Giorgio Bocca

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Giorgio Bocca nel 1953

Giorgio Bocca (1920 – 2011), giornalista e scrittore italiano.

Citazioni di Giorgio Bocca[modifica]

  • A me queste Brigate Rosse fanno un curioso effetto, di favola per bambini scemi o insonnoliti; e quando i magistrati e gli ufficiali Cc e i prefetti ricominciano a narrarla, mi viene come un'ondata di tenerezza, perché la favola è vecchia, sgangherata, puerile, ma viene raccontata con tanta buona volontà che proprio non si sa come contraddirla.[1]
  • Aveva ragione Giuliano a non volersi muovere dalle montagne di Sagano e a dire: "No in città io non scendo, sull'asfalto scivolo". Il cerchio di morte si chiude nel febbraio del '54 all'Ucciardone. La mattina del 9 febbraio la guardia carceraria Ignazio Selvaggio porta il caffè nella cella che Pisciotta divide con un mafioso. Muore di stricnina senza aver ripreso conoscenza. La guardia carceraria e il mafioso Riolo vengono processati, assolti e uno dopo l'altro fatti sparire come testimoni pericolosi. Riolo viene freddato a Piana degli Albanesi, Benedetto Minasola che ha guidato Pisciotta a Castelvetrano finito con la lupara a San Giovanni Jato, restano in vita la madre e la sorella di Giuliano.[2]
  • Avete capito perché il Berlusconi nemico dei giudici, che assolda gli avvocati per corromperli, che invita a non pagare le tasse, che fa uso disinvolto di smentite, che promette ciò che non può mantenere, che nasconde i suoi affari pericolosi, piace tanto agli italiani? Perché tanti italiani evidentemente sono come lui inclini alle complicità anarcoidi.[3]
  • C'era un sistema Moggi, un sistema Juventus truffaldino e sportivamente ingiusto? Se si, resta da capire come questo sistema abbia riportato il calcio italiano al primato mondiale e lo abbia riportato con un'impresa non solo di valore sportivo, ma etico, con una squadra italiana che superava con la volontà, con l'attaccamento alla maglia, la superiorità atletica e tecnica di squadre come il Brasile, l'Argentina, la Francia, la Germania. Ma, si dice, il campionato Mondiale è un'altra cosa che non va confusa con la corruzione del nostro sistema. Affermazione assurda. Le vittorie e le sconfitte nel campionato del Mondo hanno sempre avuto il peso di un giudizio generale sul nostro calcio. Questa volta no, questa volta il fatto che siamo di nuovo i primi nel mondo, dopo sei finali e mezzo secolo di competizioni, appare quasi casuale.[4]
  • Che cosa era Enrico Mattei? Un avventuriero? Un grande patriota? Uno di quegli italiani imprendibili, indefinibili, che sanno entrare in tutte le parti, capaci di grandissimo charme come di grandissimo furore, generosi ma con una memoria di elefante per le offese subite, abili nell'usare il denaro ma quasi senza toccarlo, sopra le parti ma capaci di usarle, cinici ma per un grande disegno.[5]
  • Chi ha raccolto le sfide della vita sa che nei momenti decisivi ha dovuto disattendere o disobbedire ai legami della famiglia.[6]
  • [Milena Gabanelli] È l'ultima giornalista che fa inchieste vere, in un momento in cui su tutti i giornali sono state abbandonate. E addirittura stupisce che le possa fare.[7]
  • [Toni Negri] È un uomo che ho sempre giudicato un cretino per le sue elucubrazioni politiche e un imbecille come intellettuale.[8]
  • Girate per la città di Catania, spaventoso, allucinante connubio di sublime barocco e di decomposizione urbana, di natura stupenda e di umanità indecente [...].[9]
  • E' la città di un paese civile, Catania? [...] E' vita vivere a Catania? Centinaia di bambini di questa infelice città hanno il padre in prigione e la madre prostituta, ottanta minorenni sono stati arrestati in un anno per rapina in una città di 372.000 abitanti, quanti nel resto d' Italia su ventidue milioni. E il mafioso pentito Calderone ci ha confessato di avere ucciso a Catania quattro bambini colpevoli di aver rubato in casa di sua madre. Per dare una lezione[10].
  • [Su Vittorio Pozzo] Il commissario unico era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti.[11]
  • [...] il gioco del calcio in Italia senza la Juventus sarebbe impensabile.[12]
  • L'errore capitale commesso dal cavaliere Silvio Berlusconi e da altri fondatori di network privati non è stato tanto quello di investire in uomini e mezzi prima che fosse data una legislazione precisa, ma nel non aver capito, subito, che anche il boccone saporito delle TV private, prima o poi sarebbe finito sotto i denti dei nostri partiti.[13]
  • [...] la favola della "vecchia signora" dello "stile Juventus" mai esistito nella pratica, sempre nella leggenda.[12]
  • La new economy è una cosa molto seria nei suoi effetti. Mai nella storia del capitalismo si era assistito a uno spostamento così rapido e colossale e spesso arrischiato di mezzi finanziari, mai tante persone si erano decise a puntare somme enormi sul futuro, mai tanti giovani avevano pensato di avere delle occasioni così splendide a portata di mano e mai, come conferma la prima ondata di fallimenti delle imprese elettroniche, tante persone apparentemente ragionevoli avevano investito il loro patrimonio e quelli dei parenti e anche degli eredi senza fare un minimo di conti sul costo per il lancio delle loro aziende, sul costo della pubblicità e sulla concorrenza dei più forti.[14]
  • La ragione per cui il populista-demagogo Berlusconi piace agli italiani è la stessa per cui, ai loro occhi, il conflitto d'interessi non è una ferita grave della nostra democrazia. Il fatto che egli sia stato al contempo capo del governo e padrone dell'informazione sembra qualcosa di naturale, di normale, qualcosa che tutti vorrebbero praticare.[15]
  • [Nel 2006] Leggendo le cronache amare dello scandalo Juventus mi è parso di ritornare a una storia nota, una storia piemontese e monarchica dove re onnipotenti e amati dagli umili per la loro onnipotenza, si circondano di corti tanto brave a gestire il potere e i privilegi quanto ipocrite nel celebrare virtù che non hanno uno stile signorile e corretto mentre si dilaniano per la spartizione del bottino: lo stile Savoia o lo stile Juventus.[12]
  • Nei sessantotto anni della sua vita Josef Pilsudsky gioca sulla scena europea le parti più contraddittorie: fino al 1914 è il socialista temuto dagli imperi reazionari dell'Austria-Ungheria e della Russia, caro alla retorica dei parlamentari francesi del tempo, e all'idealismo del presidente americano Wilson; eppure lo stesso uomo sarà, fra il 1926 e il 1935, un personaggio emblematico delle dittature militari filofasciste.[16]
  • Nel 1917 [Pilsudsky] è alleato dei bolscevichi per abbattere lo zarismo; nel 1920 li fa impiccare. Di tale ambiguità Stalin farà uso per decimare a sua volta i comunisti polacchi non graditi. Alleato della Francia, il Pilsudsky del 1934 tresca con la Germania nazista e firma patti di non intervento con l'URSS. Un voltagabbana dunque? Un uomo di potere pronto a giocare su tutti i colori? In parte sì, come ogni uomo politico, ma soprattutto un uomo del suo tempo e della sua nazione.[17]
  • Non tutti i «gentili» – per sfortuna degli ebrei – sono stati degli «ingenui» o «zucche vuote» come essi amano chiamarli. Anche essi, o almeno una parte di essi ha saputo guardare il viso non amabile forse, ma pur tuttavia immutabile, della realtà. Un colpo tremendo deve aver subito il cuore ebreo nel vedere sorgere un movimento, quale quello fascista che denunciava la inconsistenza pratica della parola libertà nel campo politico dove gli uomini sono in tal modo costrutti da trasformare la libertà loro accordata in anarchia. Una rabbia immensa deve aver riempito il cuore degli anziani di Sion, nel sentire dei non ebrei dire che il comunismo è un'utopia irraggiungibile e che le sue applicazioni pratiche sono costruzioni meccaniche e crudeli dove milioni di schiavi lavorano per una minoranza di dirigenti (ebrei). L'odio di chi vede svelati i suoi piani è enorme, l'odio di chi vede rovinati i propri piani è tremendo. Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza, infatti, sarebbe una vittoria degli anglosassoni e della Russia; in realtà sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l'idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? È certo una buona arma di propaganda presentare gli ebrei come un popolo di esseri ripugnanti o di avari strozzini, ma alle persone intelligenti è sufficiente presentarli come un popolo intelligente, astuto, tenace, deciso a giungere, con qualunque mezzo, al dominio del mondo. Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù.[18]
  • Ogni sera alle 19 in punto, dallo scoppio della guerra, compare sugli schermi del Tg3 il corrispondente da New York, Lucio Manisco, in un gessato scuro che ricorda un po' l'Al Capone della notte di San Valentino e un po' un notabile della Dc partenopea quando sposa una figlia. Ha passato la giornata a spulciare sulla stampa americana tutto ciò che non va nel Golfo, alla Casa Bianca, al Pentagono e si vede che non sta più nel suo gessato per la soddisfazione di potergliela dire agli Stati Uniti d'America. Noi non sappiamo quali siano le cause, magari rispettabili e comprensibili di questo antiamericanismo che è diffuso fra i nostri corrispondenti da New York, forse un po' frustrati dal fatto che nessuno in America si accorge che ci sono, ma ci fa un po' ridere e un po' ci infastidisce per come si manifesta. Perché ogni sera alle 19 in punto Lucio Manisco, nel suo gessato scuro, con la sua bella voce baritonale spiega, più a Bush che a noi che lo ascoltiamo per un certo masochismo, perché e come deve perdere la guerra. [George H. W. Bush] Dia retta a lui, Lucio Manisco, che se ne intende. [...] E poi ogni sera i bravi giornalisti del Tg3 devono dimostrarci che gli americani sono stupidi, incapaci, cattivi economicisti e imperialisti.[19]
  • Palmiro Togliatti è ricordato come uomo freddo, scostante, che portava occhiali da professore, parlava con voce nasale, un intellettuale arido nei sentimenti, un politico scaltro che conosceva la langue russe, cinico. Resta allora da spiegare perché l’Italia proletaria fu pronta all’insurrezione armata quando si attentò alla sua vita e perché milioni di italiani di ogni ceto ebbero il sentimento, nel giorno della sua morte, che con lui se ne andava uno dei padri della Repubblica e comunque uno a cui si era debitori di mutamenti importanti.[20]
  • Per me destra e sinistra si equivalgono in stupidità.[21]
  • Pilsudsky non è un personaggio amato dalla sinistra; egli è giustamente considerato un reazionario e un filo-fascista. A sua giustificazione però si deve dire che la Polonia che ha governato veniva da secoli di dominazioni straniere, che avevano sistematicamente represso e eliminato la cultura nazionale, e letteralmente impedito ai polacchi di frequentare le scuole. Ecco il contesto che non può essere ignorato.[22]
  • Quando c'è un caso che riguarda la Resistenza sono tacciabile come uno che dà sempre ragione ai partigiani.[23]
  • Quel Grande Torino non era solo una squadra di calcio, era la voglia di vivere, di sentirsi di nuovo cittadini di una città viva e concorde che ci prendeva alla gola quando passavamo davanti alle macerie di piazza San Carlo, di fronte agli edifici sventrati.[24]
  • Se ripenso ai raduni di quella nazionale nella mia città, a Cuneo, faccio fatica a credere in tanta modestia. La imponeva Vittorio Pozzo, un tipo di alpino e salesiano arrivato chissà come alla guida degli azzurri senza essere né un allenatore di professione né un burocrate dello sport ma semplicemente un piemontese risorgimentale ciecamente convinto delle virtù piemontesi. Uno di quelli per cui la parola sacra è "ël travai".[11]
  • Se una squadra di calcio vince tutto per settant'anni e ha alle spalle un gigante industriale, non ha bisogno di chiedere dei favori perché tutti sono pronti a farglieli, si crea un tale incantamento che i tifosi, la gente comune se ne fa un'immagine diversa e migliore di quella reale, un'immagine superiore persino alla lotta di classe, con il Togliatti juventino, e il siciliano Anastasi diventato l'idolo degli operai piemontesi del Lingotto. Ma la fame dell'oro era già forte nella Juventus del quinquennio dei cinque campionati consecutivi vinti. Ricordo un allenatore austriaco, Sturmer, mi pare, che quando andai a Torino per fare un provino alla Juventus si informava del mio rapporto con il denaro, mi metteva in guardia dal diventare avido come il terzino Rava o come i sudamericani Monti e Cesarini, ma io non capivo di che parlasse: la Juventus per un ragazzo di provincia era un sogno, una riunione di tutte le virtù sportive e civili.[12]
  • So solo che Montanelli è fatto così: un maestro di giornalismo che ogni tanto s'impenna con qualcuna delle sue bizzarrie.[25]
  • [Su Dino Buzzati] Sta oggettivamente dalla parte di coloro i quali vogliono che tutto stia fermo com'è per non perdere uno solo dei loro privilegi.[26]
  • Un certo Berlusconi costruisce Milano 2, cioè mette su un cantiere che costa 500 milioni al giorno. Chi glieli ha dati? Non si sa. Chi gli dà i permessi e dirotta gli aerei dal suo quartiere? [...] Noi saremmo molto curiosi, molto interessati a sapere dal signor Berlusconi la storia della sua vita.[27]
  • [Su Vittorio Ghidella] Uno che non si ferma ai luoghi comuni della sua professionalità, che non si accontenta di un lessico manageriale e che ha il coraggio, se occorre, delle vecchie e spesso irrise verità morali.[28]
  • Vespa non lo considero un giornalista, lo considero un servo di regime. [...] Non [è una questione, NdR] di sinistra o di destra: non si può essere considerati giornalisti se non si ha il coraggio di dire la verità, e la verità non è né di sinistra né di destra.[29]
  • Villarbasse è uno di quei villaggi della campagna torinese che sono immersi nella storia, ma ancora fuori dalla modernità.[30]

l'Unità, 27 gennaio 2005

  • Berlusconi mi mette in difficoltà: non so mai dove comincia e dove finisce la sua recita, non so dove voglia arrivare con il lifting, con la bandana, con le tasse, non so se neppure lui si renda conto di quanto ci prenda in giro.
  • Berlusconi vanta i sondaggi che lo danno in risalita. Ma lui è un manipolatore di sondaggi e per giunta è sempre più difficile capire come si divida la gente, se ancora cioè l'uomo di Arcore possa vantare qualche appeal illusionistico.
  • Mussolini ha commesso tanti errori, tipo l'entrata in guerra quando gli sembrava di dover semplicemente salire sul carro dei vincitori. Andò a invadere l'Albania e la Grecia in modo insensato e persino Hitler, che era folle ma non fesso, s'infuriò.
  • Non c'è questione che mi possa trovare d'accordo con lui [Berlusconi]. L'ho conosciuto tanti anni fa. È solo peggiorato. Faceva l'imprenditore. Si divertiva a convocare qualche centinaio dei suoi sottoposti e a arringarli con un microfono in mano. Si compiaceva di dirne di tutti i colori...
  • [Berlusconi] Questo non sa nulla di politica. È solo furbo.
  • Salvo che la statura di Mussolini era ben altra [rispetto a Berlusconi]. Mussolini era un uomo colto che sapeva di politica, che era andato a scuola dai socialisti.

Gli errori del pacifismo

Articolo su la Repubblica, 22 gennaio 1991.

  • Abbiamo poi appreso che la cultura di sinistra, una parte della cultura di sinistra, che dalla nascita della repubblica è andata a senso unico tutte giuste le guerre comuniste, le rivoluzioni comuniste, sempre sbagliate le guerre dell'Occidente massime degli Stati Uniti ora non avendo più la sponda dell'Unione sovietica e del sol dell'avvenir su cui far rimbalzare la sua propaganda e trovare uno zoccolo duro alle sue parole, passa a un pacifismo totale e indiscriminato per cui, pur di contrastare una guerra votata dalle Nazioni unite, si sostiene che non esistono guerre giuste. E se quell'uomo serio, prima che un grande intellettuale, che è Norberto Bobbio si permette di ricordare che le guerre giuste esistono, che combattere il nazismo nella Resistenza fu una guerra giusta come lo sono le guerre in corso dei baltici o dei negri sudafricani o di chiunque si difenda da una ingiusta oppressione lo si attacca come un cattivo maestro. Il filosofo Vattimo, bontà sua, ci ha fatto sapere che forse la Resistenza l'avrebbe fatta anche lui, ma tutti gli altri firmatari del manifesto contro Bobbio non hanno mezzi termini, tutte le guerre per loro sono ingiuste, sono diventati tutti gandhiani, evangelici, se li schiaffeggiano su una guancia porgono l'altra. Ora se il pacifismo e il neutralismo cattolici hanno una giustificazione storica, hanno alle spalle una dottrina coerente, salvo qualche piccola eccezione come la guerra di Spagna con benedizione papale delle truppe franchiste, quelli del filone comunista o come chiamarlo, neo comunista o nostalgico comunista o comunista desiderante? Ci sembrano francamente poco decenti se ritroviamo fra i suoi esponenti degli stalinisti come il professor Gian Mario Bravo catafratto laudatore dei carri armati di Krusciov e di Breznev. Quanto allo squadrismo rosso del Manifesto meglio sorvolare, si sarebbero trovati bene anche a Salò.
  • La cultura politica mimata e cantata, l'impegno del rock, le grandi indimenticabili stagioni degli Inti Illimani e della Baez ci sono estranei, probabilmente per ragioni di età, ma possiamo capirli e rispettarli. Quello che ci riesce più difficile capire e rispettare, a fronte della tragedia guerra, è l'astrattezza, il velleitarismo, questo gridar pace pace sulle piazze senza chiedersi a che prezzo, con quali effetti. Sembra che nessuno o pochi di questi pacifisti abbiano capito, alla prova di questa dura guerra, che la posta in gioco non sono i pozzi di petrolio del Kuwait, ma il tentativo iracheno di formare nel giro di pochi anni un potentato arabo superarmato, revanchista avente come obbiettivo centrale, per affermarsi nel mondo arabo, la distruzione di Israele.
  • Gli arabi non sono i poveri della terra, molti arabi sono fra i ricchi e ricchissimi come dimostra la crisi, da rarefazione di clienti, della moda, della gioielleria, del marmo, dell'arredamento, della finanza, dei panfili. E ci vuole padre Balducci, erede del terzomondismo di La Pira, evangelico ma finanziato dal petrolio dell'Eni, per sostenere che è solo colpa del capitalismo se il fiume di miliardi arrivati nei paesi arabi è finito in armamenti. Sì, è colpa dell'affarismo occidentale, [...] ma le nostre colpe, i nostri errori non possono voler dire la resa all'avventurismo e al caos mondiali, non possono voler dire la rinuncia a quell'unico luogo, a quella unica istituzione, le Nazioni unite, che può non diciamo garantire un perfetto ordine internazionale, ma almeno un punto di deterrenza e di riferimento.

Io ringrazio quei barbari...

Articolo su la Repubblica, 8 giugno 1993.

  • Ho votato per la Lega come da dichiarazioni di voto pubblicate dalla stampa, per ragioni che a me sembrano di comune buon senso politico. Chi come me pensa che il sistema dei partiti abbia fatto il suo indecoroso tempo, chi è convinto che bisogna arrivare presto a una nuova legge elettorale, a una nuova costituzione, a facce nuove, in pratica a Milano non aveva scelta.
  • La forza della Lega non sta nel fiuto politico soprattutto tattico del senatore Bossi, e neppure nel suo linguaggio violento e colorito che può servire da valvola di sfogo allo zoccolo fanatico del movimento, non sta neppure nel localismo e nel separatismo. Sta nel fatto che la Lega con tutte le sue rozzezze è qualcosa che nuota nelle acque vorticose del mutamento mentre gli altri, i vecchi partiti, ci annaspano. La Lega sa nuotare nel movimento perché è nata da quelli che si muovono: da quelli che non capiscono più le vecchie distinzioni tra destra e sinistra fra classi alte e classi basse e non perché queste diversità abbiano cessato di esistere, ma perché devono essere risolte nella pratica e nella innovazione fuori dalle false ideologie. La Lega con il federalismo, con la lotta al centralismo ha capito che oggi uno stato in cui la legge è spesso falsa legge e schiaccia i cittadini non è più sopportabile perché la gente vuole che lo stato sia sottomesso alla volontà dei cittadini.
  • Credo di conoscere abbastanza, dato che ci lavoro da mesi, la Lega nei suoi difetti, nei suoi comportamenti da "mucchio selvaggio", nella navigazione spesso contraddittoria del suo leader. E non mi sento assolutamente in grado di prevedere quello che farà come primo partito dell'Italia del Nord e come uno dei due o tre partiti che ci governeranno nei prossimi anni. Ma il fatto che senza la Lega Di Pietro, come dice Bossi, "sarebbe stato mandato a spaccar sassi in Sardegna", che senza la Lega due terzi dei deputati socialisti e democristiani sarebbero ancora convinti di essere dei rappresentanti del popolo italiano e non degli zombi mi fa tranquillamente dire: "Grazie barbari".

Per il centenario del calcio a Cuneo

in Gualtiero Franco, Da cent'anni nel pallone una storia in biancorosso, Madonna dell'Olmo, Edizioni Agami, 1998

  • La Cuneo in cui nacque il gioco del calcio apparteneva alla civiltà del legno. Il campo, in piazza Regina Elena già Cavalleria aveva tribune di legno, era circondato da un passamano di legno e veniva chiusa al traffico, in occasione delle partite, da tavolati di legno, sorpassati o sotto passati da noi "gagnu", ragazzini, appena i sorveglianti delle porte se ne erano andati a guardare la partita, come tutti. Erano gli urli degli spettatori a farci volare oltre i tavolati, a farci strisciare sotto a infilarci a forza fra le schiene e le gambe degli anziani. Non c'è mai stato al mondo credo un campo da calcio così casalingo più che cittadino, specie per chi ci abitava come i Paschiero o noi Bocca che stavamo a cento metri ed eravamo lì da mattino a sera a correre dietro un pallone.
  • Si stava vivendo negli anni trenta la storia del calcio italiano campione del mondo ma c’era stata anche una preistoria di quella favolosa Alta Italia che aveva vinto un campionato italiano dei dilettanti, non sapevamo bene quale ma leggendaria con la maglia a strisce bianco e nere come quelle della Juventus, stessa buona borghesia anglofila, basta leggere i nomi della formazione del 1920: Rattalino, Fiorio, Giriodi, Borra, Cantona, tutte buone famiglie con casa sul viale degli Angeli. La Cuneo Sportiva o Associazione Calcio Cuneo in cui arrivai nel 1939 mi pare dopo aver rischiato le gambe in tutti i tornei provinciali degli avanguardisti o di giovani fascisti del fascismo cuneese più vicino alla sagra del castagno che alla Marcia su Roma aveva due caratteri precisi, il rapporto stretto con la Liguria e quello intimo con la città.
  • Per noi di Cuneo non c’erano contratti e stipendi. Semplicemente si passava dal calcio di cortile e di strada a quello che aveva una maglia, un nome uno stemma. E io che avevo come altro sport lo sci, giocavo fino a dicembre e poi arrivata la neve sparivo fino ad aprile o maggio quando allenatori e dirigenti mi riprendevano senza neppure protestare perché quella mia appartenenza alla squadra era qualcosa di naturale, mi spettava per nascita, non per contratto.

Il filo nero[modifica]

  • Siamo l'unico paese moderno in cui un sistema politico, il fascismo, dato per morto e sepolto il 25 aprile 1945, ha visto tornare al governo nel 1994 un partito neo o postfascista che ne ha ereditato direttamente idee, costume, forme. (cap. I, p. 9)
  • Spesso chi parla di democrazia italiana dimentica semplicemente questo: che in un buon terzo del paese la democrazia è impossibile, perché un sistema fondato sulle regole del gioco, sul rispetto delle leggi, affidato ai cittadini più che alle istituzioni, non può esistere dove l'antistato è più forte dello stato e dove la legge della giungla, della forza, della violenza si impone sovrana. Anche oggi, 1995, essere democratici a Palermo, Catania, Reggio Calabria, Bari, Napoli è una forma di eroismo civile più che una scelta politica. (cap. I, pp. 41-42)
  • Mussolini per togliersi dai piedi il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di val Cismon, un monarchico torinese di nessun seguito, gli inventò un posto di governatore del Dodecaneso. (cap. II, pp. 57-58)
  • L'Italia non è solo un paese lungo, è un paese antico dove il meraviglioso pagano si è trasfuso nel miracoloso cattolico e in cui il papa è il vero re con cui bisogna comunque andare d'accordo, o con il Concordato o con la sua riconferma nella costituzione repubblicana, articolo 7, approvato da tutti i comunisti materialisti e atei salvo la Teresa Noce e il professor Concetto Marchesi. (cap. II, p. 83)
  • La condizione di Salò è povera e umiliante: un duce prigioniero delle SS, attorno a lui un nido di vipere, di gelosie, di assurdi appetiti, un esercito diviso fra milizie di partito, compagnie di ventura, sopravvissuti della casta militare. E poi l'odio popolare, la stanchezza. Ma allora perché i giorni di Salò sono rimasti per i reduci «la stagione della verità»? Forse nel suo essere come sospesa nel vuoto c'era qualcosa di miracoloso, come una risurrezione del cadavere decomposto del fascismo di regime di un fascismo, sofferente ma vivo, che senza Salò sarebbe scomparso. Ecco, la repubblica fu vissuta e poi ricordata non come un periodo concluso, ma come un ponte, come la prova che le porte della storia non si sarebbero chiuse alle spalle di Mussolini. (cap. III, p. 116)
  • [...] il MSI naviga a vista ora su posizioni fortemente antiamericane, antiatlantiche, ora come cane da guardia dell'alleanza anticomunista, ora dando spazio alla sua sinistra, ora ricorrendo a perbenisti come il commercialista Michelini che nel MSI è l'equivalente dei Grandi e dei Federzoni, i notabili conservatori del regime [fascista]. (cap. IV, p. 129)
  • Per alcuni decenni la sopravvivenza del MSI è affidata alle doti camaleontiche di dirigenti come Giorgio Almirante, figlio di teatranti, dotato di qualità istrioniche e di eleganza da capocomico, con occhi azzurri. Tocca a lui e a quelli come lui guidare il doppio gioco fra il neofascismo parlamentare che naviga nel sottogoverno e quello mistico o violento che va bene alla borghesia d'ordine per tenere a bada i rossi. (cap. IV, p. 141)
  • Passano gli anni, cambia il mondo, ma il MSI continua a essere identico nel suo camaleontismo, reazionario e populista, presente nei salotti dell'aristocrazia nera di Roma come nelle borgate, protettore dei violenti e ovazionato dai pellicciai, lo stesso partito di quelli che negoziano con ministri democristiani e degli altri che hanno scritto sulla porta delle loro sedi: «Vietato ai cani e a Michelini[31]», legittimo e illegittimo. (cap. IV, pp. 143-144)
  • Una democrazia che antepone rigorosamente la libertà agli interessi costituiti non è mai esistita e probabilmente non esisterà mai. Le costituzioni democratiche contengono utopie manifeste come quella degli Stati Uniti per cui «gli uomini hanno il diritto inalienabile alla vita e alla libertà» il che è comprensibile, ma anche «alla ricerca della felicità» che francamente sembra un po' troppo. Però si dice che queste utopie, questi sogni servono a dar animo e spinta. (cap. VI, pp. 176-177)

Il viaggiatore spaesato[modifica]

  • Sono debitore ai miei gatti di rare beatitudini. A fine pranzo [...] stanno sdraiati pancia in su, in quest'aria casalinga di amore cui cedono anche i gatti di pelo grigio. È il momento in cui sogni felini passano per le loro teste triangolari, in cui a occhi socchiusi guardano ciò che noi non vediamo, forse un dio con la faccia a triangolo e i baffi. (pp. 42-43)
  • Ti arrivano [i gatti] di un balzo sul petto e ci si insediano come la sfinge, per l'eternità. Sì, forse mi vogliono bene, ma sempre dopo i loro desideri e gli scatti e gli scarti di belva domestica, che vive con gli umani senza rinunciare a nulla della sua naturale innocente ferocia. (p. 43)
  • Quando uno di loro gioca con il topo dominato da quegli occhi gialli e lo «totticchia», lo lascia muovere di un centimetro per riprenderlo con la zampina fulminea, lo vedi come preso dalla casualità della vita e della morte di cui è padrone e vittima, nessuno più di un gatto è conscio delle alterne sorti. Non c'è nulla che abbia deciso di fare che tu possa cambiargli in quella testa. (p. 43)
  • Tutto ciò che un gatto può fare di buono, hanno l'aria di dire i miei gatti, lo facciamo, [...] se apriamo la porta della tua stanza da letto, non è per disturbarti ma per dormicchiare qualche ora in compagnia. Quando ti guardiamo in attesa del cibo con occhi di disperato, irresistibile desiderio è perché siamo fatti così, e non lo nascondiamo. (p. 44)

L'italia l'è malada[modifica]

  • Qualunque cosa faccia il "tipo Silvio" l'idea del tornaconto personale è totale, quella del bene pubblico è assente. Silvio ha cercato di fondare il partito liberale di massa, sul principio reaganiano che la somma degli egoismi individuali fa la ricchezza della nazione. Anche noi, i diversi da Silvio, coltiviamo i nostri egoismi ma siamo arrivati a capire che senza disciplina comune, senza legge comune, senza educazione comune non esiste vera società, vero stato.
  • Che cosa ci offre il cavaliere? In pratica la libertà di tacere, se no di essere estromessi dagli uffici pubblici e dall'informazione.
  • La grande vittima della giustizia di parte, il cavaliere di Arcore, per sfuggire al "complotto" giustizialista ha ingaggiato novantotto grandi avvocati e trentadue consulenti affinché lo difendessero dai giudici "comunisti" di cui all'inizio di Mani pulite era il massimo estimatore.
  • Non si può dire che Berlusconi sia un fascista: è qualcosa di peggio, un anarcoide piccolo borghese.

Napoli siamo noi[modifica]

Incipit[modifica]

Ci fermiamo per fare benzina, subito fuori dall'aeroporto di Capodichino e nella luce agostana viene giù un piovasco tiepido. "È un sole acqua," dice il tassista che ha una bella faccia feroce e istrionica. "Un sole acqua," ripete compiaciuto. Vedo che non ha inserito il tassametro, ma non è che voglia rubare molto sulla corsa, uno o due euro, purché sia lui a deciderlo, lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi. Scendiamo per la tangenziale, una lunga strada dall'aeroporto al mare, là in fondo il Vesuvio a gobbe da cammello. La più insanguinata strada di Napoli perché la città per cui passa è divisa fra i clan della camorra; le rese dei conti avvengono nei punti di confine, rapide sparatorie, scontri e fughe su motociclette potenti, e, a cose fatte, arrivano i "falchi", i poliziotti motociclisti o gli "zingari", come chiamano i carabinieri in divisa nera.

Citazioni[modifica]

  • Napoli adagiata sul golfo è stupenda, ci si chiede se anche questa bellezza non faccia parte della maledizione della città, non faccia parte del prezzo spaventoso che paga per esistere. (p. 6)
  • È possibile a Napoli pranzare in un educato silenzio, magari prendendo appunti di quel che ti dice un tuo commensale? No, non è possibile, perché "pur isso adda campa'". Isso è uno con la chitarra che si avvicina al tuo tavolo, sorridendo fra i sorrisi affettuosi dei camerieri suoi amici. (p. 30)
  • Per secoli Napoli, capitale del regno, è stata una metropoli che lo stato borbonico riusciva a governare solo grazie alla camorra. (p. 37)
  • E a Napoli non si sa mai se sia una recita o se si faccia sul serio. (p. 84)

Palmiro Togliatti[modifica]

Incipit[modifica]

Palmiro Togliatti è ricordato come uomo freddo, scostante, che portava occhiali da professore, parlava con voce nasale, un intellettuale avaro nei sentimenti, un politico scaltro che conosceva la langue russe, cinico. Resta allora da spiegare perché l'Italia proletaria fu pronta all'insurrezione armata quando si attentò alla sua vita, e perché milioni di italiani di ogni ceto ebbero il sentimento, nel giorno della sua morte, che con lui se ne andava uno dei padri della Repubblica e, comunque, uno cui si era debitori di mutamenti importanti.

Citazioni[modifica]

  • Tasca ha convincimenti politici in parte dissenzienti da quelli gramsciani, quindi per tutta la storia togliattiana del binomio perfetto Gramsci-Togliatti sarà la palla al piede del gruppo, colui che non ha capito, che ha sbagliato. Oggi, con un ragionamento altrettanto astratto, si potrebbe dire, a posteriori, che su molti punti Tasca ha avuto più ragione di Gramsci; e si potrebbe dire per esempio che il «partito nuovo» fabbricato da Togliatti nell'Italia postfascista è più vicino a una politica taschiana che non a quella gramsciana dei Consigli[32]. (cap. 3, p. 46)
  • [...] Tasca ha nell'«Ordine Nuovo»[33] una posizione politica e culturale seria, rispettabile, la posizione di chi conosce le tradizioni del socialismo italiano e non vuole buttare alle ortiche le idee che il socialismo ha prodotto nell'Europa occidentale, in Italia e in Francia in particolare. (cap. 3, p. 46)
  • Ma il fatto esemplare, la spinta decisiva [nella campagna per il fronte unico] la danno i francesi: nell'ottobre '34 Thorez propone al comitato che coordina le azioni del Partito comunista e socialista di estendere l'intesa ai radicali e ripete l'appello il 26 ottobre a Nantes anche se sconsigliato «da un dirigente di un partito fratello»,[34] e cioè Togliatti, venuto, forse, per conto dell'IC[35] a raccomandare prudenza. Sta di fatto che data dal 1934 una forte antipatia di Thorez verso Togliatti che continuerà fino alla morte. (cap. 11, p. 228)
  • Coloro che vivono attorno a Stalin sono, in un modo o nell'altro, stalinisti; lo sono per sempre, e la ragione fondamentale per cui si riconoscono nello stalinismo e ne accettano tutte le conseguenze è che ne condividono i princìpi e la logica. Coloro che si oppongono a Stalin, se manda a morte i vecchi bolscevichi, sono gli stessi che hanno trovato giusto e naturale lo sterminio dei menscevichi e la strage dei contadini, i buchariniani che si lamentano per la durezza dell'autocrate sono i medesimi che hanno assistito ai pubblici processi, alle persecuzioni degli intellettuali, all'affissione degli elenchi dei "criminali", senza distinzione fra delinquenti comuni e oppositori politici; sono gli stessi che fino al 1928 o '29 hanno avallato la politica del terrore silenzioso, invisibile agli stranieri. (cap. 12, p. 240)
  • Lo stalinismo ha i suoi fascini mortali, fra cui, irresistibile, quello del potere totale. (cap. 12, p. 240)
  • Togliatti è uno stalinista educato, colto. Estraneo alla condizione russa, alle tradizioni russe, non vede per alcuni anni la necessità di estendere a tutto il movimento comunista il modello russo; poi si rassegnerà, ma senza lasciarsi convincere fino in fondo. Non è che egli discuta o ripudi i grandi tagli staliniani imposti con la "giusta" e necessaria violenza; è che non sente le necessità di aggiungere terrore a terrore, rimane esente da manie persecutorie, padrone degli istinti canaglieschi, normale quanto a intelligenza. Ed è questa sua normalità in un mondo deformato dalla follia o dalla tragedia che lo fa apparire più democratico di quanto in realtà non sia. (cap. 12, pp. 253-254)

Partigiani della montagna[modifica]

Incipit[modifica]

Il colpo di stato del 25 luglio, per cui tutti i poteri dalle mani di Mussolini, ritornarono e si accentrarono nella monarchia, ebbe come caratteristica ben definita di essere opera di uno stretto numero di persone. Fu la cerchia dei generali, dei grandi industriali, dei funzionari di corte, a preparare ed attuare il colpo di stato, a regalare, una bella mattina, al popolo italiano una sottospecie di libertà.

Citazioni[modifica]

  • Attraverso la somma dei sacrifici e dei dolori sopportati, col grandioso apporto dato alla causa della libertà, con i risultati militari ottenuti, il movimento partigiano è riuscito ad assumere un significato morale di valore altissimo. Ha riscattato dinnanzi al mondo, insieme a coloro che nei campi di Germania tennero fede alla loro patria, la dignità del popolo italiano; ha dimostrato ben altrimenti, che generiche e facili affermazioni verbali, la sua volontà di essere un popolo libero degno di essere riammesso nella vita delle libere nazioni. (p. 147)
  • Come aveva intuito Vittorio Foa, la politica partigiana era la politica delle larghe alleanze democratiche già sperimentata nella guerra di Spagna. In sostanza un riformismo socialdemocratico che per la prima volta annullava le millenarie divisioni di classe facendo rientrare tra i cittadini di pieno diritto gli operai e i contadini. (pref., 2004, p. 8)
  • C'è una campagna di denigrazione della Resistenza: diretta dall'alto, coltivata dal cortigiano. Il loro gioco preferito è quello dei morti, l'uso dei morti: abolire la festa del 25 aprile e sostituirla con una che metta sullo stesso piano partigiani e combattenti di Salò, celebrare insieme come eroi della patria comune Giacomo Matteotti, ucciso dai fascisti e il filosofo Gentile, presidente dell'accademia fascista, giustiziato dai partigiani, onorare insieme le vittime antifasciste della risiera di San Sabba e quelle delle foibe titine. Proposte da comitati di reduci che evidentemente non hanno mai sentito parlare dei lager in cui i fascisti, prima e dopo l'armistizio, hanno chiuso migliaia di cittadini colpevoli unicamente di essere di etnia slovena. (pref., 2004, p. 13)
  • Ma la democrazia dov'è? Che democrazia è questa autoritaria che si va affermando nel nostro paese? Ai suoi sostenitori basta che il governo non apra i suoi lager, che non fucili gli oppositori, che non soffochi tutte le voci critiche per gridare che la democrazia è salva. Ma la mutazione autoritaria è sotto gli occhi di tutti, anche dei rassegnati o indifferenti: i personaggi della televisione invisi al potere cacciati o tacitati, gli autori dei libri all'indice berlusconiano esclusi dalla televisione e ignorati dai giornali, i dirigenti di qualsiasi ufficio o istituzione, dalle fiere campionarie agli enti lirici, scelti dal padrone, i disegnatori satirici ostili al potere emarginati, i cortigiani imposti. (pref., 2004, p. 14)
  • Assistiamo a un revisionismo reazionario che apre la strada alla democrazia autoritaria, da noi e nel resto del mondo. Uno di quei cicli storici che dimostrano che anche la libertà ha le sue stagioni.[...] C'è stata una mutazione capitalistica, una rivoluzione tecnologica di effetto obbligato: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri ed emarginati. È questa la ragione di fondo per cui la Resistenza e l'antifascismo democratico appaiono sempre più sgraditi, sempre più fastidiosi al nuovo potere. Padroni arroganti e impazienti non accettano più una legge uguale per tutti, la legge se la fabbricano ad personam con i loro parlamenti di yes-men. (pref., 2004, p. 16)
  • Ciò che può compiere un partigiano, indipendentemente da valutazioni di valore personale, è differente da ciò che può compiere un soldato di un reparto regolare. Chi crea è diverso da chi esegue, chi fa volontariamente una cosa è differente da chi vi è costretto, chi persegue un ideale costruttivo non è eguale a chi soddisfa un precetto legale. Nel secondo potrà esistere volontà e determinazione, ma difficilmente entusiasmo. (p. 29)

Storia dell'Italia partigiana[modifica]

Incipit[modifica]

La guerra dell'Italia partigiana incomincia quando finisce la guerra del regime, l'armata partigiana si forma dopo la disfatta di quella regia e fascista. Nessun comparto organico, sia pure un semplice plotone, passa compatto ai ribelli.[36]
L'esercito regolare muore per dissanguamento e per abbandono: schiacciato da una guerra più grande di lui, ma anche lasciato a sé, nelle ore di agonia, dal re e dal comando supremo.

Citazioni[modifica]

  • Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo è un ufficiale virtuoso e capace. In vita e in morte lui e i suoi più stretti collaboratori sono degni di ammirazione. Ma il giudizio storico sul movimento, il giudizio dei fatti è negativo: esso è un freno alla Resistenza nazionale, un motivo di confusione e di paralisi. (Parte prima. VI Il ribellismo, p. 96)
  • Montezemolo è un eroe fatto per un tempo risorgimentale e per le sue obbedienze; per la Resistenza è un capo discutibile. È stato lui a dettare la circolare del pessimismo badogliano: «In Italia terreno e popolazione poco si prestano alla guerriglia...» (Parte seconda. XVII Roma non insorge, p. 284)

Storia della Repubblica italiana[modifica]

Incipit[modifica]

La grande festa partigiana dura dieci giorni, dal 25 aprile del 1945 al 5 di maggio: di giorno a stanare gli ultimi cecchini e a compiere le ultime vendette, di sera a ballare, nei municipi, nelle caserme, nei castelli. Il fascismo di regime e la repubblica di Mussolini a Salò sono finiti; dopo oltre venti anni, bastano dieci giorni a spegnere le speranze e le illusioni dell'esercito partigiano che per venti mesi ha combattuto contro tedeschi e fascisti.

Citazioni[modifica]

  • Le ragioni per cui i giovani intellettuali che hanno guidato le formazioni Giustizia e Libertà dedicano a Parri, nome di battaglia «Maurizio», una sorte di venerazione, sono molteplici e si riconducono al concetto di uomo completo che in lui sembra incarnato: è uomo di coraggio che ha guadagnato in guerra due medaglie d'argento; è uomo di cultura moderna che negli anni trascorsi durante il fascismo nell'ufficio studi della Montecatini ha seriamente studiato i problemi economici del Paese; è un antifascista quasi leggendario, ha partecipato all'evasione di Turati, è stato condannato al processo di Savona[37] ed è stato «Maurizio», il comandante padre dei giorni partigiani, il signore dimesso, dai capelli bianchi e dalla voce nasale che ha insegnato ai giovani qualcosa di quasi sconosciuto nell'Italia fascista e anche in quella crociana: uno humour, una capacità di modestia nell'orgoglio, di misura nella decisione tenace, diciamo una umanità inconsueta nell'Italia tribunizia e massimalista. (vol. 1, Gli anni della rinascita, p. 14)
  • Il personaggio dominante del sindacalismo italiano del dopoguerra è Giuseppe Di Vittorio. Figlio di un bracciante pugliese, bracciante semianalfabeta arriva giovanissimo nell'anarcosindacalismo. Combattente nella prima guerra mondiale, ferito a Monte Zebio, si incontra poi con il gruppo torinese di Gramsci e di Togliatti e diventa uno dei dirigenti del Partito comunista seguendo la sua storia tempestosa e sinuosa, dalla lotta fronte contro fronte degli anni Trenta, con tutto il suo settarismo antisocialista, alla guerra di Spagna, al Fronte popolare, alla Resistenza. Come gli altri dirigenti del PCI Di Vittorio passa in questi anni da posizioni massimaliste a posizioni possibiliste e riformiste, ma conservando sempre un rapporto con la società reale, con i suoi bisogni, con le sue speranze, conservando sempre quel rispetto per l'uomo che lo stalinismo aveva completamente cancellato. (vol. 2, La società industriale, pp. 70-71)
  • [...] a ben pensarci l'impatto grandissimo che Adriano Olivetti e la sua fabbrica di Ivrea hanno sulla cultura italiana del dopoguerra è che in buona sostanza sono l'unico fatto veramente nuovo, che segna un distacco netto dalla cultura tradizionale italiana: la scoperta della cultura industriale anzi della civiltà industriale. (vol. 2, La società industriale, p. 224)
  • Una cosa che manda in bestia la cultura tradizionale e il padronato è che Olivetti si comporta come un principe rinascimentale: invece di fermarsi agli ingegneri e ai tecnici per fabbricare macchine per scrivere, lui raccoglie attorno a sé architetti, pittori, disegnatori industriali, giornalisti, letterati perché ha fatto un'altra scoperta scandalosa per l'Italia di allora: che la libera circolazione delle idee e dei talenti è necessaria alla produzione quanto la competenza tecnica. (vol. 2, La società industriale, p. 226)
  • La confusione democristiana tocca il fondo nelle elezioni siciliane del '58. Silvio Milazzo, un protetto di don Sturzo, insofferente della stretta egemonia fanfaniana progetta un'operazione disinvolta al punto da apparire cinica: una grande alleanza fra destra e sinistra. Milazzo vince le elezioni con i voti dei monarchici e dei fascisti, dei comunisti e dei socialisti. Fanfani gli ordina di dimettersi, ma Milazzo rifiuta, fonda un suo partito scissionista, l'Unione sociale cristiana siciliana. Il caso Milazzo si chiuderà anche per l'intervento della gerarchia ecclesiastica preoccupata di mantenere l'unità del partito cattolico, ma aprirà una serie di conflitti interni alla DC da cui Fanfani sarà logorato. (vol. 2, La società industriale, pp. 334-336)
  • Paolo Bonomi è un altro dei mediocri che la filosofia dorotea innalza a poteri sommi. Non è un politico, non è un intellettuale, non è un sovversivo, non ha tradizioni, non ha cultura, è semplicemente l'uomo adatto ad organizzare la base di un potere grigio. (vol. 3, Il centro sinistra, p. 40)
  • Il fisico italiano Gilberto Bernardini ha cessato di essere scienziato italiano per diventare scienziato europeo al centro ginevrino di Meryn. Piccolo, magro, un ciuffo di capelli sempre scomposto, il suo ufficio a Meryn assomiglia a un comando di operazioni militari; è da qui che i vari gruppi di ricercatori vengono mandati all'attacco dei problemi. Il generale, il capo, il coordinatore è lui il piccolo fisico italiano. (vol. 4, Dal '68 al terrorismo, p. 16)
  • Gli intellettuali italiani, pessima razza, quasi sempre irresponsabile politicamente, ma pronta a saltare su tutte le mode, fa del '68 un suo show, giustamente spernacchiata dai giovani. (vol. 4, Dal '68 al terrorismo, p. 85)
  • Dopo il maggio francese tutti si sentono in dovere di scioperare: scioperano, non si sa contro chi, tutti gli attori di teatro guidati da un «mattatore» come Gassman[38] che ha incassato centinaia di milioni per film commerciali. (vol. 4, Dal '68 al terrorismo, p. 85)
  • Lotta Continua è l'organizzazione più articolata e complessa del movimento, la più raziocinante, la più fornita di dirigenti colti. La prima a capire che gli estremismi rozzi degli autonomi e l'insurrezionalismo vetero-sovietista di Potere Operaio e discendenti non hanno alcuna possibilità di affermarsi. (vol. 5, Terrorismo e «caso Moro», p. 24)
  • La data storica della rivoluzione culturale e della sovversione giovanile italiana è fissata per l'eternità nel '68, il bel '68 subito mitizzato. E certamente il '68 ha le sue grosse e decisive responsabilità come rivelatore e come autore della grande destabilizzazione. Ma non dimentichiamo che è un altro anno, il 1977, a portare le grandi e definitive rotture, a creare una situazione da guerra civile. Sì, il '68 come il Quarantotto risorgimentale[39] è il periodo in cui tutte le carte vengono rimescolate, ma il '77 è quello in cui gli opposti e i diversi si separano, si scontrano, si lacerano, l'anno in cui molti giovani rompono definitivamente con il Partito comunista, con il sindacato, con la cultura operaia. (vol. 5, Terrorismo e «caso Moro», p. 25)
  • Gli italiani usciti dal regime fascista e militarista si accorgono che esiste il problema degli obiettori di coscienza quando Pietro Pinna nel 1948 si rifiuta di fare il servizio militare affermando che per motivi religiosi egli non vuole portare le armi ed uccidere. (vol. 5, Terrorismo e «caso Moro», p. 102)
  • Nessuno sembra accorgersi che rispetto ai precedenti segretari Craxi ha delle idee chiare e una strategia precisa: ritrovare piena autonomia nei confronti sia del Partito comunista, sia della Democrazia cristiana. Insomma quest'uomo di apparato, di potere, di manovre autoritarie è però il primo dopo la Liberazione che veda nel PSI un partito capace di camminare sulle sue gambe. (vol. 6, La crisi delle Istituzioni, p. 76)
  • Signorile ha molte qualità: è giovane, intelligente, ambizioso, umanamente aperto. Ma pecca di ingenuità, si azzarda a giocare partite pericolose al di sopra delle sue forze, compie delle piccole gaffes giornalistiche che i suoi avversari ingigantiscono. Dove cade e maldestramente è sull'affare ENI-Arabia Saudita, una delle tante operazioni commerciali su cui i partiti e le correnti dei partiti si ritagliano delle tangenti. Questa però è di una tale dimensione – si parla di 120 miliardi – da far ingaggiare nel partito una lotta di vita e di morte. (vol. 6, La crisi delle Istituzioni, p. 80)
  • Licio Gelli nasce come piccolo carrierista: impiegato nella federazione fascista di Pistoia riesce ad accumulare cariche, anche quella di factotum del gruppo universitario fascista pur non avendo fatto la scuola media. Neppure la guerra gli serve per ottenere un diploma: si presenta a un esame di ragioniere e viene solennemente bocciato. Nasce qui però la sua vocazione di archivista e di ricattatore: il federale di Pistoia lo porta con sé a Cattaro in Montenegro: l'operazione a cui è destinato è di quelle redditizie. Deve far la guardia al tesoro della Banca Nazionale di Jugoslavia. Lo fa così bene che quando esso sarà restituito a Tito si troverà che mancano venti tonnellate d'oro e un milione di sterline. (vol. 6, La crisi delle Istituzioni, p. 196)
  • Dire che papa Wojtyla è un papa reazionario o conservatore è una semplificazione. È un papa diverso da quelli che gli italiani conoscono: non ha la mitezza di Luciani[40], non ha la sapienza dubbiosa e sofferta di Paolo VI, non ha la simpatia e la generosità di Giovanni XXIII; ma non si può neppure dire che sia un papa all'antica di quelli che guardano dal soglio di San Pietro all'esercito dei fedeli come a qualcosa che non ha nome, né personalità. Wojtyla conosce il senso del collettivo, delle masse come lo conoscono i capi autoritari e rivoluzionari. Ma invece di ripetere il grido di Bakunin «Io non sono io, io sono voi», invece di parafrasare i detti autoritari dei capi «Voi siete me e io sono voi» dice «Non io, ma tu e tu e tu» non l'egoismo, il narcisismo, il superomismo, ma neppure il collettivismo che appiattisce, neppure il «volgo che nome non ha», ma una società di uomini ognuno dei quali ha la sua dignità, la sua responsabilità. (vol. 6, La crisi delle Istituzioni, p. 245)

Explicit[modifica]

Che dire di questa Repubblica al termine di questa voluminosa storia? Che è cresciuta, ma che non si sa bene come finirà. Che ha messo tutte le premesse per essere uno Stato moderno, uno Stato civile, ma in un mondo che sta sotto la minaccia atomica, dentro la sfida ecologica. Se il resto del mondo non crolla, questa Repubblica appare di gran lunga migliore di tutte le Italie precedenti. Un po' più noiosa forse, meno epica, ma enormemente più comoda.

Citazioni su Giorgio Bocca[modifica]

  • Fra i giornalisti che hanno svolto prestazioni professionali per me c'è pure il grande moralizzatore Giorgio Bocca. Purtroppo ho potuto pagarlo troppo poco: pretendeva troppi soldi. (Paolo Cirino Pomicino)
  • Giorgio Bocca può essere raccontato anche in poche parole. Il suo è stato un grande giornalismo, ma anche una grande faziosità e anche grandi errori. Abbiamo lavorato insieme negli stessi giornali, a cominciare dal Giorno per concludere, poi, tanti anni a Repubblica, L'Espresso, ma non siamo mai stati amici. Bocca era un tipo d'uomo complesso: non amava avere concorrenti e neppure contraddittori. Abbiamo combattuto molte guerre uno contro l'altro, inutile rievocarle. Oggi Giorgio è scomparso. Non so se mancherà all'Italia come dice qualcuno dei suoi colleghi di Repubblica, però certamente lascerà un vuoto... che io, però, non rimpiango. (Giampaolo Pansa)
  • Giornalista d'istinto. Capace di rendersi simpatico e antipatico. Lo incontrai a Macao, lo portai in giro, lo aiutai. Il giorno dopo lessi nel suo articolo: "C'è qui anche il decadente Bettiza..." (Enzo Bettiza)
  • In un'intervista alla Stampa, Giorgio Bocca ha detto che io sono un bravissimo giornalista che non capisce nulla di politica. Bocca non mi delude mai: riesce sempre a dire di me quello che io penso di lui. (Indro Montanelli)

Note[modifica]

  1. Da Il Giorno, 23 febbraio 1975.
  2. Da La Sicilia del bandito Giuliano, repubblica.it, 4 luglio 2000.
  3. Da Venerdì de la Repubblica, 14 dicembre 2007.
  4. Citato in Campioni del Mondo di trame e vendette, L'espresso, 6 agosto 2006.
  5. Da Mattei l'uomo mistero, la Repubblica, 3 agosto 2000, p. 42.
  6. Citato in Chi ha paura del cardinal Bagnasco, L'espresso, 25 maggio 2007.
  7. Dall'intervento al Premio "È giornalismo" 2008.
  8. Citato in Negri, parole - pallottole, la Repubblica, 14 gennaio 1993.
  9. Da Candeline d'oro su quella torta chiamata Catania, ricerca.repubblica.it, 29 marzo 1988.
  10. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/11/02/quel-terzo-mondo-nel-sud-italia.html?ref=search
  11. a b Citato in La valigia di Meazza, la Repubblica, 7 luglio 2006.
  12. a b c d Da Il padrone bianconero, Repubblica.it, 13 maggio 2006.
  13. Da Cadreghe e cadreghini, la Repubblica, 8 dicembre 1984.
  14. Citato in Pandemonio – Il Miraggio della New Economy, Mondadori, 2000.
  15. Da Venerdì de la Repubblica, 14 dicembre 2007.
  16. Da Il maresciallo del compromesso, in Storia illustrata, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, n. 211, giugno 1975, p. 21.
  17. Da Il maresciallo del compromesso, in Storia illustrata, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, n. 211, giugno 1975, p. 21.
  18. Da La Provincia grande – Sentinella d'Italia, Foglio d'ordini settimanale della Federazione dei Fasci di Combattimento di Cuneo, 14 agosto 1942.
  19. Citato in È faziosa l'informazione di Rai Tre?, L'Espresso, 18 febbraio 1991.
  20. Citato in Ilaria Ester Ramazzotti, Aldo, la storia triste del figlio ebreo di Palmiro Togliatt, BEt Magazine Mosaico, 9 gennaio 2020.
  21. Citato in Dario Fertilio, Nessuno capisce più quello che dicono i nipotini di Togliatti, Corriere della sera, 30 maggio 1994.
  22. Da Il maresciallo del compromesso, in Storia illustrata, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, n. 211, giugno 1975, p. 25.
  23. Citato in «Le nostre questioni private», La Stampa, 3 giugno 1997, p. 14.
  24. Da Me Grand Turin, di Sauro Tomà, Graphot Editore – Torino.
  25. Citato in Bocca e Montanelli a duello causa Orlando, Corriere della sera, 23 gennaio 1993.
  26. Citato in Pierluigi Battista, Da Buzzati a Flaiano autori senza ideologia, Corriere.it, 11 luglio 2010.
  27. 1976; citato in Peter Gomez, Ciancimino: i soldi della mafia per la Milano2 di Berlusconi, il Fatto Quotidiano, 2 febbraio 2010.
  28. Da Quattroruote, 1986; citato in Vittorio Ghidella, il padre della Uno, quattroruote.it, 9 aprile 2020.
  29. Da un'intervista a Daria Bignardi nel programma Le invasioni barbariche, LA7, 10 dicembre 2010; citato in Giorgio Bocca: "Vespa non è un giornalista, è un servo di regime", il Fatto Quotidiano.it, 11 dicembre 2010.
  30. Da È la stampa, bellezza!, Feltrinelli Editore, 2008.
  31. Arturo Michelini (1909 – 1969), segretario del MSI dal 1954 al 1969.
  32. Consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi.
  33. Periodico fondato a Torino nel 1919 da Antonio Gramsci e altri intellettuali socialisti torinesi.
  34. M. Hayek, Storia dell'Internazionale comunista, Roma 1969, p. 273. [N.d.A., p. 633]
  35. Internazionale Comunista o Comintern.
  36. Duccio Galimberti, Esame sulla situazione militare, relazione a Parri, in «Resistenza», XVIII, 11 novembre 1964, p. 4. [N.d.A., p. 535]
  37. Processo celebrato nel 1927 contro gli organizzatori dell'evasione del leader socialista Filippo Turati.
  38. Nel testo "Gasmann".
  39. Il 1848, primavera dei popoli.
  40. Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I.

Bibliografia[modifica]

  • Giorgio Bocca, Il filo nero, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1995, ISBN 88-04-40092-7.
  • Giorgio Bocca, Il viaggiatore spaesato, Mondadori, 1998.
  • Giorgio Bocca, L'italia l'è malada, Feltrinelli, 2005.
  • Giorgio Bocca, Napoli siamo noi, Feltrinelli, 2006.
  • Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Oscar Storia, Mondadori, 2005. ISBN 88-04-42493-1.
  • Giorgio Bocca, Partigiani della montagna (1945), Feltrinelli, Milano, 2004.
  • Giorgio Bocca, Storia dell'Italia partigiana settembre 1943 - maggio 1945, Oscar Storia, Mondadori, 2011.
  • Giorgio Bocca, Storia della Repubblica italiana, 6 voll., Rizzoli Editore, Milano, 1981.

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