai tu bisogno?
Ed io: – Il fratello vostro per madre, che nome ha? non me ne ricordo io, ch'egli era giovinettino quando ci venni la prima volta da Clazomene: è tanto! il padre avea nome Pirilampo, mi par cosí.
- Cosí, – mi rispose; ed egli, Antifonte: – Ma perché me ne dimandi tu?
- Questi qui, – ripigliai, – son miei cittadini, uomini molto vaghi di scienza, e hanno udito che questo Antifonte se la diceva con un tal Pitodoro, un amico di Zenone; e ch'egli ha alla memoria i ragionamenti ch'ebbero un dí insieme fra loro Socrate e Zenone e Parmenide, per averli uditi da Pitodoro spesse volte.
- Vero.
- Or proprio questi ragionamenti siam vogliosi di udire, – ripigliai io.
[Platone, Il Parmenide ovvero Delle idee, in "Dialoghi", versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.]

Citazioni

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  • [Zenone] Ha scritto le stesse cose, per un certo verso, che hai scritto tu [Parmenide], anche se, cambiando qualche particolare, tenta di ingannarci, come se avesse detto qualcosa di diverso. (Socrate)
  • Mi sembra che le cose che avete detto [Parmenide e Zenone] siano dette per superare l'intelligenza di noi altri. (Socrate)
  • Socrate, come sei degno di essere ammirato per lo zelo che ti spinge ai discorsi! (Parmenide)
  • "Sei ancora giovane, Socrate", replicò Parmenide, "e la filosofia non si è ancora impossessata di te, come, secondo la mia previsione, si impossesserà in futuro, quando non stimerai più indegna nessuna di quelle cose: ora ti preoccupi ancora di prestare eccessiva attenzione alle opinioni degli uomini, vista l'età."
  • Non si possono concepire i molti senza l'uno. (Parmenide)

"Se l'uno non è, neppure qualcuna delle altre cose viene pensata come uno e molti: senza l'uno è impossibile pensare ai molti". "Impossibile". "Se l'uno non è, le altre cose non sono, né si possono pensare come uno e molti". "Pare di no". "Né simili, né dissimili". "No". "Né identiche, né diverse, né in contatto, né separate, né tutto quanto prima si è passato in rassegna come apparenza, nessuna di queste cose sono né appaiono le altre cose, se l'uno non è". "Vero". "Se dunque in sintesi dicessimo che se l'uno non è, nulla è, diremmo in modo giusto?" "Certo". "Si dica dunque questo, e si dica anche che, a quanto pare, che l'uno sia, o che non sia, esso stesso e le altre cose, rispetto a sé e fra di loro, sono tutto, in relazione ad ogni aspetto dell'essere, e non sono, e appaiono e non appaiono". "Verissimo".

Protagora

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Amico: Di dove spunti, Socrate? O non si domanda? Dalla caccia di quella leggiadra fiera d'Alcibiade[26]? E anche a me, ti so dire, che l'ho visto jeri l'altro, e' m' è parso un bell'uomo, ma però già un uomo, Socrate, a dirla tra noi, e tutto pieno di barba.
Socrate: E per questo? Oh, tu davvero, non sei ammiratore di Omero, il quale dice che quando la prima lanugine adombra il mento, Il più bel fior di giovinezza sia[27], quella che ha Alcibiade ora?
Amico: Ebbene, dunque? Tu ti spicchi da lui, eh? E com'è egli disposto verso di te il giovine?
Socrate: Bene, certo, m'è parso; anzi, mai meglio di oggi. Di fatti, ha parlato molto in mio favore per ajutarmi; cosicché, anche, non è un momento che l'ho lasciato. Pure, ti voglio dire una strana cosa; lui presente, non solo non gli ho badato, ma mi sono più volte scordato ch'egli ci fosse.
Amico: E che così gran caso vi sarebb'egli potuto avvenire a te e a lui? Certo, non ti sei imbattuto in uno più bello, in questa città almeno.
Socrate: E di molto, anche.
Amico: Cosa dici? Cittadino o forestiero?
Socrate. Forestiero.
Amico: Di dove?
Socrate: Abderita[28].
Amico: E t'è sembrato così un bell'uomo il forestiero, da parerti più bello del figliolo di Clinia[29]?
Socrate: E come non deve, o beat'uomo, il fiore d'ogni sapienza non parere più bello?
Amico: Ma oh! che tu mi capiti, dopo un incontro con qualche sapiente?
Socrate: Anzi, col più sapiente di quanti vivono oggi, se a te Protagora pare che sia il più sapiente.
[Platone, Protagora, traduzione di Ruggiero Bonghi, Milano, F. Colombo, 1859.]

Citazioni

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  • Nessuno dei sapienti ritiene che ci sia alcun uomo che deliberatamente erri e deliberatamente commetta azioni brutte e cattive, ma sanno bene che tutti coloro che commettono azioni brutte e cattive, le commettono senza volerlo. (Socrate; 1986, p. 5)
  • E bisogna star bene attenti, o amico, che il Sofista, lodando le cose che vende, non ci inganni, così come fanno coloro che vendono il cibo del corpo, cioè i mercanti e i bottegai. Infatti, costoro, dei cibi che vendono non sanno neppure essi quale sia buono e quale sia cattivo per il corpo, ma li lodano tutti per poterli vendere. (Socrate; 1986, p. 27)

Simposio

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Apollodoro: La vostra dimanda non m'ha colto alla sprovvista, par a me; ché è poco, da casa mia, dal Falero[30], mi toccò a venire su in città. Ora un tale dei miei conoscenti, di lungi, m'aocchiò da dietro, e mi diè una voce in maniera scherzosa dicendo: — Eh tu, Falerese, Apollodoro, non aspetti eh?
— Io sto, e aspetto.
Ed egli: — Io cercavo di te pur ora, Apollodoro mio, per la voglia che io ho d'aver conoscenza degli amorosi ragionamenti fatti al banchetto da Agatone[31], Socrate, Alcibiade e quegli altri che vi si trovavano. Parlommene sí un tale che li aveva sentiti da Fenice, il figliuol di Filippo[32]; ed egli mi disse che li sapevi anche tu: tanto è il caso di raccontare i discorsi dell'amico tuo! Ma io vo' innanzi sapere: a quella conversazione c'eri tu, o no?
— Eh si vede — rispos'io, — che quegli ti lasciò al buio, se credi che la conversazione della qual mi domandi, sia una cosa fresca fresca, che mi ci potessi ritrovare anche io.
— Così credevo io.
— Come! non sai, Glaucone[33], che son già molti anni che Agatone qui non ci s'è riaffacciato, e che non sono ancora tre anni ch'io me la passo con Socrate, e ogni dí gli pongo mente a quel che dice e a ciò che egli fa? Prima io girandolavo a casaccio, e mi davo aria, ed era il piú disgraziato uomo che mai, non men che tu adesso, tu che credi s'ha a fare tutt'altro, piuttosto che filosofare.
— Lascia andare i motteggi; su, va' là, spicciati; questa conversazione quando fu?
— Noi si era anche putti piccoli quando vinse Agatone con la prima sua tragedia, che il giorno appresso celebrò la vittoria con sacrifizi e banchetto, egli con tutti quei del suo coro.
— Uh quanto tempo è! e a te chi li raccontò? Socrate? proprio lui?
— No per Giove, — rispos'io, — ma quel medesimo che raccontolli a Fenice, un tale Aristodemo, un Cidateneo[34], un omino cosí, piccolo, sempre scalzo. Egli c'era alla conversazione, essendo al mio credere un de' piú appassionati per Socrate fra tutti quelli d'allora. Cionondimeno, di certe cose ch'io udii da lui, io ne volli dimandar Socrate stesso; e Socrate me le raffermò tali quali.
— E perché non me le conti? — disse l'altro, — non vedi che la strada par fatta apposta per parlare e per ascoltare?
[Platone, Il convito, ovvero Dell'amore, traduzione di Francesco Acri, Einaudi, 1970]

Citazioni

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  • Amore, fra gli dèi l'amico degli uomini, il medico, colui che riconduce all'antica condizione. Cercando di far uno ciò che è due, Amore cerca di medicare l'umana natura.
  • D'altro canto, nemmeno gli ignoranti amano la sapienza, né desiderano diventare sapienti. Proprio in questo, difatti, l'ignoranza è insopportabile, nel credere da parte di chi non è né bello né eccellente, e neppure saggio, di essere adeguatamente dotato. Chi non ritiene di essere privo, dunque, non desidera ciò di cui non crede di aver bisogno.
  • E come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da superfici levigate e solide, viene rinviata al punto di emissione, così il flusso della bellezza, arrivando nuovamente al bell'amato attraverso gli occhi, che sono la via naturale per arrivare all'anima, come vi è giunto e l'ha eccitata al volo, irrora i condotti delle ali, stimola il formarsi delle ali e colma d'amore l'anima, a sua volta, dell'amato.
  • E quando Socrate ebbe detto queste cose, i presenti applaudirono; [...]
    e d'un tratto fu picchiato alla porta del cortile, che fece gran rumore, per opera – sembrava – di una brigata allegra, ed essi udirono la voce di una flautista [...]
    E non molto dopo udirono la voce di Alcibiade dal cortile: era completamente ubriaco e gridava forte domandando dove fosse Agatone e pretendendo che lo si conducesse da Agatone.
    Sorreggendolo, dunque, la flautista e alcuni altri del suo seguito lo condussero dai presenti; e lui si fermò sulla porta, cinto da una fitta corona d'edera e di violette, e con una gran quantità di nastri sul capo, e disse: – Vi saluto, signori: volete accettare come compagno nel bere un uomo ubriaco fradicio, oppure dobbiamo andarcene...?
    ...giungo adesso, con i nastri sul capo per toglierli dal mio capo e inghirlandare il capo del più sapiente e del più bello.
    Riderete forse di me perché sono ubriaco? Eppure io, anche se voi ridete, so bene di dire la verità... (212 c, d, e, traduzione di Giorgio Colli)
  • Gli amanti che passano la vita insieme non sanno dire che cosa vogliono l'uno dall'altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente a essere insieme. È allora evidente che l'anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire, e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio.[35]
  • Infatti ognuno diventa poeta, anche se prima era privo di ispirazione, quando Eros lo tocca.[36] (196 e)
  • Lui stesso, per lui stesso, con lui stesso, — omogeneo eterno.[37]
... esso stesso, per se stesso, con se stesso, eternamente UNO.[38]
  • Poiché, dunque, è figlio di Poro e di Penìa, ad Amore è toccata la sorte seguente. In primo luogo è sempre povero e ben lontano dall'essere delicato e bello, come credono i più, anzi è duro e lercio e scalzo e senza tetto, abituato a coricarsi in terra e senza coperte, dormendo all'aperto sulle porte e per le strade e, avendo la natura di sua madre, è sempre di casa col bisogno. Per parte di padre, invece, è insidiatore dei belli e dei buoni, coraggioso, audace e teso, cacciatore terribile, sempre a tramare stratagemmi, avido di intelligenza e ingegnoso, dedito a filosofare per tutta la vita, terribile stregone, fattucchiere e sofista. E per natura non è né immortale né mortale, ma ora fiorisce e vive nello stesso giorno, quando gli va in porto, ora invece muore e poi rinasce nuovamente in virtù della natura del padre. E infatti l'oggetto dell'amore è ciò che è realmente bello, grazioso, perfetto e invidiabilmente beato, mentre l'amante ha un altro aspetto, quale quello che ho esposto.
  • Innanzi tutto, i generi degli uomini erano tre, e non due come ora, ossia maschio e femmina, ma c'era anche un terzo che accomunava i due precedenti […] L'androgino era, allora, una unità per figura e per nome, costituito dalla natura maschile e da quella femminile […] La figura di ciascun uomo era tutt'intera rotonda, con il dorso e i fianchi a forma di cerchio; aveva quattro mani e tante gambe quante mani, e due volti su un collo arrotondato del tutto uguali. E aveva un'unica testa per ambedue i visi rivolti in senso opposto, e quattro orecchi e due organi genitali […] Erano terribili per forza e per vigore e avevano grande superbia, tanto che cercarono di attaccare gli dèi […] Dopo aver a lungo meditato, Zeus disse: "Mi pare di aver a disposizione un mezzo che permetterebbe che gli uomini possano continuare ad esistere, e, divenuti più deboli, cessino di essere così sfrenati" […] Dopo aver detto questo, tagliò gli uomini in due, come quelli che tagliano le sorbe per farle essiccare, o come quelli che tagliano le uova con un crine. E per ciascuno di quelli che tagliava, dava incarico ad Apollo di rivoltare la faccia e la metà del collo verso la parte del taglio, in modo che l'uomo, vedendo questo suo taglio, diventasse più mansueto, e gli dava anche ordine di risanare tutte le altre parti. E Apollo rivoltava la faccia, e, tirando da ogni parte la pelle su quello che oggi vien chiamato ventre, come si fa con le borse che si contraggono, la legava nel mezzo del ventre, facendo una specie di bocca, il che ora si chiama ombelico. E spianava le molte altre pieghe e modellava i petti […] Ma ne lasciò qualcuna intorno nel ventre medesimo e intorno all'ombelico, in modo che restasse un ricordo dell'antico castigo. Allora, dopo che l'originaria natura umana fu divisa in due, ciascuna metà, desiderando fortemente l'altra metà che era sua, tendeva a raggiungerla. E gettandosi attorno le braccia e stringendosi forte l'una all'altra, desiderando fortemente di fondersi insieme, morivano di fame e di perché ciascuna delle parti non voleva fare nulla separata dall'altra. E quando una moriva e l'altra rimaneva in vita, quella rimasta cercava l'altra metà e si intrecciava con questa, sia che si imbattesse nella metà di una donna sia che si imbattesse nella metà di un uomo. E in questo modo morivano. (189d-191b)[39]

Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui, Aristodemo, fu preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si svegliò ch'era giorno e i galli già cantavano. Alzatosi, vide che gli altri dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della conversazione, perché non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli altri a riconoscere che un uomo può riuscire egualmente bene a comporre commedie e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa da quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è proprio che lo seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad addormentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addormentò anche Agatone. Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò via. Aristodemo lo seguì, come sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e passò il resto della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne andò a casa a riposare.

Citazioni sul Simposio

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  • Il Sommo Amore della Provvidenza divina, per ridurci alla diritta via da noi smarrita, anticamente spirò in Grecia una castissima donna, chiamata Diotima sacerdotessa: la quale da Dio spirata, trovando Socrate filosofo dato sopra tutto allo Amore, gli dichiarò, che cosa fusse questo ardente desiderio, e per che via ne possiamo cadere al sommo Male e per che via ne possiamo salire al sommo Bene. Socrate rivelò questo sacro misterio al nostro Platone: Platone filosofo sopra gli altri pio, subito un libro per rimedio de’ Greci ne compose. (Marsilio Ficino)

Sofista

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Teodoro: Secondo l'accordo di ieri, o Socrate, veniamo direttamente belli e presenti e portiamo con noi questo forestiero, di stirpe di Elea, compagno di quelli del seguito di Parmenide e di Zenone, uomo versato particolarmente in filosofia.
Socrate: Forse, senza che tu te ne sia accorto, non un ospite tu porti, ma un dio, secondo il detto di Omero, il quale dice che con gli altri dèi quanti assieme agli uomini hanno parte del giusto rispetto, c'è soprattutto il dio degli ospiti che ci accompagna per osservare la prepotenza e insieme la rettitudine degli uomini. Probabilmente uno di questi esseri superiori potrebbe anche essere al tuo seguito per osservare e muovere delle critiche a noi che siamo così da poco nei ragionamenti, essendo egli un dio adatto alla verifica.

Citazioni

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  • Il filosofo [...] è difficile a scorgersi proprio per la luce della regione che abita: egli procede, infatti, attraverso ragionamento sempre guidato dall'idea dell'essere. È naturale che gli occhi della moltitudine, rivolti a questa divina regione, non riescano a reggere.
  • Se uno degli ascoltatori, non a scopo di contesa né per scherzare, ma seriamente dovesse rispondere, dopo aver riflettuto, a che cosa deve essere riferito questo nome, il "non essere", in riferimento a che cosa e per quale oggetto noi crediamo che egli ne farebbe uso e che cosa indicherebbe a chi lo interroga? [...] Ma questo almeno è chiaro, che il "non essere" non deve essere riferito a qualcuno degli enti. [...] Ma noi diciamo che, se s'intende parlare correttamente, non bisogna definirlo né come unità né come molteplicità e neppure assolutamente chiamarlo con il "lo", perché anche con questa espressione lo si designerebbe con una specie di unità.

Ospite: E dunque lo incateneremo ancora, come prima, concatenando il suo nome dalla fine al principio?
Teeteto: Esattamente.
Ospite: È stata definita dunque la mimetica dell'arte di contraddizione ironica, parte ancora dell'arte dell'opinione, quella del genere dell'apparenza che deriva da quella di creare immagini, che è umana e non divina e appartiene all'arte del creare, come parte che crea mirabilia nei discorsi: di questa genia, di questo sangue chi dicesse che è il sofista verace, a quel che sembra, direbbe il vero al massimo grado.
Teeteto: È assolutamente così.

Teeteto

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Euclide: Sei tornato da poco o da tanto, Terpsione, dalla campagna?
Terpsione: è già un pezzetto e ti cercavo in piazza, anzi mi meravigliavo che non ero capace di trovarti.
Euclide: Non mi trovavo in città.
Terpsione: E dov'eri?
Euclide: Scendendo al porto mi sono imbattuto per caso in Teeteto che veniva trasportato da Corinto, dall'accampamento, ad Atene.
Terpsione: Era vivo o morto?
Euclide: Vivo a malapena. Sta male per alcune ferite, ma ancor più perché l'ha colpito la malattia che si è diffusa nell'esercito.
Terpsione: Forse la dissenteria?
Euclide: Sì.

Citazioni

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  • Il filosofo non tiene affatto conto di tutto ciò che vale poco o niente e guida il suo volo dappertutto, come dice Pindaro: «Sondando gli abissi della terra, e misurandone le superfici, seguendo il cammino degli astri nelle profondità del cieli e, di ciascuna realtà, scrutando la natura nel suo dettaglio e nel suo insieme senza mai lasciarsi irretire da ciò che è immediatamente vicino»
    «Che vuoi dire con questo, Socrate
    «Voglio dir questo. Un giorno Talete osservava gli astri, Teodoro, e con lo sguardo rivolto al cielo finì per cadere in un pozzo; una sua giovane serva della Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro dicendogli che con tutta la sua scienza su quel che accade nei cieli, non sapeva neppure vedere quel che aveva davanti ai piedi. La morale di questa storia può valere per tutti coloro che passano la vita a filosofare, ed effettivamente un uomo simile non conosce né vicini né lontani, non sa cosa fanno gli altri uomini o altri esseri viventi. Ma che cosa sia un uomo, in che cosa per sua natura deve distinguersi dagli altri esseri nella attività o nella passività che gli è propria, ecco, di questo il filosofo si occupa a questa ricerca consacra le sue pene. Immagino che tu mi segua, Teodoro, o mi sbaglio?»
    «Ti seguo e quel che dici è la verità»
    «È questo dunque, mio buon amico, nei rapporti privati il nostro filosofo; ed è così anche nella vita pubblica, come ti dicevo all'inizio. Quando nei tribunali o altrove bisogna che, contro la sua volontà, tratti di cose che sono davanti a lui, sotto i suoi occhi, finisce non soltanto per far ridere la donne di Tracia, ma cade effettivamente nei pozzi, non esce dalle difficoltà della vita per mancanza di esperienza e la sua terribile goffaggine gli fa fare la figura dello stupido. Infatti, se è costretto a subire le cattiverie della gente, non sa lanciare a nessuno degli insulti perché non sa nulla dei mali di ciascuno: non se ne è mai occupato. Messo così in difficoltà, appare ridicolo. Di fronte agli elogi, all'arroganza di cui altri si gloriano, non fa affatto finta di ridere, ma ride davvero, e in modo così aperto da essere scambiato per uno stupido.»
  • Nessuna cosa è per se stessa una sola; tu non puoi, correttamente, dar nome a una cosa né a una sua qualità; se tu, per esempio, chiami alcuna cosa grande, ecco che essa potrà apparire anche piccola; se la chiami pesante, potrà apparire anche leggera; e così via per tutto il resto, perché niente è uno, né sostanza, né qualità. Dal mutar luogo, dal muoversi, dal mescolarsi delle cose fra loro, tutto diviene ciò che noi, adoprando una espressione non corretta, diciamo che è; perché niente mai è, ma sempre diviene. Su questo punto tutti i filosofi, uno dopo l'altro, a eccezione di Parmenide, si deve ammettere che sono d'accordo, [...]; e anche sono d'accordo i migliori poeti dell'uno e dell'altro genere di poesia, Epicarmo della commedia, della tragedia Omero; il quale, dicendo "Padre fu Oceano a' numi e madre Teti", intese dire che tutte le cose hanno origine dal flusso e dal movimento.

Socrate: Dunque, amico, sul problema della conoscenza siamo ancora pregni sotto qualche aspetto, o abbiamo partorito tutto?
Teeteto: Per Zeus, io ho detto, tramite tuo, molte più cose rispetto a quelle che avevo in me stesso.
Socrate: Ma tutte queste cose la mia arte di ostetrico non dice che sono vane e non degne di essere coltivate?
Teeteto: Proprio così.
Socrate: Se dunque dopo queste, o Teeteto, tu vorrai diventare pregno di altre riflessioni, se lo diventerai, sarai pieno per la presente ricerca, di riflessioni migliori, se invece ti manterrai vuoto sarai meno pesante per quelli che stanno con te e più affabile, perché, da buon saggio, non penserai di sapere quello che non sai. Soltanto questo infatti può la mia arte, nulla di più, e io non so nulla di quello che sanno gli altri, quanti uomini grandi e ammirevoli ci sono e ci sono stati. Questa arte maieutica io e mia madre l'abbiamo avuta per volere di un dio, lei a sostegno delle donne, io per quello dei giovani e nobili e quanti sono belli come te. E ora devo andare al portico del Re per ribattere all'accusa che contro me ha scritto Meleto. Incontriamoci di nuovo qui, o Teodoro, domani mattina.

Timeo

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Socrate: Uno, due, tre: e dov'è il quarto, caro Timeo, di quelli che convitai ieri, e che oggi mi convitano?
Timeo: Non istà bene; se no, figurati s'ei non voleva essere qua, in nostra compagnia.
Socrate: E se non ci è, tocca a te e a costoro fare anco la parte sua.
Timeo: Ma sí, e, quanto è da noi, non lasceremo nulla; ché non sarebbe bene se noi altri, per renderti cambio, non convitassimo ancora di buona voglia te che ci hai accolti ieri a banchetto con tanta amorevolezza e larghezza.
[Platone, Il Timeo ovvero Della natura, in Dialoghi, versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.]

Citazioni

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  • Adunque è a dire verosimilmente che questo mondo è generato vivo, animato e in verità intelligente, per provvidenza di Dio. (VI, 30b – 30c)
  • [...] se nel centro dell'universo ci fosse un corpo solido equilibrato, esso non inclinerebbe mai verso qualcuna delle estremità, per esser questo in tutti i lati uniformi; anzi, se anche uno camminasse in giro intorno ad un tal <solido>, spesso fermandosi in luoghi antipodici, lo stesso punto potrebbe chiamarlo ora basso ed ora alto. Giacché, essendo il tutto, come or ora s'è esposto, di forma sferica, dire che qualche luogo sia in basso e qualche altro in alto non è da uomo di senno [...].[40] (XXVI, 63a)

Incipit di alcune opere

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Alcibiade maggiore

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Socrate: O figliuolo di Clinia, credo che ti maravigli ch'io primo tuo amatore, gli altri ritraendosi, io solo non mi ritragga; e che allora quando t'affollavan gli altri co' loro ragionamenti, io, è tanti anni, non t'abbia mai detto nulla. Questo fu, non per alcuna umana cagione, ma sí per un cotal divieto del Demone; la possanza del quale udirai e saprai tu dopo. Dacché ei non me ne fa piú divieto ora, io mi sono accostato a te: e spero ch'e' non me ne vorrà fare divieto né anche poi. Ma t'ho avuto l'occhio quasi tutto questo tempo, e bene io ho notato come ti contenevi co' tuoi amatori: ché non fu nessuno di quelli, ed eran pure molti e cosí orgogliosi, che, umiliato dal tuo orgoglio, non fuggisse da te. E te lo vo' dire perché li hai in dispetto.

Alcibiade minore

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Socrate: O Alcibiade, vai dunque a pregare il dio?
Alcibiade: Ebbene sì, Socrate.
Socrate: Sembri ombroso e guardi a terra come se fossi concentrato a riflettere su qualcosa.
ALCIBIADE: E su cosa si potrebbe riflettere, o Socrate?
Socrate: Sulla più profonda delle meditazioni, Alcibiade, penso. Perché, via, per Zeus, non credi che gli dèi delle cose che ci troviamo a chiedere loro in privato o in pubblico, talora alcune le concedono, altre no, e può essere che ad alcuni sì e ad altri no?
Alcibiade: Certo.
Socrate: Non pensi occorra molta prudenza per evitare d'invocare nelle preghiere involontariamente grandi mali, ritenendo beni, mentre gli dèi si trovano nella condizione di concedere ciò che viene loro chiesto? Per esempio, Edipo, raccontano, pregò gli dèi che i figli risolvessero con la spada la questione dell'eredità paterna; pur potendo pregare di essere liberato dai mali che allora lo travagliavano, con le sue imprecazioni se ne attirò altri in aggiunta a quelli; ebbene, questi mali si compirono e dopo questi altri ancora, numerosi e terribili, e che bisogno c'è di dirli uno per uno?

Amanti

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Entrai nella scuola di Dionisio e vidi che c'erano lì i giovani più in vista per la loro bellezza e la nobiltà di stirpe, insieme ai loro amanti. Dunque due tra i giovinetti stavano litigando, ma non riuscivo a capire esattamente per cosa. Tuttavia mi sembrò che stessero litigando per Anassagora o Enopide; mi sembrò anche che tracciassero dei cerchi ed essi imitavano con le mani delle inclinazioni, stando piegati con impegno e fervore. E io – poiché sedevo vicino all'amante di uno di essi – dopo averlo toccato con il gomito chiesi in cosa mai i due fanciulli fossero così seriamente impegnati e dissi: "Che problema importante e bello è quello a cui dedicano così tanta attenzione?". Ed egli rispose: "Altro che grande e bello! Costoro stanno solo facendo chiacchiere di astronomia e ciance di filosofia". E io, stupito per la sua risposta, dissi: "Giovanotto, la filosofia ti pare cosa brutta? Perché ne parli in modo così ostile?". E un altro seduto vicino a lui, un suo rivale in amore, udita la mia domanda e la sua risposta, disse: "Non è da te, Socrate, comportarti così e chiedere proprio a lui se ritiene cosa brutta la filosofia."

Carmide

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Arrivammo il giorno prima, di sera, dall'accampamento di Potidea, e poiché tornavo che era passato del tempo, mi recai pieno di gioia nei consueti luoghi di conversazione. E in particolare entrai nella palestra di Taurea, dirimpetto al santuario della Regina, e qui incontrai molte persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la maggior parte note. E quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si diedero a salutarmi, chi da una parte chi dall'altra; Cherefonte invece, da quella natura bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso di me, e afferratami la mano: "O Socrate", diceva, "come ti sei salvato dalla battaglia?". Poco prima che noi arrivassimo c'era stata una battaglia a Potidea, della quale lì si era avuta notizia da poco. E io rispondendo: "Così come mi vedi ", dissi.
"Eppure qui è arrivata la notizia che la battaglia è stata molto dura", disse lui, "e che vi sono morte molte persone note".
"Le notizie riportate sono esatte", risposi io.
"Eri presente alla battaglia?" chiese lui.
"C'ero".

Clitofonte

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Socrate: Un tale, poco fa, ci diceva che Clitofonte, figlio di Aristonimo, parlando con Lisia, biasimava le discussioni con Socrate, mentre lodava i dibattiti di Trasimaco.
Clitofonte: Quel tale, Socrate, non ti riferiva in modo esatto quei discorsi che feci su di te con Lisia; io, in verità, per alcuni aspetti non ti elogiavo, ma per altri sì. E poiché è chiaro che tu mi stai rimproverando, ma che fingi di non farlo, io stesso vorrei discorrere con te delle medesime cose, dato che ci troviamo ad essere noi due soli, affinché tu ti convinca che io non sono maldisposto nei tuoi confronti. Forse, infatti, non hai compreso correttamente, così da sembrare più aspro del dovuto verso di me, ma se mi concedi libertà assoluta di parola, io la accoglierò con piacere, anzi desidero proprio parlare.
Socrate: Sarebbe vergognoso non farlo, dato che hai un così vivo desiderio di essermi di giovamento; è chiaro che sapendo in quali cose difetto e in quali eccello, queste ultime le perseguirò e le eserciterò, le prime, invece, le eviterò con tutte le mie forze.

Crizia

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Timeo: Con quanta gioia, o Socrate, come se riposassi dopo un lungo cammino, mi libero ora volentieri del corso del ragionamento. Quel dio, nato un tempo nella realtà e ora nato da poco a parole, io prego che ci garantisca la conservazione, tra tutto ciò che è stato detto, di quelle cose che sono state dette con misura, e se, senza avvedercene, dicemmo qualcosa di stonato su di loro, di infliggere la giusta pena. Ma giusta punizione è rendere intonato colui che stona; affinché dunque in futuro facciamo discorsi corretti sull'origine degli dèi, preghiamo di fornirci la conoscenza, potentissimo ed efficacissimo tra i rimedi. Dopo aver così pregato, lasciamo, conformemente a quanto convenuto, il seguito del ragionamento a Crizia.
Crizia: Ebbene, Timeo, accetto; tuttavia la preghiera a cui anche tu all'inizio facesti ricorso, chiedendo comprensione giacché avresti parlato di grandi cose, ebbene, Questa stessa preghiera la formulo anch'io adesso, ma chiedo di ottenere una comprensione ancora maggiore per le cose che stanno per essere dette.

Epinomide

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Clinia: Come avevamo convenuto, giungiamo tutti e tre puntuali, o straniero, io, tu e questo Megillo qui, per considerare l'argomento della saggezza e precisamente come debba affrontarsi con il ragionamento ciò che – una volta intellettivamente afferrato – noi sosteniamo permetta alla capacita propria dell'uomo di trovarsi nella migliore condizione rispetto alla saggezza, quanta almeno è possibile che l'uomo possieda. Per il resto, infatti, riteniamo di aver esaurito l'argomento sull'istituzione delle leggi. Ma quel che più importa trovare e dire, ossia attraverso quale scienza un uomo mortale potrebbe diventare sapiente, questo né l'abbiamo detto, né l'abbiamo trovato ed è ora questo che che dobbiamo fare in modo di non tralasciare; altrimenti, infatti, rimarrebbe incompiuto il progetto per il quale ci siamo mossi, di far chiarezza su tutto, dall'inizio alla fine.
Ateniese: Caro Clinia, parli bene, tuttavia penso che ti toccherà ascoltare un discorso fuori dall'ordinario, anzi, per certi versi fuori all'ordinario, per certi altri no.

Eutidemo

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Critone: Chi era, Socrate, quello col quale tu discorrevi jeri nel Liceo[41]? E' c'era pur una gran folla intorno a voi, sicché io, che avrei voluto sentire, non potetti avvicinarmi tanto che mi riuscisse d'intender nulla. Però, mi alzai sulla punta de' piedi, e gli guardai in viso, ed e' mi parve un forestiero quello col quale tu discorrevi. Chi era egli?
Socrate: Ma di chi tu dimandi? Giacché ce n'era due, non uno.
Critone: Chi intendo io, era il terzo seduto dopo te, a destra: tra voi c'era il figliuolo d'Assioco[42]. Ed e' m'è parso esser cresciuto ben bene, Socrate, e ch'e' non deva, di età, differire molto da Critobolo nostro[43]. Se non che quello è delicatino, mentre questo è venuto avanti bene; ed è buono e bello d'aspetto.
Socrate: Chi tu dimandi, Critone, è Eutidemo, e l'altro seduto alla mia sinistra, è il suo fratello Dionisodoro; anch'esso prese parte alla conversazione.
Critone: Non conosco, Socrate, né l'uno né d'altro. Son de' nuovi sofisti, pare. Di dove sono? E che sapienza[44] professano?
Socrate: Costoro di nascita, sono, credo, di Chio[45], però migrarono a Turio, e cacciati di là[46], è già molti anni che girano da queste parti. Quanto a ciò che tu dimandi, della loro sapienza, meravigliosa davvero, o Critone; ogniscienti a dirittura. Cosicché io, prima d'ora, non intendevo neanche cosa mai volesse dire schermidor sovrano. Costoro sì, sono davvero gente da ogni battaglia, e non alla maniera di que' due fratelli acarnanii[47]. Questi non erano, buoni a combattere se non col corpo; mentre costoro, per la prima cosa, sono valentissimi col corpo, e a quel genere di battaglia col quale e' si vince tutti. Di fatti, non solo sono loro molto sapienti nel combattimento ad armi vere, ma anche capaci di farci sapiente altrui, chi gli paghi. Ma e di poi, sono potentissimi nella battaglia forense, e a piatire, e a insegnare altrui a recitare e scrivere discorsi da far colpo ne' tribunali[48].
[Platone, Eutidemo, traduzione di Ruggiero Bonghi, Milano, F. Colombo, 1859.]

Eutifrone

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Eutifrone: Oh, che c'è di nuovo, Socrate? mi pianti la conversazione del Liceo e te la spassi qua attorno per il portico del Re? Tu dal Re non ci hai da aver lite, come ce l'ho io.
Socrate: Eutifrone, gli Ateniesi questa mia non la chiaman lite, no, ma accusa.
Eutifrone: O bella! ti ha alcuno mosso accusa, pare? Tu a un altro? non credo.
Socrate: Io no.
Eutifrone: Un altro, a te?
Socrate: Sì.
Eutifrone: Chi?
Socrate: Né anche io lo conosco bene; e' mi par giovine, una faccia nuova; credo lo chiamino Melito: e di borgo è Pittéo. Hai tu in mente un Melito Pittéo, capelli lunghi, pelo ancor vano, naso adunco?
Eutifrone: No, Socrate: ma qual è codesta accusa?
Socrate: Tale, penso io, che non gli farà vergogna; perché ti pare un affar di nulla quel che sa lui, così giovine! Sa nientedimeno, come va dicendo, in quali modi sian guasti i giovani, e chi son quei che li guastano. E ho una paura ch'e' sia qualche brav'omo, che, adocchiata la mia ignoranza con la quale io fo prendere mala piega a quelli dell'età sua, ricorre alla repubblica come a una madre, e m'accusa. Certo fra i politici egli è il solo che mi pare cominci a modo: perocché prima convien pigliarsi cura de' giovani perché vengan su buoni quanto può essere; come fa l'accorto lavoratore che prima si piglia cura delle pianticelle più tenere; poi degli altri. E forse Melito pon la falce prima su noi, che, come va dicendo, annebbiamo i gentili germi de' giovani; dopo, non v'ha dubbio, rivolgendo le sue cure ai più vecchi, farà al paese nostro un bene da non si dire, come s'ha ad aspettare da uno che principia così.
[Platone, L'Eutifrone, ovvero Del santo, versione di Francesco Acri, Einaudi, 1970]

Ione

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Socrate: Ti saluto, o Jone: di dove ci vieni tu ora? di casa, da Efeso?
Jone: No, Socrate; da Epidauro, dalle feste di Esculapio.
Socrate: Forse gli Epidauresi hanno ordinato anco gare di rapsodi a onore del Dio?
Jone: Sí certo; e non di cotesta arte solamente, ma anco di tutte l'altre compagne.
Socrate: Che? ti ci se' provato tu? come t'è andata?
Jone: I primi premi li avemmo noi, o Socrate.
Socrate: Bene: fa che vinciamo anco nelle Panatenee.
Jone: Sarà cosí, se vuole Dio.
Socrate: Spesse volte io ho invidiato voi rapsodi, o Jone, per l'arte vostra: imperocché quello aver sempre a essere ornati della persona, sí da fare un assai bel vedere, come a voi si conviene, e quello aver sempre la mano in molti poeti e buoni, specialmente in Omero assai eccellente e divinissimo sovra a tutti, e intendere, non che le parole, il suo sentimento; ché, sai, non sarebbe egli rapsodo chi non vedesse piú in là dalla buccia, perché il rapsodo dee essere ai suoi uditori lo interprete del poeta, e non può, se non l'intende; tutto ciò degno veramente è d'invidia.
[Platone, Il Jone ovvero Del furore poetico, in "Dialoghi", versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.]

Ipparco

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Socrate: Dimmi: che cos'è l'avidità di guadagno? Che cosa può essere, e chi sono questi avidi?
Amico: Penso che siano quelli che fanno conto di trarre guadagno da cose di nessun valore.
Socrate: Ritieni, dunque, che essi sappiano che sono prive di valore, oppure che lo ignorino? Perché, se lo ignorano, tu definisci gli avidi di guadagno gente priva di intelligenza.
Amico: Tutt'altro che privi di intelligenza! Io piuttosto li definirei uomini scaltri, furfanti e incapaci di resistere al guadagno; pur riconoscendo come prive di valore le cose dalle quali ardiscono trarre profitto, tuttavia osano, a motivo della loro sfrontatezza, cercare il guadagno.
Socrate: Intendi forse dire che l'avido di guadagno è simile, per esempio, a un contadino che pianta un albero e, pur sapendo che esso non ha alcun valore, fa conto di trarne guadagno, una volta fatto crescere? È forse questo che dici?
Amico: Da tutto, certo, o Socrate, l'avido di guadagno pensa di dover trarre profitto.

Ippia maggiore

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Socrate: Ecco il bello e sapiente Ippia: dopo quanto tempo sei giunto da noi ad Atene!
Ippia: È vero, Socrate, infatti non ne ho avuto il tempo, perché Elide, quando deve trattare con una città, si rivolge sempre a me per primo tra i cittadini, scegliendomi come ambasciatore, poiché mi considera colui che sa meglio giudicare e riferire i discorsi che debbano eventualmente essere pronunciati presso ciascuna città. Spesso pertanto ho portato ambascerie in altre città e in particolar modo a Sparta e riguardo a questioni assai numerose e veramente importanti. Perciò, cosa che tu chiedi, non frequento questi luoghi.
Socrate: Ippia, appunto in tale condotta consiste l'essere un uomo veramente sapiente e perfetto. Tu infatti, prendendo privatamente molto denaro dai giovani, sei capace di procurare loro vantaggi ancora maggiori di quelli che ricevi e inoltre, in ambito pubblico, sei in grado di recare benefici alla tua città, come deve fare colui che vuole non essere disprezzato, ma godere di una buona reputazione agli occhi della gente. Ma Ippia, qual è mai il motivo per cui quegli antichi i cui nomi sono ritenuti importanti per la loro sapienza – cioè Pittaco, Biante, quelli della cerchia di Talete di Mileto e quelli che vennero dopo, fino ad Anassagora – risultano tutti o per la maggior parte essersi tenuti in disparte dalle attività politiche?
Ippia: Perché credi, Socrate, se non perché non ne erano in grado ed erano incapaci di svolgere con competenza tanto le attività pubbliche quanto quelle private?
Socrate: Per Zeus, forse dunque come le altre arti sono progredite e gli artigiani di un tempo sono meno bravi di quelli di oggi, così diciamo che anche la vostra tecnica di sofisti è progredita e che gli antichi sono inferiori a voi in sapienza?
Ippia: Parli in modo assolutamente corretto.
Socrate: Se dunque ora Biante ci ritornasse in vita, Ippia, susciterebbe il vostro riso, così come Dedalo sarebbe ridicolo – dicono gli scultori – se, rinato, producesse ora opere quali quelle grazie a cui conseguì la sua fama.

Ippia minore

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Eudico: Perché taci, Socrate, dopo che Ippia ha tenuto una lezione tanto bella, e non lodi con noi qualche punto di quanto e stato detto o non confuti ciò che ti pare non sia stato detto bene, a maggior ragione per il fatto che siamo rimasti proprio noi che ambiremmo in modo particolare a partecipare a una discussione filosofica?
Socrate: Eudico, certo che ci sono domande che farei volentieri a Ippia su ciò che diceva poco fa di Omero. Infatti da tuo padre Apemanto sentivo che l'Iliade è un poema omerico più bello dell'Odissea, tanto più bello quanto Achille è migliore di Odisseo, poiché diceva che dei due poemi uno era stato composto per Odisseo, l'altro per Achille. Pertanto, se Ippia acconsente, chiederei volentieri che cosa pensa di questi due uomini, quale dei due egli ritiene essere migliore, dato che ci ha mostrato molte altre svariate particolarità di altri poeti e di Omero.
Eudico: Ma è chiaro che Ippia non rifiuterà di risponderti, se gli fai qualche domanda. Infatti, Ippia, se Socrate ti domanda qualcosa, forse non risponderai? O come ti comporterai?
Ippia: Eudico, mi comporterei veramente in modo assurdo se, mentre mi reco sempre dalla mia patria, Elide, a Olimpia, alla solenne riunione degli Elleni, quando ci sono i giochi olimpici, nel tempio mi metto a disposizione per pronunciare il discorso che ognuno vuole tra quelli preparati per essere esposti o per rispondere a chi vuoi pormi una qualsiasi domanda, e ora non volessi rispondere a Socrate.
Socrate: Ippia, sei proprio fortunato se a ogni Olimpiade vai nel tempio così fiducioso nel tuo animo per la tua sapienza: e mi meraviglierei se qualche atleta andasse là per le gare così, senza paura e con tanta fiducia nel proprio corpo quanta tu dici di riporre nella tua mente.
Ippia: Socrate, è naturale che io sia in questa condizione poiché, da quando ho incominciato a gareggiare ai giochi olimpici, non ho mai incontrato nessuno più bravo di me in nulla.

L'Assioco

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Uscito fuor di città mi misi in via verso al Cinosargo, e giunto che io fui allo Ilisso, sentii gridare: – Socrate, Socrate –. Perché io mi volsi intorno, guardando di dove venisse la voce; e vedo Clinia, il figliuolo di Assioco, che correva verso alla Bella Fontana con Damone il musico, e con Carmide, il figliuolo di Glaucone: l'uno maestro suo in musica; l'altro, un amico ch'egli molto avea caro. Io, dalla voglia di esser presto con loro, pensai, lasciando la via diritta, andare loro incontro.

Lachete

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Lisimaco: Avete visto quell'uomo combattere in armi, Nicia e Lachete: il motivo per cui Melesia ed io vi abbiamo esortato ad assistere a ciò, non ve lo abbiamo detto allora, ma ve lo diremo adesso. Con voi crediamo di dover parlare liberamente. Vi sono alcuni che si prendono gioco di queste cose e nel caso in cui uno chiedesse loro un consiglio, non gli direbbero quello che pensano, ma tenendo conto di colui che chiede loro il consiglio, dicono cose contrarie alla loro opinione. Quanto a noi, invece, poiché vi ritenevamo capaci di conoscere e, una volta conosciuto, di riferire con semplicità ciò che pensate, vi abbiamo chiamato per avere un consiglio su ciò di cui vogliamo parlare. L'argomento a cui ho fatto tutte queste premesse è il seguente. Questi sono i nostri figli: questo è il figlio di costui e porta il nome del nonno, Tucidide, questo, invece, è mio figlio – anche lui porta il nome del nonno, di mio padre cioè; infatti si chiama Aristide – a noi, dunque, è sembrato giusto prenderci cura di costoro, per quanto ci era possibile, e di non comportarci come i più, che, quando i figli sono divenuti adolescenti, lasciano che essi facciano ciò che vogliono, ma cominciare fin da ora ad occuparci di loro, per quanto ne siamo in grado. Poiché sappiamo che anche voi avete dei figli, abbiamo ritenuto che voi, se non altri, vi sareste preoccupati di come avrebbero potuto diventare ottimi, se vi foste curati di loro; se, poi, non aveste riflettuto abbastanza su ciò, vi avremmo ricordato che non bisogna trascurarlo e vi avremmo invitato ad aver cura dei vostri figli insieme a noi.

Leggi

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ATENIESE: Un dio o un uomo presso di voi, stranieri, ha fama di essere l'autore delle istituzioni delle leggi?
CLINIA: Un dio, straniero, un dio, se vogliamo esprimerci nel modo più giusto: presso di noi Zeus, presso gli Spartani, donde questi è venuto, penso che dicano che sia stato Apollo. O no?
MEGILLO: Sì.
ATENIESE: Forse tu affermi, come Omero, che Minosse ogni nove anni si recava dal padre per incontrarlo e che, secondo gli oracoli di quello, stabiliva le leggi per le vostre città?
CLINIA: Così si dice presso di noi: e si dice anche che suo fratello Radamante – avete già sentito questo nome – sia stato uomo di grande giustizia. E noi Cretesi potremmo dire che costui si è giustamente meritato questo elogio per il modo con cui allora ha amministrato la giustizia.

Menesseno

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SOCRATE: Arrivi dall'agorà o da dove, Menesseno?
MENESSENO: Dall'agorà, Socrate, e dal buleuterio.
SOCRATE: E tu che c'entri con il buleuterio? O credi veramente di essere giunto al termine della tua educazione e della filosofia e, poiché pensi di possederle ormai a sufficienza, stai pensando di volgerti a più grandi imprese e, alla tua età – sei da ammirare – di governare noi, più anziani, perché la vostra casa non smetta di fornire sempre qualcuno che si curi di noi? MENESSENO: Se tu, Socrate, approvi e mi consigli di farlo, lo farò volentieri, altrimenti no. Ora comunque sono andato al buleuterio perché ho sentito che la bulé doveva scegliere la persona che avrebbe dovuto pronunciare il discorso per i caduti: sai che stanno preparando i funerali.
SOCRATE: Certo. Ma chi hanno scelto?
MENESSENO: Nessuno, ma hanno rimandato a domani; in ogni modo credo che sarà eletto Archino, o Dione.
SOCRATE: E pare, Menesseno, che sotto molti punti di vista veramente sia bello morire in guerra. Infatti, anche se chi muore è un povero, gli tocca una bella e magnifica sepoltura, e se è un incapace, gli tocca comunque un elogio pronunciato da uomini sapienti che non parlano a braccia, ma che hanno preparato i discorsi da molto tempo.

Minosse

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SOCRATE: Che cos'è per noi la legge?
AMICO: Ma quale legge è oggetto della tua ricerca?
SOCRATE: Ma come? È possibile che una legge differisca da un'altra, se considerata sotto l'unico aspetto di essere legge? Esamina bene dunque ciò che io mi trovo a domandarti. Saremmo infatti nella stessa situazione qualora io ti chiedessi che cos'è l'oro: se tu, così come ora, mi domandassi di quale oro mai io parli, credo che tu non porresti un giusto quesito, dal momento che l'oro non si differenzia assolutamente in nulla dall'oro, né una pietra da un'altra, se naturalmente si considerino l'oro in sé e la pietra in sé; e cos' nemmeno una legge differisce da un'altra, ma tutte sono la medesima realtà. Ogni legge infatti è legge allo stesso modo delle altre, non l'una di più, l'altra di meno; dunque io ti chiedo proprio questo: che cos'è la legge in genere? Se quindi hai pronta la risposta, esponila.
AMICO: Che cos'altro mai potrebbe essere una legge, Socrate, se non ciò che è stato stabilito?
SOCRATE: Ma come, per te il parlare coincide con le cose dette, o la vista con ciò che si vede, o l'udito con quello che si sente? Oppure, una cosa è il parlare e un'altra ciò che si dice; un conto la vista, un altro ciò che si vede; un conto l'udito, un altro ciò che si ode, e quindi una cosa è la legge, un'altra le regole stabilite? È così o come sembra a te?
AMICO: Ora queste due realtà mi appaiono distinte.
SOCRATE: Dunque la legge non si identifica con le norme stabilite.
AMICO: Non mi pare.

Politico

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SOCRATE: Ti devo molta riconoscenza, Teodoro, per avermi fatto conoscere Teeteto e nello stesso tempo anche lo straniero.
TEODORO: Presto, Socrate, mi ringrazierai tre volte tanto, non appena essi ti avranno tratteggiato sia la figura del politico, sia quella del filosofo.
SOCRATE: Bene. In questo modo, caro Teodoro, diremo di aver ascoltato ciò dalla persona più capace per quanto riguarda i calcoli e la geometria?
TEODORO: In che modo, Socrate?
SOCRATE: Benché tu abbia assegnato un uguale valore a ciascuno di questi uomini, essi, per il loro effettivo valore, sono distanti l'uno all'altro più di quanto si possa rappresentare secondo una proporzione matematica propria della vostra arte.
TEODORO: Bene, Socrate, per il nostro dio Ammone, e giustamente, e certamente con buona memoria mi rimproveri per il mio errore di calcolo. Di questo ti chiedo conto più tardi. E tu, straniero, non stancarti affatto di essere compiacente nei nostri confronti, ma subito, sia che tu scelga prima l'uomo politico, sia che tu scelga il filosofo, quando lo hai scelto, comincia a trattarlo.

Teagete

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DEMODOCO: Socrate, avrei bisogno di discutere in privato con te di alcune questioni e, se non hai qualche faccenda che sia veramente ì mportante, trova del tempo da dedicarmi.
SOCRATE: Ma certo! Non ho nulla da fare e per te comunque troverei sempre del tempo; se vuoi parlarmi puoi farlo.
DEMODOCO: Vuoi che ci ritiriamo in disparte qui, nel portico di Zeus Liberatore?
SOCRATE: Se ti pare opportuno...
DEMODOCO: Andiamo. Socrate, probabilmente tutto ciò che nasce, le piante della terra come tutti gli altri esseri viventi, uomo compreso, si comporta allo stesso modo; e infatti per quanti di noi coltivano la terra è assai facile, per ciò che concerne le piante, preparare tutto ciò che serve prima della semina e poi la semina stessa, ma quando ciò che è stato piantato comincia a crescere, allora la cura della pianta diventa lunga, difficile, laboriosa. E lo stesso capita con gli uomini, a quanto pare, poiché dalla mia esperienza deduco anche le esperienze altrui. Infatti anche per me la generazione e la procreazione – se così bisogna chiamarle – di questo mio figliolo sono state la cosa più facile di tutte, ma il crescerlo è arduo e io sono sempre in ansia e temo per lui. Quanto al resto, dunque, ci sarebbero molte cose da dire, ma il desiderio che al presente nutre mi fa una gran paura – eppure non è certo un desiderio vile, bensì pericoloso – poiché vuole diventarci, Socrate, come dice lui, un sapiente. Infatti credo che certi suoi coetanei del demo lo confondano, ripetendogli alcuni discorsi che ascoltano quando scendono in città, discorsi che egli ha incominciato a invidiare, e ormai da tempo non mi lascia tranquillo, dicendomi che mi devo prendere cura di lui e pagargli qualche sofista perché lo renda sapiente. A me importa ben poco del denaro, ma credo che costui vada incontro a un pericolo non piccolo con ciò in cui vuole impegnarsi. Finora l'ho trattenuto biandendolo, ma dal momento che non sono più in condizione di farlo, ritengo che la cosa migliore sia dargli retta, perché non prenda a frequentare a mia insaputa qualcuno che lo rovini. Dunque ora vengo qui proprio per questo motivo, per affidarlo a qualcuno di questi che appaiono sofisti, e tu quindi sei arrivato al momento opportuno, perché io vorrei assolutamente un tuo consiglio su tali questioni per le quali devo prendere una decisione. Se tu dunque vuoi consigliarmi qualcosa dopo aver sentito da me come stanno le cose, puoi e devi farlo.

Citazioni su Platone

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  • Chi oserebbe negare che Socrate e Platone siano stati uomini religiosi, anche se lo siano stati diversamente da Isaia e Geremia? E non sappiamo noi come fosse tutto permeato di religiosità – da quella filosofia stoica e neoplatonica a quella popolare misterica – la civiltà ellenistico-romana in cui si impiantò trionfalmente il cristianesimo? (Luigi Salvatorelli)
  • Ci si immagina Platone e Aristotele tutti paludati nei loro abiti da pedanti. Erano uomini di mondo come gli altri, che ridevano coi loro amici. E quando si sono divertiti a fare le loro leggi e la loro politica, è stato per gioco. Era l'aspetto meno filosofico e meno serio della loro vita; l'aspetto più filosofico consisteva nel vivere in modo semplice e sereno. Quando hanno scritto di politica, l'hanno fatto come per porre delle regole in un ricovero di pazzi. E se hanno mostrato di parlarne come fosse una gran cosa, è stato perché essi sapevano che i pazzi a cui parlavano credevano di essere re e imperatori. Essi entrano nei loro princìpi per moderare la loro follia e renderla più innocua che possono. (Blaise Pascal)
  • Ciò che Platone chiama giustizia dello Stato, è piuttosto la bellezza di quello; poiché ciò che distingue il Giusto dal Bello è questo: nel Bello si aduna la ricchezza d'una esistenza varia e molteplice, ma priva di coscienza e senza che le parti siano soddisfatte. Il Giusto invece conferisce ad ogni essere una sussistenza propria, una interna soddisfazione e un movimento indipendente, acciocché anch'esso a sua volta entri come un tutto, e si attui liberamente nel tutto maggiore. Ma ciò non si trova nello Stato di Platone. Egli sacrifica l'uomo, la sua felicità, la sua libertà, la stessa sua morale perfezione; infatti questo Stato non esiste che per sé stesso, perché appaia la sua nobiltà e magnificenza, e i cittadini non sono ad altro destinati che a servire, come semplici membri alla bellezza della sua costruzione. Quindi egli ha il carattere rappresentativo, come tutte le cose belle; è un'opera artistica che sembra di esistere meno per le sue proprie parti, che per chi la contempla. (Friedrich Julius Stahl)
  • Egli, uomo sapiente, capiva chiaramente che l'equa distribuzione dei beni è la condizione sine qua non perché un paese sia ben governato. (Tommaso Moro)
  • Fino a quei tempi il Vico ammirava due soli sopra tutti gli altri dotti, che furono Platone e Tacito; perché con una mente metafisica incomparabile Tacito contempla l'uomo qual è, Platone qual dee essere. (Giambattista Vico)
  • [Filisto dice che] Gli Ateniesi [...], grazie a un solo sofista [Platone], volevano abbattere la tirannide di Dionisio, convincendolo a disfarsi delle sue diecimila guardie e ad abbandonare le quattrocento triremi, i diecimila cavalieri e una fanteria di molte volte maggiore, per andare a cercare nell'Accademia quel suo 'bene' misterioso e diventare felici in virtù della geometria. (Plutarco, Vite parallele)
  • I due filosofi sono immortali, e ciascuno dei due ha i suoi pregi. Preferiamo sceglierci Aristotele come guida nella vita, e Platone come ispiratore dei nostri sogni. Ma sarebbe una triste vita quella in cui fossimo costretti a rinunciare all'uno o all'altro. (Henry Furst)
  • Il più celebre nome di questi precursori del socialismo è quello di Platone. Platone, è il socialista assoluto, in altri termini, il comunista integrale, il comunismo essendo la forma radicale del socialismo.
    Il socialismo di Platone è particolarmente interessante perché è esclusivamente politico. Egli costruisce la sua città ideale in funzione della realtà economica; la costruisce per se stessa. La bellezza della città esige, per lui, che l'individuo sia completamente fuso nella società. Non deve vedersi che quale membro della società, facendo concordare integralmente le sue attività, i suoi interessi, i suoi desideri, le sue volontà, alle attività, agli interessi, ai desideri ed alle volontà della Città. Deve essere, in breve, nel corpo sociale quello che sono le membra, o piuttosto le cellule, nel corpo dell'individuo. (Louis Salleron)
  • In lui trovate ciò che avete già trovato in Omero, ora maturato in pensiero, il poeta convertito in filosofo, con vene di saggezza musicale più elevate di quelle raggiunte da Omero; come se Omero fosse il giovane e Platone l'uomo finito; eppure con la non minore sicurezza di un canto ardito e perfetto, quando ha cura di avvalersene; e con alcune corde d'arpa prese da un più alto cielo. Egli contiene il futuro, pur essendo uscito dal passato. In Platone esplorate l'Europa moderna nelle sue cause e nella sua semente, il tutto in un pensiero che la storia d'Europa incarna o dovrà ancora incarnare. (Ralph Waldo Emerson)
  • Non si può entrare nel mondo della filosofia a forza di citazioni; bisogna leggere qualcosa, non si può spiegare Platone senza invogliare a leggere qualcosa di Platone. (Stefano Benni)
  • Platone aveva in fondo, da artista qual era, preferito l'illusione all'essere, e cioè la menzogna e l'escogitazione della verità, l'irreale all'esistente. (Friedrich Nietzsche)
  • Platone è filosofo sommo, il filosofo per eccellenza. Indubbiamente anche la figura di Aristotele rifulge di luminoso fulgore. Ma [...] nessun altro filosofo ha influenzato quanto Platone il destino della filosofia occidentale. Le sue dottrine gnoseologiche, metafisiche, etiche, politiche, estetiche, assimilate dal cristianesimo, sono diventate eredità permanente della cultura medioevale e della cultura moderna. La figura di Platone è fondamentale, gigantesca e poliedrica. Oltre che la storia della filosofia essa interessa la storia della poesia, della letteratura e della lingua greca. [...] La straordinaria grandezza di Platone è stata riconosciuta in ogni tempo. (Battista Mondin)
  • Platone è mio amico, ma la verità è ancora più mia amica. (Aristotele)
  • Platone è un mistico. (Simone Weil)
  • Platone fu il vero distillatore — non diremo creatore, perché la cosa viene certo dal mistico Oriente — della metafisica cristiana: fu lui che plasmò la Trinità e il Logos: fu lui ancora che distillò la distinzione dell'anima e del corpo subordinando questo a quella; fu lui che fece di questa terra un esilio; fu lui, insomma, che ridusse a sistema filosofico quel decadentismo morale che fa dei sensi una prigione, del mondo un male e che fa consistere la felicità nei vaneggiamenti della metafisica. (Emilio Bossi)
  • Platone ha inventato il comunismo con i commissari ai suoi vertici. [...] Il governo di Platone è esattamente quello che abbiamo oggi al Cremlino. (L. Ron Hubbard)
  • Platone occultò ciò che scrisse intorno alle cose divine sotto veli di enigmi e di figure matematiche. (Félix Lope de Vega)
  • Platone può considerarsi il filosofo ad un tempo più facile e più difficile da leggersi. Può definirsi il filosofo più facile da leggersi, in quanto, data la ricchezza dei contenuti e la squisita arte e la straordinaria maestria con cui sono composti, i suoi scritti comunicano messaggi agli uomini di cultura di tutti i tempi [...]. Va invece considerato un pensatore e uno scrittore difficile da leggere e da interpretare, per il fatto che esce, in larga misura, dagli schemi imposti dalla cultura moderna e contemporanea. (Giovanni Reale)
  • Platone rappresenta il maggior concentrato del pensiero pitagorico. (Moses Hadas)
  • Platone ricercava la verità e la bellezza e, soprattutto, la giustizia. (Spock, Star Trek)
  • [Criticando la dottrina delle idee] Platone, vedo il cavallo ma non la cavallinità. (Antistene)
  • Se l'Idea si ritirasse dal mondo, l'uomo non avrebbe più cognizione del bene e del male; nella stessa guisa che quando il sole è tramontato, l'occhio non può più distinguere i colori e gli oggetti, sebbene sia evidente che egli ha in sé stesso la facoltà di vedere e discernere. Questa è la similitudine di Platone. (Friedrich Julius Stahl)
  • Se in vita il magistero di Platone ha dato alimento a intelletti filosofici e ispirato rispetto ai non filosofi, dopo la morte e nei secoli i suoi scritti sono stati e sono guida per innumerevoli uomini non solo alla meditazione e alla ricerca, ma alla dignità di vivere. In costante tensione spirituale e intellettuale, Platone sa come pochi altri richiamare a quella coscienza di sé e infondere quel severo entusiasmo che devono governare una vita conforme alla «vera filosofia». (Giovanni Pugliese Carratelli)
  • Se Platone avesse potuto conoscere il cinema, sarebbe morto di terrore. (Mario Andrea Rigoni)
  • Si è detto talvolta che Platone annunciava il cristianesimo. Ma non c'è niente in lui del guazzabuglio giudaico: il mondo doveva trovare salvezza nelle forme, non nella fede. (Mario Andrea Rigoni)
  • Tentò di comporre un proprio sistema della natura umana, dei suoi attributi e dei suoi fini, seguendo uno schema geometrico, poiché riteneva che questo avrebbe spiegato tutto quan­to esisteva. (Isaiah Berlin)
  • Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone. (Alfred North Whitehead)
  • Tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate. (Alexandre Koiré)
  • Volgarità è, essenzialmente, dare del tu a Platone o a Goethe. (Nicolás Gómez Dávila)
  • Dionisio disse una volta a Platone che gli avrebbe tagliato la testa; Senocrate che era presente rispose: «Nessuno taglierà la gola a Platone, prima di avere tagliato la mia.
  • Lacrime per Ecuba e per le donne troiane | filarono già le Moire, quando esse nacquero; | a te, invece, Dione, che per le tue belle opere | celebravi la vittoria, versarono le dèe ampie speranze. | Nella tua grande patria, dai concittadini onorato, giaci, O Dione, | tu che con follia d'amore mi hai stravolto l'animo.
  • Ma quando Platone conversando sulla tirannide affermò che il suo diritto del più forte aveva validità solo se fosse stato preminente anche in virtù, allora il tiranno [Dionisio I di Siracusa] si sentì offeso e, adirato, disse: "Le tue parole sono degne di un vecchio", e Platone: "Invece le tue sono parole di un tiranno".
  • Una seconda volta Platone venne in Sicilia presso Dionigi il Giovane per chiedergli un po' di terra e alcuni uomini che vivessero secondo la sua costituzione. E Dionigi, benché avesse promesso, non mantenne fede.

Note

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  1. a b Citato in Apuleio, Sulla magia e in sua difesa, EDIPEM, 1973, p. 196.
  2. Citato in AA.VV., Il libro della storia, traduzione di Roberto Sorgo, Gribaudo, 2018, p. 51. ISBN 9788858016572
  3. Citato in AA.VV., Il libro dell'arte, traduzione di Martina Dominici, Gribaudo, 2018, p. 40. ISBN 9788858018330
  4. Da Carmide, citato in Apuleio, Sulla magia e in sua difesa, EDIPEM, 1973, p. 207.
  5. Citato in AA.VV., Il libro della filosofia, traduzione di Daniele Ballarini e Anna Carbone, Gribaudo, 2018, p. 12. ISBN 9788858014165
  6. Citato in AA.VV., Il libro della filosofia, traduzione di Daniele Ballarini e Anna Carbone, Gribaudo, 2018, p. 53. ISBN 9788858014165
  7. Citato in AA.VV., Il libro della matematica, traduzione di Roberto Sorgo, Gribaudo, 2020, p. 121. ISBN 9788858025857
  8. Citato in Ermes Ronchi, Il canto del pane, San Paolo, 2006, p. 78.
  9. Citato in AA.VV., Il libro della matematica, traduzione di Roberto Sorgo, Gribaudo, 2020, p. 56. ISBN 9788858025857
  10. Da Leggi, VI, 782, in Tutti gli scritti, p. 1589.
  11. Citato in AA.VV., Il libro della politica, traduzione di Sonia Sferzi, Gribaudo, 2018, p. 39. ISBN 9788858019429
  12. Citato in Umberto Galimberti, Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, 2007.
  13. Citato in AA.VV., Il libro della politica, traduzione di Sonia Sferzi, Gribaudo, 2018, p. 38. ISBN 9788858019429
  14. Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 238.
  15. (EN) Cfr. Plato FAQ: Did plato write "Only the dead have seen the end of war"?, Plato-Dialogues.org.
  16. Cfr. Le dieci regine delle citazioni bufala, Corriere.it, 19 marzo 2009 e Luigi Mascheroni, Mai dette, ma le ripetiamo sempre. Ecco le frasi fantasma della storia, Il Giornale, 21 marzo 2009, p. 22. l'autore dell'aforisma è George Santayana nel suo Soliliquies in England.
  17. «Alla mente di Simmia si presenta l'immagine della zattera, a cui Ulisse s'era affidato nella tempesta.» [N.d.T.]
  18. «Quelli che guarivano da una malattia solevano offrire un gallo ad Asclépio, il nume della medicina.» [N.d.T.]
  19. Citato in Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, volume primo, UTET, 1946, p. 53.
  20. Anche nelle Leggi, 6,754c, 12,956e.
  21. Trad. G. Reale; citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  22. Traduzione in Bonacasa, Braccesi, De Miro, La Sicilia dei due Dionisî, «L'erma» di Bretschneider, 2002, p. 11.
  23. Traduzione in Platone. Tutte le opere, con un saggio di Francesco Adorno, a cura di Enrico V. Maltese, 2013.
  24. Traduzione italiana di Maria Grazia Ciani in Platone. Lettere, Fondazione Lorenzo Valla 2002, p. 103.
  25. a b Traduzione di Maria Grazia Ciani in Platone. Lettere, Fondazione Lorenzo Valla, 2002.
  26. Di Alcibiade che è rimasto, pe' suoi difetti più che per le sue qualità, il nome più popolare della storia greca, omnia in vulgus nota. Ne sarà discorso nel dialogo che porta il suo nome e nel Convivio.
  27. Iliad. XXIV, 348, ed Odyss. X, 278. ‐ Non manca di una sua bellezza questa libertà e genialità di conversazione. Socrate in luogo di rispondere alla precisa dimanda dell'amico, s'oppone a una sua osservazione passeggiera e di nessun rilievo riguardo alla dimanda stessa. Alcibiade ci si dipinge come un uomo su' venti anni. Non si sa precisamente l'anno della sua nascita; ma mi par probabile il ragionamento del MASON nello SMITH'S Dictionary, il quale crede ch'egli nascesse nel 450 a. C. all'incirca. Dall'età presunta d'Alcibiade si argomenterebbe dunque che Platone finga che questo dialogo fosse tenuto nel 430 o nel 428 su per giù; che sarebbe un anno prima o dopo la battaglia di Potidea, alla quale è verisimile che Alcibiade fosse presente insieme con Socrate, come più tardi a quella di Delio (424).
  28. ABDERA, città di Tracia vicino all'imboccatura del Nesto. Una colonia fondata prima da Timesio di Clazomene nel 656 av. Cristo, distrutta da' Traci subito, e ristabilita più tardi da' Tei, abitanti d'una città marittima della Bitinia. Di dove Protagora che era nato in Abdera, si trova a volte chiamato Teio (FREI. op. cit. p. 3).
  29. Morto alla battaglia di Coronea, combattuta nel 443 a. C. tra gli Ateniesi e i Beozii, colla peggio de' primi.
  30. Apollodoro è del sobborgo ateniese del Falero, sul mare; appare pure nel Fedone; cfr anche Apologia XXII, XXVIII.
  31. Poeta tragico, fra i maggiori del suo tempo. La sua prima vittoria, festeggiata nel convito qui descritto, si ebbe alle gare tragiche del 416, quando era trentenne. Il racconto del dialogo svoltosi in quell'occasione avviene molto più tardi, come risulta da questo stesso capitolo: dopo la partenza di Agatone da Atene, verso il 408, e prima della morte di Socrate (e Agitone), il 399.
  32. Personaggio sconosciuto.
  33. Forse il padre di Carmide.
  34. Del comune ateniese di Cidateneo. Era detto «il Piccolo»: alieno da pratiche religiose, ha una conversazione con Socrate sull'esistenza di Dio nei Memorabili di Senofonte. «Sempre scalzo» a imitazione di Socrate.
  35. Citato in Umberto Galimberti, Paesaggi dell'anima, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 122. ISBN 885882928X
  36. Citato in Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche, Mondadori, Milano, 2012, p. 27. ISBN 978-88-04-47133-2.
  37. Citato in Edgar Allan Poe, "Morella", Storie incredibili, traduzione di Baccio Emanuele Maineri, Milano, Tipografia Pirola, 1869.
  38. Citato in E.A. Poe, "Morella", Tutti i racconti del mistero, dell'incubo e del terrore, traduzione di Isabella Donfrancesco, Newton Compton, 2010. ISBN 9788854125605
  39. Citato da Umberto Eco in Storia della bruttezza, p. 108 Bompiani. ISBN 978-88-452-7389-6
  40. Da Platone, Timeo, Critia, Minos, traduzione di Emidio Martini, G.B. Paravia & C., Torino, 1935, p. 74.
  41. Uno de' tre Ginnasii d'Atene, il più antico ed importante. Era luogo d'esercitazioni ginnastiche, e Aristotele v'insegnò, passeggiando. Aveva il nome dal tempio vicino d'Apollo Licio.
  42. Clinia.
  43. Figliuolo di Critone, giovine di bellissimo aspetto, e appassionato di Socrate: che troveremo menzionato altrove da Platone. Si veda DIOG. LAERT., II, 13, 121. XENOPH., Sympos., III, 7; IV,.10; V, 1 e seg.
  44. Sapienza, in greco, è σοϕία, come tutti sanno. E sofista vuole propriamente dire, uno che rende altrui sapiente; da σοϕίζω, ammaestrare. Vedi PAPE, Etymolog. Wörterb., p. 555. COPE, Classical Journal I. 182. L'HERMANN invece op. cit. 204. Coll'annot. 209 dietro Fozio (528. Gor.) da σοϕίζεσϑαι. Il Frei (op. cit. p. 11) approva. A me par migliore la derivazione dall'attivo. — Sapienza, in simili luoghi, ha un senso latissimo.
  45. Chio, una delle Sporadi, molto più vicina ad Atene che non Turio, però dice di costì. Dipendeva dall'imperio d'Atene, imperio che a un Ateniese segnava quasi l'ultima cerchia delle mura di Atene.
  46. Tra gli Ateniesi, probabilmente, che ci andarono a coloni nell'Olymp. 84, 2 = 443 a. C. con dieci navi guidate da Lampone e Senocrito. Così chiamata dalla fonte Turia, teneva il luogo dell'antica Sibari, distrutta dai Crotoniati. Erodoto di Alicarnasso e Lisia siracusano furono tra' coloni: ROUTH. a q. I. che cita DIOD., XI, 90; XII, 7 e 10. STRAB., VI, p. 263. Turio non era tra gli alleati tributarii di Atene; anzi pare che i coloni ateniesi fossero pochi. Di maniera che il partito ateniese non vi si potette mantenere tanto in forza, che Lisia con trecento altri, accusati di atticizzare, non fossero cacciati di Turio nell'a. C. 412 o 411, olymp. 92, 1. Sarebbe difficile di affermare collo Schleiermacher che appunto in codest'anno fossero stati rimandati i nostri sofisti, dovendo essere pur troppo fin d'allora un caso molto frequente, in questa misera terra, che que' che un muro ed una fossa serra, non si potessero tollerare gli uni gli altri, ed alternassero spesso l'esilio. — Vedi GROTE, op. cit. p. II, XLVII, I. V. p. 19.
  47. De' quali non si sa nulla. HEIND.
  48. In tutto questo luogo ho dovuto fare alcuna mutazione nel testo, perché il lettore italiano avesse qualche immagine della sottile ironia e del gran garbo del discorso di Socrate. Di fatti, dove io ho detto schermidor sovrano, frase troppo moderna, giacché scherma non suggerisce l'idea delle varie lotte vere e pericolose, che parevano adatto esercizio del corpo, e il cui spettacolo cagionava un acuto diletto agli antichi,
    Creando a sé delizia
    E delle membra sparte
    E degli estremi aneliti
    E del morir con arte,
    il testo, in luogo, ripeto, del mio schermidor sovrano, ha pancraziasti, che erano una qualità di combattenti, i quali combinavano il pugilato colla lotta, facevano a un tempo, cioè dire, non solo alla pugna, come i pugili, ma anche alle braccia come i lottatori. Socrate si serve della parola in questo suo significato solito, ma scherza sulla sua etimologia, quasi, per via di questa dovesse significare un combattimento in cui si supera tutti — πάντων χρατεῖν. Se però io avessi tradotto pancraziasti, non avrei potuto far sentire il bisticcio; e d'altra parte parecchi de' miei lettori non avrebbero inteso di che cosa s'intendesse discorrere. M'è parso dunque di rimanere più fedele, allontanandomi un po' dal testo: giacché col non seguirlo per l'appunto sarei potuto riuscir meglio ad ottenere che al lettore italiano la mia traduzione rendesse al possibile la stessa impressione che il testo rendeva al lettor greco. E come s'uno dicesse: «Io prima d'ora credevo che schermidor sovrano fosse chi sapeva meglio di chi si sia, giocar di spada e di sciabola; ma ora ho inteso che l'è ben altro, ecc.» e quella certa somiglianza che la mia frase ha col feritor sovrano, del Tasso me l'ha fatta appunto prescegliere. Platone quando riesce a trovare una frase, che ricordi Omero come si sia, non se la lascia scappare. Il ritratto d'un autore antico non si può rendere, senza studiare e ripresentare le varie abitudini della sua mente.

Bibliografia

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  • L. Brisson, Plato bibliography (1992-2001), disponibile online a questo indirizzo
  • Platon Werke, 8 voll., Darmastadt, 1990.
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  • Platone, Dialoghi, traduzione di Francesco Acri, a cura di Carlo Carena, Einaudi, Milano 1988.
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  • Platone, Il convito, ovvero Dell'amore, traduzione di Francesco Acri, Einaudi, 1970.
  • Platone, Il Convito ovvero Dell'amore, in "Dialoghi", versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.
  • Platone, Il Critone ovvero Di quel che si dee fare e Il Fedone ovvero Della immortalità dell'anima, versione di Francesco Acri, Einaudi, 1970.
  • Platone, Il Fedro ovvero Della bellezza, Il Jone ovvero Del furore poetico, Il Menone ovvero Della virtù, Il Parmenide ovvero Delle idee, Il Timeo ovvero Della natura, L'Assioco ovvero Della morte, in "Dialoghi", versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.
  • Platone, L'Eutifrone, ovvero Del santo, versione di Francesco Acri, Einaudi, 1970.
  • Platone, Liside, da Discorsi sull'amicizia e sull'amore, introduzione di Giovanni Pugliese Carratelli, a cura di Elmo Totti, traduzione di Emidio Martini, BIT, Editoriale Opportunity Book, 1995. ISBN 8881110016
  • Platone, Protagora, traduzione di Ruggiero Bonghi, Milano, F. Colombo, 1859.
  • Platone, Protagora, traduzione di Giovanni Reale, editrice La Scuola, VI edizione 1986.
  • Platone, Il Timeo ovvero Della natura, in Dialoghi, versione di Francesco Acri, CDE, Milano, 1988.
  • Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2001. ISBN 88-452-9003-4
  • Platonis Operae, 5 voll., a cura di J. Burnet, Oxford, 1892-1896.
  • Umberto Galimberti, Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, 2007.

Voci correlate

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