Jean-Jacques Rousseau

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Jean-Jacques Rousseau

Jean-Jacques Rousseau (1712 – 1778), filosofo, scrittore e musicista svizzero.

Citazioni di Jean-Jacques Rousseau[modifica]

  • Conosco troppo gli uomini per ignorare che spesso l'offeso perdona, ma l'offensore non perdona mai.[1][2]
  • Dei bei colori, ben sfumati, piacciono alla vista, ma questo piacere è puramente di sensazione. È il disegno, è l'imitazione che conferisce vita e anima a questi colori, sono le passioni che essi esprimono che riescono a muovere le nostre, sono gli oggetti che rappresentano che riescono a colpirci. L'interesse e il sentimento non derivano dai colori in sé; i tratti di un quadro che ci commuove, ci commuovono ancora in una stampa; togliete questi tratti nel quadro, i colori non avranno piu alcuna efficacia.[3]
  • Durante è il più grande armonista dell'Italia, vale a dire, del mondo.[4]
  • La volontà generale dovrebbe provenire da tutti e applicarsi a tutti.[5]
  • Nessuno, in alcuna lingua, ha scritto un romanzo che sia pari o almeno si avvicini a Clarissa.[6]
  • Non so immaginare che un libro possa essere buono, se fa diventare buoni i suoi lettori.[7]
  • Nulla vi è di più dolce dell'uomo nel suo stato primitivo, quando posto dalla natura a uguale distanza dalla stupidità dei bruti e dai lumi funesti dell'uomo civile.[8]
  • Ognuno lavora per arrivare al riposo: è ancora la pigrizia che ci rende laboriosi.[9]
  • Si vive tranquilli anche nelle prigioni: questo è sufficiente per renderli luoghi desiderabili?[10]
  • Rousseau: «Vi piacciono i gatti?».
    Boswell: «No».
    Rousseau: «Ne ero sicuro. È un segno del carattere. In questo avete l'istinto umano del dispotismo. Agli uomini non piacciono i gatti perché il gatto è libero e non si adatterà mai a essere schiavo. Non fa nulla su vostro ordine, come fanno altri animali».
    Boswell: «Nemmeno una gallina, obbedisce agli ordini».
    Rousseau: «Vi obbedirebbe, se sapeste farvi capire da essa. Un gatto vi capisce benissimo, ma non vi obbedisce».[11]
  • Tutti, schiavi e vittime dell'amor proprio, non vivono per vivere, ma per far credere di aver vissuto.[12]

Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza[modifica]

  • Avrei voluto nascere sotto un governo democratico saggiamente temperato. (dedica alla Repubblica di Ginevra; 1994, p. 120)
  • È manifestamente contro la legge di natura, in qualsiasi modo la si definisca, che un fanciullo comandi a un vecchio, che un imbecille conduca un uomo saggio, e che un pugno d'uomini rigurgiti di superfluità mentre la moltitudine affamata manca del necessario. (1972, p. 76)
  • [...] poiché non è impresa da poco quella di sceverare ciò che vi è di originario da ciò che vi è di artificiale nella natura attuale dell’uomo, e di conoscere bene uno stato [di natura] che non esiste più, che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai, e sul quale tuttavia è necessario avere delle idee giuste per giudicare bene intorno al nostro stato presente. (prefazione; 2004, p. 29)
  • Infatti sembra che, se sono obbligato a non fare alcun male al mio simile, non è tanto perché esso è un essere ragionevole quanto perché è un essere sensibile – qualità che, essendo comune all'uomo e alla bestia, deve dare a questa almeno il diritto di non essere maltrattata inutilmente da quello. (prefazione; 2004, p. 32)
  • II primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire "questo è mio" e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: "Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!" (parte II; 2004, p. 72)
  • La volontà parla ancora quando la natura tace. (1972, p. 48)
  • Oserei quasi assicurare che lo stato di riflessione è uno stato contro natura, e che l'uomo che medita è un animale depravato. (1972, p. 46)
  • Parrebbe dunque che l'uomo, provvisto di denti e di intestini analoghi a quelli degli erbivori, si debba naturalmente collocare in questa classe, e tale opinione non solo è confermata dalle osservazioni anatomiche, ma trova largo appoggio nei monumenti dell'antichità. [...] Di qui si vede che tralascio molti elementi a favore che potrei far valere. Essendo infatti la preda quasi la sola causa di lotta fra i carnivori, e vivendo gli erbivori fra loro in una pace costante, se la specie umana fosse appartenuta a questo genere, evidentemente le sarebbe stato molto più facile sussistere nello stato di natura e il suo bisogno e le sue occasioni di uscirne sarebbero stati molto minori. (nota 5; 1971[13])

Emilio o dell'educazione[modifica]

Incipit[modifica]

Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell'uomo. Egli costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare frutti non suoi; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il cane, il cavallo, lo schiavo; tutto sconvolge, tutto sfigura, ama la deformità, le anomalie; nulla accetta come natura lo ha fatto, neppure il suo simile: pretende ammaestrarlo per sé come cavallo da giostra, dargli una sagoma di suo gusto, come ad albero di giardino.
[Jean-Jacques Rousseau, Emilio o dell'educazione, traduzione di Paolo Massimi, Armando editore, Roma, 1994. ISBN 88-7144-053-6]

Citazioni[modifica]

Libro primo[modifica]

  • Prima della vocazione dei parenti, la natura lo chiama alla vita umana. Vivere è il mestiere ch'io gli voglio insegnare. (I, I; 1942, p. 21)
  • Si pensa soltanto a conservare il proprio bambino: non è sufficiente; occorre insegnargli a conservarsi da sé quando sarà adulto, a sopportare le percosse del destino, a sfidare l'opulenza e la miseria, a vivere, se necessario, tra i ghiacci dell'Islanda o tra le rocce infocate di Malta. Usate pure ogni possibile precauzione perché non muoia: dovrà ben morire una volta; e quand'anche la sua morte non fosse effetto delle troppe attenzioni, queste sarebbero pur sempre inopportune. Non importa tanto impedirgli di morire, quanto farlo vivere. E vivere non è respirare: è agire, è fare uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte quelle parti di noi stessi per cui abbiamo il sentimento di esistere. (1994, pp. 71-72)
  • Per parte mia, non so di che malattie ci guariscano i medici, ma so di certo che ce ne inoculano di assai funeste: la viltà, la pusillanimità, la credulità, il terrore della morte. Se guariscono il corpo, uccidono il coraggio. (1994, p. 89)
  • Quando un animale è ammalato, soffre in silenzio e non dà in ismanie, né per questo si vedono le bestie patire più che gli uomini. Si obietterà che gli animali, vivendo in maniera più conforme a natura, debbono esser soggetti a minor numero di mali. Ebbene, proprio a questa maniera intendo far vivere il mio allievo; egli deve dunque trarne lo stesso profitto.
    La sola parte utile della medicina è l'igiene; e anche l'igiene, del resto, più che una scienza è una virtù. La temperanza e il lavoro sono le due vere medicine dell'uomo: il lavoro stimola il suo appetito e la temperanza gl'impedisce di abusarne. (1994, p. 91)
  • Le contadine mangiano meno carne e più legumi delle donne di città e questa dieta vegetale sembra più favorevole che contraria sia ad esse, che ai loro bambini. Ma quando allattano bambini di città, si danno loro brodi ristretti e zuppe di carne, nella convinzione che ne ricevano un nutrimento più sostanzioso e possano quindi fornire più latte. Io non sono affatto di questo avviso e ho in ciò il conforto dell'esperienza, che c'insegna come i bambini, allattati così vadano soggetti più degli altri alle coliche e ai vermi. (1994, p. 94)
  • Un bambino che non sia svezzato prima del tempo o che sia svezzato solo per mezzo di alimenti vegetali, e la cui nutrice si cibi anch'ella di vegetali, credo che non possa mai essere soggetto ai vermi. (1994, p. 95)
  • Coloro che vorranno discutere più a lungo i vantaggi e gli inconvenienti della dieta pitagorica potranno consultare i trattati che il dottor Cocchi e il suo avversario Bianchi hanno scritto su questo importante argomento. (1994, p. 96, nota)
  • Anche gli animali apprendono molto. Hanno dei sensi e debbono imparare a farne uso; hanno dei bisogni e debbono imparare a soddisfarli; debbono imparare a mangiare, a camminare, a volare. (1994, p. 101)
  • Più il corpo è debole e più comanda; più è forte e più obbedisce. (1972, p. 365)

Libro secondo[modifica]

  • Uomini, siate umani, è il vostro primo dovere; siate umani verso tutte le condizioni, verso tutte le età, verso tutto ciò che non è estraneo all'uomo. Quale saggezza può mai esistere fuori dell'umanità? Amate l'infanzia; favoritene i giuochi, le gioie, le amabili inclinazioni. Chi di voi non ha rimpianto talvolta questa età in cui il riso non si spegne mai sulle labbra e l'anima è sempre serena? (1994, p. 126)
  • [...] la miseria non consiste nella privazione delle cose, ma nell'avvertirne il bisogno. Il mondo reale ha i suoi limiti, il mondo immaginario è infinito; non potendo ampliare l'uno, restringiamo l'altro, poiché solo dalla loro sproporzione nascono tutte le sofferenze che ci rendono davvero infelici. Ove si escludano la forza, la salute e la buona coscienza di sé, tutti gli altri beni di questa vita sono opinione; eccettuati i dolori del corpo e i rimorsi della coscienza, tutti i nostri mali sono immaginari. (1994, p. 129)
  • Tutti gli animali hanno esattamente le facoltà necessarie per conservarsi. Solo l'uomo ne ha di superflue. Non è strano che proprio questa eccedenza sia lo strumento della sua infelicità? (1994, p. 130)
  • La prima legge della rassegnazione ci viene dalla natura. I selvaggi, non diversamente dagli animali, si ribellano assai poco contro la morte e la sopportano quasi senza lamenti. (1994, p. 131)
  • Fa veramente la propria volontà solo chi non ha bisogno, per farla, di accrescere la potenza del proprio braccio con quella del braccio altrui: ne consegue che il primo di tutti i beni non è l'autorità, ma la libertà. (1994, p. 134)
  • L'uomo è imitatore e anche l'animale lo è; il gusto dell'imitazione è proprio della natura bene ordinata, ma degenera in vizio nella società. La scimmia imita l'uomo, di cui ha timore, e non imita gli animali che disprezza: giudica buono ciò che fa un essere migliore di lei. (1994, p. 166)
  • Un selvaggio che assaggia il vino per la prima volta fa smorfie di disgusto e lo sputa; anche tra noi, chiunque abbia vissuto fino a vent'anni senza mai assaporare bevande fermentate, non può più abituarvisi: saremmo tutti astemi, se non ci venisse offerto del vino fin dalla tenera età. (1994, p. 239)
  • Una delle prove che il gusto della carne non è naturale per l'uomo è l'indifferenza che i fanciulli hanno per questa vivanda, mentre tutti preferiscono alimenti vegetali, come i latticini, i farinacei, la frutta e così via. È soprattutto importante non snaturare questa primitiva inclinazione ed evitare in ogni modo di rendere i fanciulli carnivori, almeno per il loro carattere, se non per la loro salute, poiché, comunque si spieghi il fenomeno, è certo che i grandi mangiatori di carne sono in genere più crudeli e feroci degli altri uomini: è un fatto che viene osservato in tutti i luoghi e in tutti i tempi. (1994, pp. 242-243)
  • I grandi criminali si incalliscono nel delitto abbeverandosi di sangue. Omero rappresenta i Ciclopi, mangiatori di carne, come uomini mostruosi, e i Lotofagi come un popolo così amabile che, chiunque aveva cominciato a conoscerli, dimenticava persino il proprio paese per vivere con loro. (1994, p. 243)
  • Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l'educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne. (1972, p. 396)
  • Ogni età, ogni stato della vita, ha la sua perfezione conveniente, la specie di maturità che gli è propria. (1972, p. 451)

Libro terzo[modifica]

  • Io odio i libri; essi non insegnano che a parlare di quello che non si sa. (1972, p. 472)

Libro quarto[modifica]

  • Chiunque arrossisce è già colpevole: la vera innocenza non ha vergogna di niente. (1994, p. 336)
  • Noi nasciamo, per così dire, due volte: l'una per esistere, l'altra per vivere; l'una per la specie, l'altra per il sesso. Coloro che considerano la donna come un uomo imperfetto hanno indubbiamente torto, ma l'analogia esteriore dà loro ragione. (1994, p. 327)
  • Per concludere, insegnate al vostro allievo ad amare tutti gli uomini, anche quelli che disprezzano i loro simili; fate in modo che non si rinchiuda in nessuna classe sociale, ma si ritrovi in tutte; dinanzi a lui parlate del genere umano con tenerezza, con pietà, ma giammai con disprezzo. O uomo, non disonorare l'uomo. (1994, p. 349)
  • L'uomo allegro è spesso soltanto uno sventurato, che cerca di trarre gli altri in inganno e di stordire se stesso. (1994, p. 355)
  • Un uomo veramente felice non parla, non ride: la sua felicità, per così dire, se la stringe al cuore. La giocosità chiassosa, la gioia turbolenta nascondono il disgusto e la noia. (1994, p. 355)
  • L'inquietudine dei desideri produce la curiosità e l'incostanza: il vuoto dei piaceri turbolenti genera la noia. Nessuno si annoia mai della sua condizione, quando non ne conosce di più piacevoli. Tra tutti gli uomini del mondo, i selvaggi sono i meno curiosi e i meno soggetti alla noia; tutto riesce loro indifferente: non è delle cose che gioiscono, bensì di se stessi; trascorrono la vita a non far nulla e non si annoiano mai. (1994, p. 355)
  • Non vorrei mettere nelle mani di un giovane né PolibioSallustio; l'opera di Tacito è buona per uomini d'età provetta, i giovani non possono capirla: bisogna imparare a scorgere nelle azioni umane i primi lineamenti del cuore umano, prima di volerne sondare le profondità; bisogna saper leggere bene nei fatti prima di leggere nelle massime. (1994, p. 370)
  • È Tucidide, a parer mio, il vero modello degli storici. Riferisce i fatti senza giudicarli, ma insieme non omette alcuna circostanza che ci consenta di giudicarli noi stessi. Tutto ciò che racconta lo mette dinanzi agli occhi del lettore: invece d'interporsi tra il lettore e gli avvenimenti, si tiene in disparte e quasi non ci sembra più di leggere, ma di vedere. Purtroppo egli parla sempre di guerra e nelle sue narrazioni troviamo quasi esclusivamente quel che vi è di meno istruttivo al mondo: le battaglie. (1994, p. 370)
  • Il buon Erodoto, privo di ritratti e di massime, ma scorrevole, ingenuo, ricco di particolari capaci d'interessare e di piacere, sarebbe forse il migliore degli storici, se questi stessi particolari non degenerassero spesso in forme di puerile semplicità, più adatte a rovinare che a formare il gusto dei giovani: è già necessario un certo discernimento per leggerlo. Nulla dico di Tito Livio: il suo turno verrà; ma è politico, è oratorio, è tutto ciò che meno si addice a quest'età. (1994, p. 370)
  • Plutarco [nelle Vite parallele] eccelle proprio per quei particolari nei quali non osiamo più entrare. Ha una grazia inimitabile nel dipingere i grandi uomini nelle piccole cose; ed è così felice nella scelta delle sue notazioni, che spesso una parola, un sorriso, un gesto gli basta per caratterizzare il suo eroe. Con una battuta di spirito Annibale rassicura l'esercito spaventato e lo fa marciare ridendo verso la battaglia che lo rese padrone dell'Italia. Agesilao che si diverte a cavalcare un bastone mi fa amare il vincitore del grande re. Cesare, mentre chiacchiera con gli amici attraversando un piccolo villaggio, ci svela senza accorgersene quanta malizia fosse in lui, allorché affermava di voler essere soltanto eguale a Pompeo. Alessandro inghiotte un farmaco sospetto, senza dire una parola: è il più bel gesto della sua vita. Aristide scrive il suo nome sopra una conchiglia e giustifica così il suo soprannome. Filopemene, deposto il mantello, spacca la legna nella cucina del suo ospite. Questa è la vera arte del dipingere. (1994, p. 372)
  • Uno dei più grandi uomini dell'ultimo secolo fu incontestabilmente il Turenne. Vi è chi ha avuto il coraggio di rendere la sua vita interessante con piccoli particolari che lo fanno conoscere e amare. Ma quanti se ne sono dovuti sopprimere che l'avrebbero fatto conoscere ed amare di più! (1994, p. 372)
  • Invano gli abissi dell'infinito sono aperti tutto attorno a noi: un fanciullo non ne può essere spaventato: i suoi occhi deboli non ne possono sondare la profondità. Se si parla ai fanciulli della potenza di Dio, essi lo stimeranno quasi forte quanto loro padre. (IV, V; 1942, p. 86)
  • Quantunque il pudore sia naturale alla specie umana, naturalmente i fanciulli non ne hanno punto. Il pudore non nasce che con la conoscenza del male. (1972, p. 498)
  • Che ci guadagna Epitteto a prevedere che il suo padrone gli romperà la gamba? Gliela rompe meno per questo? Egli ha, oltre al suo male, il male della previdenza. (1972, p. 505)
  • Non c'è pazzia dalla quale non si possa guarire un uomo che non è pazzo, all'infuori della vanità. (1972, p. 521)
  • Ma a che servono allo scettico Montaigne i tormenti ch'egli si dà per dissotterrare in un angolo del mondo un costume opposto alle leggi di giustizia? A che gli serve di dare ai più sospetti viaggiatori l'autorità che rifiuta agli scrittori più celebri? Alcuni usi incerti e bizzarri, fondati su cause locali che ci sono sconosciute, distruggeranno l'induzione generale tratta dal concorso di tutti i popoli, opposti in tutto il resto, e d'accordo su questo solo punto? O Montaigne, tu che ti vanti di franchezza e di verità, sii sincero e veritiero, se un filosofo lo può essere, e dimmi se vi è qualche paese sulla terra in cui sia un delitto serbare la propria fede, l'essere clemente, benefico, generoso; in cui l'uomo dabbene sia spregevole e il perfido sia onorato. (1972, p. 557)

Libro quinto[modifica]

  • Dal momento che è dimostrato che l'uomo e la donna non sono né devono essere costituiti allo stesso modo, per il carattere e per il temperamento, ne risulta ch'essi non debbono avere la medesima educazione. (1972, p. 616)
  • L'uomo dice ciò che sa, la donna dice ciò che piace. (1972, p. 626)
  • L'abuso dei libri uccide la scienza. Credendo di sapere ciò che si è letto, ci si crede esentati dall'impararlo. La troppa lettura non serve che a fare dei presuntuosi ignoranti. (1972, p. 688)

Citazioni sull'Emilio[modifica]

  • L'Emile soprattutto mi è sempre piaciuto per la giustezza delle idee e la forza della logica. (Camillo Benso, conte di Cavour)
  • Mi resi conto che i soli maestri di danza che io potessi avere erano il J. J. Rousseau dell'Emile, Walt Whitman e Nietzsche. (Isadora Duncan)
  • Nonostante i temi paradossali e stravaganti, l'Emilio fu la più notevole opera educativa scritta nel XVIII secolo: a giudicare dagli effetti che ebbe sul pensiero e sull'azione può anzi essere definita, la più importante che sia stata mai scritta sull'educazione. (William Boyd)

Giulia o la nuova Eloisa[modifica]

Incipit[modifica]

Sento ormai che vi debbo fuggire, signorina: avrei dovuto aspettare assai meno; o meglio, non avrei mai dovuto vedervi. Ma che fare, oggi? Come risolvermi? M'avete promesso amicizia; considerate le mie perplessità, consigliatemi.

Citazioni[modifica]

  • Il gusto è in certo modo il microscopio del giudizio. (p. 70)
  • Odio le cattive massime più ancora che le cattive azioni. (p. 110)
  • La pazienza è amara ma porta dolci frutti! (p. 140)
  • L'arte di dar gusto ai piaceri non è che quella di esserne avari. (p. 569)
  • Per mutare uno spirito bisognerebbe cambiare l'organizzazione interna; per mutare un carattere bisognerebbe cambiare il temperamento dal quale dipende. Avete mai sentito dire che un collerico sia diventato flemmatico, e che uno spirito metodico e freddo sia diventato immaginoso? Quanto a me, mi parrebbe che sia egualmente facile fare un biondo d'un bruno, e d'uno sciocco un uomo intelligente. Quindi si pretenderebbe invano di rifondere i vari spiriti su un modello comune. Si possono costringere, ma non mutare; si può impedire agli uomini di mostrarsi come sono, ma non farli diventare altri; e se nel corso solito della vita sanno dissimulare, li vedrete în tutte le occasioni importanti riprendere il loro carattere originale, e abbandonarsi a quello tanto più sregolatamente in quanto non conoscon più regola abbandonandovisi. Torno a dire che non si tratta di cambiare il carattere e di piegare il naturale, bensì di spingerlo fin dove è possibile che giunga, di coltivarlo e di impedire che degeneri; perché in questo modo un uomo diventa ciò che è possibile che sia, e l'opera della natura è compiuta in lui dall'educazione. Ora, prima di coltivare il carattere bisogna studiarlo, aspettare tranquillamente che si sveli, fornirgli le occasioni di svelarsi, e sempre astenersi dal fare piuttosto che rischiar di far male. A questo genio bisogna fornire ali, a quest'altro pastoie; uno vuol essere spinto, l'altro trattenuto; uno vuol essere lusingato, l'altro intimidito; ora bisogna illuminare, ora spegnere. C'è chi è fatto per portare all'estremo le conoscenze umane; a un altro riesce nocivo persino saper leggere. Aspettiamo la prima scintilla della ragione; a quella tocca rivelare il carattere e dargli la sua vera forma; grazie a lei lo si coltiva, e prima della ragione non esiste vera educazione per l'uomo. (pp. 590-591)
  • Se mai la vanità ha fatto felice qualcuno al mondo, sicuramente quel felice non era che uno sclocco. (p. 599, nota)
  • Una grande passione infelice induce potentemente alla saggezza. (p. 703)
  • Non sapete che la virtù è uno stato di guerra, e che per viverci sempre bisogna sostenere qualche battaglia contro di sé? (p. 708)

Il contratto sociale[modifica]

Incipit[modifica]

L'uomo è nato libero e ovunque si trova in catene. Anche chi si crede il padrone degli altri non è meno schiavo di loro. Come si è prodotto questo cambiamento? Lo ignoro. Cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere tale problema.
Se non considerassi che la forza e l'effetto che ne deriva, direi: finché un Popolo è costretto a obbedire e obbedisce fa bene, appena può scuotere il giogo e lo scuote fa ancora meglio, giacché, recuperando la sua libertà per mezzo dello stesso diritto con cui gli è stata sottratta, o è autorizzato a riprendersela o nessuno lo era mai stato a togliergliela.[14] D'altra parte l'ordine sociale è un diritto sacro, che serve da base a tutti gli altri.

Citazioni[modifica]

  • La più antica tra le società, e la sola naturale, è la famiglia. Tuttavia i figli restano legati al padre solo per il periodo in cui hanno bisogno di lui per mantenersi in vita. Appena questo bisogno cessa, il legame naturale si scioglie. Una volta i figli esentati dall'obbedienza che dovranno al padre, e il padre esentato dalle cure che doveva ai figli, tutti rientrano egualmente nell'indipendenza. Se continuano a restare uniti, ciò non accade più naturalmente, ma volontariamente; e la famiglia stessa si conserva soltanto per convenzione. (I, 2)
  • Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla propria qualifica di uomo, ai diritti dell'umanità e anche ai propri doveri. (I, 4)
  • Nella Volontà Generale [...] i membri sono una parte indivisibile dell'intero. (I, 6)[15]
  • L'impulso del solo appetito è schiavitù, e l'obbiedienza alla legge che noi stessi ci siamo dati è libertà.
L'impulsion du seul appétit est esclavage, et l'obéissance à la loi qu'on s'est prescrite est liberté. (Du contrat social, éd. Marc-Michel Rey, 1762, parte I, cap. VIII ("De l'état civil"), p. 43)
  • In uno stato ben governato vi sono poche punizioni, non perché si facciano molte grazie, ma perché vi sono pochi criminali: quando lo stato è in decadenza il gran numero dei crimini ne assicura l'impunità. (II, 5)
  • Da solo il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre, da solo, lo vede. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non è sempre illuminato. Bisogna presentarle gli oggetti talvolta quali sono e talvolta quai debbono sembrare; bisogna mostrarle la buona strada che essa cerca, difendendola dalla seduzione delle volontà particolari, avvicinando ai suoi occhi i luoghi e i tempi, bilanciando l'attrattiva dei vantaggi immediati e sensibili, col pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli vedono il bene che rigettano, la collettività vuole il bene che non vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di una guida: bisogna costringere gli uni ad adeguare la loro volontà alla ragione; bisogna insegnare al popolo a conoscere ciò che vuole. Allora dai pubblici lumi deriva l'unione dell'intelletto e della volontà nel corpo sociale; da questo verrà l'esatta partecipazione delle parti e infine la maggior forza del tutto. Ecco donde sorge la necessità di un legislatore. (II, 6)
  • Per scoprire le migliori regole di società, quali possono convenire alle nazioni, sarebbe necessaria un'intelligenza superiore che vedesse tutte le passioni senza provarne alcuna, che non avesse alcun rapporto con la nostra natura pur conoscendola a fondo, che avesse, indipendentemente da noi, una propria felicità e che tuttavia volesse occuparsi della nostra, infine che, nello svolgersi dei tempi, potesse lavorare in un secolo e godere in un altro, preparandosi una gloria lontana. Sarebbero necessari degli dèi per dare delle leggi agli uomini. (II, 7)
  • Popoli liberi, ricordatevi di questa massima: «La libertà si può conquistare, ma recuperare non si può mai». (II, 8)[16]
  • Se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non è adatto agli uomini. (III, 4)
  • Se anche Sparta e Roma sono perite, quale Stato può sperare di durare in eterno? (III, 11)
  • Ricordatevi che le mura delle città si fanno con le macerie delle case di campagna. (III, 13).[17]
  • Appena il servizio pubblico cessi di essere la cura principale dei cittadini, ed essi preferiscano servire di loro borsa che di persona, lo Stato è già vicino alla rovina. (III, 15)[18]
  • I depositari del potere esecutivo non sono i padroni del popolo, bensì i suoi funzionari [...]; esso può nominarli o destituirli quando gli piaccia. (III, 18)
  • Costituisce una previdenza quanto mai necessaria quella di essere consapevoli che non si può prevedere tutto. ()

Le confessioni[modifica]

Incipit[modifica]

Intus et in cute[19]
1. Mi accingo ad un'impresa che non ebbe mai esempio e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo in tutta la verità della natura; e quest'uomo sarò io.

2. Io solo. Sento il mio cuore e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di quanti ho conosciuto; oso credere che non sono fatto come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di più, almeno sono diverso. Si potrà giudicare se la natura abbia fatto bene o male a spezzare lo stampo nel quale mi ha foggiato soltanto dopo avermi letto.

[Jean Jacques Rousseau, Le confessioni, traduzione di Valentina Valente, EDIPEM, 1973.]

Citazioni[modifica]

  • Il denaro che si possiede è strumento di libertà; quello che si insegue è strumento di schiavitù. (I, I)[2]
  • Tutti gli animali diffidano dell'uomo, e non hanno torto; ma non appena sono sicuri che egli non vuol nuocer loro, la loro confidenza diventa tanto grande, che bisogna esser più che barbari per abusarne.[20] (parte I, lib. VII)
  • [Le Vite parallele di Plutarco] diventò la mia lettura preferita. Il piacere che prendevo a rileggerlo di continuo mi guarì un po' dai romanzi e, ben presto, preferii Agesilao, Bruto, Aristide a Orondate, Aliamene e Giuba. Da queste letture interessanti, dalle conversazioni cui davano origine tra me e mio padre derivò la formazione di quello spirito libero e repubblicano, di quel carattere indomabile e fiero, insofferente alle costrizioni e alla servitù, che mi ha tormentato per tutta la vita nelle situazioni meno propizie per svilupparlo. (libro I[21])
  • [L'abate Jean-Claude Gaime (1692-1761)] Mi fece comprendere che l'entusiasmo per le virtù sublimi era poco in uso nella società, che lanciandosi troppo in alto si era soggetti alle cadute, che la continuità dei piccoli doveri sempre bene adempiuti non richiedeva minore forza delle azioni eroiche, che essa era più utile all'onore e alla felicità, e che era infinitamente meglio avere sempre la stima degli uomini che qualche volta la loro ammirazione. (libro III; 1972, p. 796)
  • Se voglio dipingere la primavera bisogna ch'io sia in inverno; se voglio descrivere un bel paesaggio bisogna ch'io sia tra quattro mura, e ho detto cento volte che se mai fossi messo alla Bastiglia, vi dipingerei il quadro della libertà. (1973, p. 136)
  • La mia immaginazione, che nella giovinezza andava sempre in avanti ed ora va ritroso, compensa con quei dolci ricordi la speranza che ho perduto per sempre. Non vedo più nulla nell'avvenire che mi tenti, solo i ritorni del passato possono lusingarmi, e quei ritorni così vivi e così veri nel periodo di cui parlo mi fanno spesso vivere felice nonostante le mie sventure. (1973, p. 175)
  • Gli amori di viaggio non son fatti per durare. (1973, p. 194)
  • Quando ero a Motiers andavo a fare stringhe dalle mie vicine; se ritornassi nel mondo terrei sempre un misirizzi nella mia tasca e ci giocherei tutto il giorno, per poter non parlare, quando non avessi niente da dire. Se ognuno facesse altrettanto, gli uomini diventerebbero meno cattivi, i loro rapporti più sicuri, e credo, più piacevoli. Insomma, ridano, se vogliono, i burloni, ma io sostengo che l'unica morale alla portata del secolo presente è quella del misirizzi. (libro V; 1972, p. 859)
  • Diedero libera scelta ai passeggeri di trascorrerla [la quarantena] a bordo o nel lazzaretto, nel quale ci prevenirono che non avremmo trovato altro che i quattro muri, poiché non s'era ancora avuto il tempo d'ammobiliarlo. Scelsero tutti la feluca. Il calore insopportabile, lo scarso spazio, l'impossibilità di camminare, gl'insetti mi fecero preferire il lazzaretto, a rischio di tutto, e venni condotto in un grande palazzo a due piani assolutamente nudo, dove non trovai né imposte né letto, né tavola né sedia, nemmeno uno sgabello per sedermi né un fascio di paglia per sdraiarmi. Mi portarono il mantello, il sacco da notte, le mie due valige; mi rinchiusero con due grandi porte dalle serrature massicce, e rimasi là, padrone di passeggiare a mio agio di stanza in stanza e di piano in piano, trovando ovunque la stessa solitudine e la medesima nudità. [...] In breve, m'arrangiai così bene che, eccettuate le tende alle finestre, in quel lazzaretto assolutamente spoglio, stavo quasi tanto comodamente quanto in Via Verdelet. I pasti mi venivan serviti con molta pompa; due granatieri, baionetta in canna, li scortavano: la scala era la mia sala da pranzo; il pianerottolo, la tavola; lo scalino inferiore, la seggiola, e quando il pranzo era servito, ritirandosi suonavano una campanella per avvertirmi di mettermi a tavola. Fra i pasti, quando non leggevo né scrivevo, o non attendevo all'arredamento, andavo a passeggiare nel cimitero dei protestanti, che mi faceva da cortile, ove salivo in un lucernario che dava sul porto e donde potevo veder entrare e uscire le navi. (libro VII; 1996, vol. II, pp. 329-330)
  • Avevo sempre riso dell'ingenuità fittizia di Montaigne, il quale, simulando di confessare i propri difetti, ha gran cura di attribuirsene solo di gradevoli; mentre io che mi ero sempre ritenuto, e che mi ritengo ancora, tutto sommato, il migliore degli uomini, sentivo che non esiste animo umano, per quanto puro, che non ricetti qualche odioso vizio. (2006; X, II)
  • [Lettera a Voltaire] Io non vi voglio affatto bene Signore; voi mi avete fatto i mali di cui potevo patire di più, a me, vostro discepolo e vostro fanatico partigiano. Avete rovinato Ginevra come prezzo dell'asilo che vi avete ricevuto; avete allontanato da me i miei concittadini come ricompensa degli applausi che vi ho prodigato fra di essi; siete voi a rendermi insopportabile il soggiorno nel mio paese; siete voi che mi farete morire in terra straniera, privo di tutte le consolazioni dei morenti, e gettato per unico onore in un deposito di rifiuti, mentre tutti gli onori che un uomo può aspettarsi vi accompagneranno nel mio paese. Vi odio, insomma, perché l'avete voluto; ma vi odio da uomo anche più degno di amarvi se voi l'aveste voluto. Di tutti i sentimenti di cui il mio cuore era compenetrato, vi resta solo l'ammirazione che non si può rifiutare per il vostro bel genio e l'amore per i vostri scritti. Se posso onorare in voi solo i vostri talenti, non è colpa mia. Non verrò mai meno al rispetto che è loro dovuto, né al modo di procedere che questo rispetto esige. (17 giugno 1760, libro X; 1990, p. 626)
  • È soprattutto nella solitudine che si sente il vantaggio di vivere con qualcuno che sappia pensare.[2]
  • Il rimorso dorme in un periodo prospero ma si risveglia nell'avversità.[22]

Citazioni su Le confessioni[modifica]

  • Arrivando alla fine delle Confessioni di Rousseau, si ha la netta impressione di aver conosciuto un uomo alla ricerca di un abbraccio empatico oceanico, nonostante molti aspetti della sua vita fossero di tutt'altra natura. (Jeremy Rifkin)

Le passeggiate solitarie[modifica]

Incipit[modifica]

Beniamino Dal Fabbro[modifica]

E ora eccomi solo sulla terra, non avendo altro fratello, prossimo, amico, che me stesso. Socievolissimo e amorevolissimo tra gli uomini, io ne fui proscritto per unanime accordo; nella raffinatezza dell'odio, essi hanno cercato quale tormento potesse meglio incrudelire sulla mia sensibile anima, e hanno violentemente spezzato tutt'i legami che a loro mi tenevano. Li avrei amati a dispetto di loro stessi, gli uomini; non hanno potuto sottrarsi al mio affetto che rinunciando a esserlo. Ed eccoli stranieri, sconosciuti, nulli insomma per me; e per averlo voluto. Ma io, distaccato da loro e da tutto, io stesso che cosa sono? Ecco quello che mi resta da indagare. Sfortunatamente, questa ricerca dev'essere preceduta da uno sguardo sulla mia posizione: traverso quest'idea bisogna per forza che io passi, per giungere da loro sino a me.

Zino Zini[modifica]

Eccomi dunque solo su questa terra, non ho più né fratelli, né parenti, né amici, né altra compagnia che quella di me stesso. Un accordo unanime ha messo al bando del genere umano appunto l'essere più socievole e più capace d'affetto. Gli uomini nel loro odio raffinato sono andati a cercare qual tormento potesse più crudelmente ferire la mia anima sensibile, ed hanno violentemente spezzato ogni vincolo che ad essi mi legava. Avrei amato gli uomini anche a loro dispetto. Soltanto rinunziando alla loro umanità si sono potuti sottrarre al mio amore. Eccoli omai fatti stranieri, ignoti, diventati per me insomma un nulla, e questo perché l'hanno voluto. Ma io, staccato da loro e da tutto, che sono io stesso? Appunto questo mi rimane da cercare. Sventuratamente debbo far precedere una tal ricerca da un rapido esame della mia condizione. È un corso di pensieri che necessariamente devo seguire per giungere da loro sino a me.

[Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del pensatore solitario, a cura di Zino Zini, UTET, 1939.]

Citazioni[modifica]

  • [...] sentendo inutili tutt'i miei sforzi e tormentandomi in pura perdita, ho preso il solo partito che mi restava da prendere, ossia quello di sottomettermi alla mia sorte, senza recalcitrare oltre contro il destino. In questa rassegnazione ho trovato compenso a tutt'i miei mali, per la calma che mi procura, e che non potrebbe conciliarsi col travaglio continuo d'una resistenza penosa quanto sterile. (I; 1972, p. 1322)
  • [I miei persecutori] hanno esaurito in anticipo tutte le loro risorse; non lasciandomi nulla, si sono tolti tutto da se stessi. (I; 1972, p. 1322)
  • I veri mali hanno poca presa su di me; di quelli che provo, mi rassegno agevolmente, ma non di quelli che temo. La mia immaginazione scatenata li combina, li rivolge, li estende, li accresce. Attenderli, mi tormenta cento volte peggio che averli attuati; la minaccia mi riesce temibile peggio che il colpo. Non appena essi arrivano, il fatto, togliendogli tutto quanto avevano d'immaginario, li riduce alla loro giusta misura. Allora li trovo molto minori di quanto me li ero raffigurati, e persino nel mezzo della sofferenza non manco di sentirmi sollevato. (I; 1972, p. 1322)
  • I privati periscono, ma i gruppi collettivi non muoiono; le medesime passioni vi si perpetuano, e il loro odio ardente, immortale come il demone che lo ispira, ha sempre la medesima virulenza. (I; 1972, p. 1323)
  • Abbandoniamoci interamente alla dolcezza di conversare con la mia anima, la sola che gli uomini non possono sottrarmi. (I; 1972, p. 1323)
  • Non potendo fare nessun bene che non si ritorca in male, non potendo agire senza nuocere ad altri o a me stesso, astenermi divenne il mio unico dovere [...]. (I; 1972, p. 1324)[23]
  • [...] in questa disoccupazione del corpo, la mia anima agisce ancora, genera sentimenti, pensieri, e la sua vita intima e morale sembra essersi ancora accresciuta, a causa della morte d'ogni interesse terreno e precario. (I; 1972, p. 1324)
  • Io compio la stessa impresa di Montaigne, ma con uno scopo affatto contrario al suo: egli non scriveva i suoi Saggi che per il pubblico, e io non scrivo le mie fantasie che per me stesso. Se nei miei tardissimi giorni, all'avvicinarsi del trapasso, resterò, come spero, nella stessa situazione in cui sono, nel leggerle mi sovverranno le dolcezze che provo a scriverle; e in questo modo, facendo rinascere per me il tempo passato, la mia esistenza, direi quasi, ha da resultarne come raddoppiata. A dispetto degli uomini saprò provare ancora l'incanto della compagnia, vivendo decrepito con un me stesso diverso, come se vivessi con un amico meno vecchio. (I; 1972, p. 1324)
  • Assuefacendomi a rientrare in me stesso, perdetti infine il sentimento e quasi il ricordo dei miei mali. E imparai per mia propria esperienza che la fonte della vera gioia sta in noi, e che non dipende dagli uomini di rendere veramente miserevole chi sa voler essere felice. (II; 1972, p. 1325)
  • Grande maestra, senza dubbio, è la sfortuna; ma una maestra che fa pagar care le sue lezioni, e sovente il vantaggio che se ne ricava non vale il prezzo che ci costarono. D'altronde, prima che sia ottenuto interamente il frutto di queste lezioni sì tardive, l'occasione di servirsene passa. La gioventù, credo che sia il tempo di studiare la saggezza; la vecchiaia, il tempo di praticarla. (III; 1972, p. 1330)
  • Non ho imparato a conoscere meglio gli uomini che per meglio sentire la miseria in cui mi hanno inoltrato, senza che tale conoscenza, scoprendomi tutte le loro insidie, me ne abbia potuto far evitare nessuna. (III; 1972, p. 1330)
  • Noi entriamo in lizza con la nascita, ne usciamo con la morte. (III; 1972, p. 1330)
  • Tutt'i vecchi tengono alla vita più dei fanciulli e n'escono con peggior grazia dei giovani. (III; 1972, p. 1330)
  • [...] ho sempre creduto che prima d'istruire gli altri bisognava cominciare col sapere abbastanza per se stessi [...]. (III; 1972, p. 1331)
  • Quello che si ha da fare dipende molto da quello che si ha da credere; e in tutto quello che non tocca ai bisogni primi della natura, le nostre opinioni sono la regola delle nostre azioni. (III; 1972, p. 1331)
  • La meditazione nel suo ritiro, lo studio della natura, la contemplazione dell'universo, costringono un solitario a slanciarsi incessantemente verso il Creatore delle cose, e a cercare con dolce inquietudine lo scopo di tutto che vede e la causa di tutto che sente. (III; 1972, p. 1331)
  • [...] difficilmente ci si preserva dal credere quello che con tanto ardore si desidera. (III; 1972, p. 1333)
  • [...] importa di avere un sentimento per se stessi, e di sceglierlo con tutta la maturità di giudizio che vi si possa mettere. Se malgrado questo cadiamo nell'errore, non ne sapremmo portare giustamente la pena, dato che non ne abbiamo la colpa. (III; 1972, p. 1334)
  • [...] per essere dovuta, una cosa bisogna che sia o possa essere utile. (IV; 1972, p. 1339)
  • [...] basta forse non essere mai ingiusto per essere sempre innocente? (IV; 1939, p. 90)
  • Giudicare i discorsi degli uomini dagli effetti che producono, significa sovente apprezzarli male. Oltre che tali effetti non sono sempre sensibili e facili da conoscere, essi variano all'infinito come le circostanze nelle quali i discorsi sono stati fatti. Ma unicamente l'intenzione di chi li fa gli conferisce un valore, determina il loro grado di malizia o di bontà. (IV; 1972, p. 1340)
  • Mentire a vantaggio proprio, è impostura; mentire a vantaggio altrui, è frode; mentire per nuocere è calunnia: la sorte peggiore di menzogna. Mentire senza vantaggio né pregiudizio proprio o d'altri, non si ritiene mentire; non è menzogna, ma finzione. (IV; 1972, p. 1340)
  • [...] tutto quello che, contrario alla verità, lede la giustizia in qualsiasi maniera, è menzogna. (IV; 1972, p. 1341)
  • Se bisogna essere giusti verso gli altri, bisogna essere veritieri verso se stessi, per l'omaggio che l'uomo onesto deve rendere alla propria dignità. (IV; 1972, p. 1345)
  • [...] andavo volentieri a sedermi in riva al lago, sul greto, in qualche asilo nascosto, dove lo strepito delle onde e l'agitazione delle acque, occupandomi i sensi e scacciando dall'anima ogni altra agitazione, la immergevano in deliziose fantasie, tra le quali la notte mi sorprendeva sovente senza che me ne fossi accorto. Il flusso e il riflusso delle acque, lo strepito continuo, ma accresciuto a intervalli, senza tregua impegnandomi gli occhi e gli orecchi supplivano ai moti intimi che in me spegneva la fantasticheria, e bastavano per farmi sentire il gusto dell'esistenza, senza darmi la pena di pensare. Di tanto in tanto nasceva qualche debole, breve riflessione sull'instabilità delle cose di questo mondo, di cui la superficie delle acque mi offriva l'immagine; ma sùbito queste leggere impressioni si scancellavano nell'uniformità del moto continuo che mi cullava, e che senza nessun attivo concorso dell'anima non lasciava d'incatenarmi al punto che, chiamato dall'ora e dal segnale convenuto, non potevo allontanarmi senza uno sforzo. (V; 1972, p. 1349)
  • Il sentimento dell'esistenza, spogliato d'ogni altro affetto, di per se stesso dona un prezioso stato d'appagamento e di pace, che basterebbe da solo a rendere cara e dolce l'esistenza, e che saprebbe scostare da sé tutte le impressioni sensuali e terrene che vengono senza tregua a distrarcene e a turbarcene, sulla terra, la dolcezza. (V; 1972, p. 1350)
  • Senza moto, la vita diventa un letargo. Un moto ineguale o troppo forte tiene svegli, e richiamandoci agli oggetti circostanti distrugge l'incanto delle fantasie, ci strappa all'intimo di noi stessi per rimetterci istantaneamente sotto il giogo della fortuna e degli uomini, per renderci al sentimento delle nostre sventure. Un assoluto silenzio porta alla tristezza, offre immagine della morte: allora l'aiuto di un'immaginazione allegra si presenta necessariamente e naturalmente a quelli gratificatine dal Cielo. Il moto che non viene dal di fuori viene allora al didentro di noi: la quiete diminuisce, è vero, ma diventa assai piacevole quando leggere e dolci idee, senz'agitare il fondo dell'anima, non fanno, direi quasi, che sfiorarne la superficie. Questo basta per ricordarsi di se stessi, dimenticando tutt'i propri mali. Una tale sorta di fantasie possiamo gustarla dovunque si possa essere tranquilli, e io ho sovente pensato che alla Bastiglia, e persino in una segreta dove nessun oggetto avrebbe colpito la mia vista, avrei ancora potuto fantasticare piacevolmente. (V; 1972, p. 1350)
  • Non abbiamo nessun moto involontario di cui non si possa trovare la causa nel nostro cuore, cercandovi bene. (VI; 1972, p. 1351)
  • [...] tutte le inclinazioni naturali, non escludendone la stessa beneficenza, portate o seguìte nel mondo senza saggezza e senza discernimento, cambiano di natura e sovente diventano nocive quanto erano utili nei loro originari scopi. (VI; 1972, p. 1352)
  • Ecco di che modificare molto l'opinione che a lungo ebbi della mia propria virtù; infatti, non ve ne ha affatto nel seguire le proprie inclinazioni e nel darci, quando esse vi ci portano, il piacere di fare il bene; ma consiste nel vincerle quando il dovere lo comanda, per fare quanto ci prescrive [...]. (VI; 1972, p. 1353)
  • [...] la costrizione, se anche unita al mio desiderio, basta per annullarlo e cambiarlo in ripugnanza, persino in avversione, per poco che agisca troppo fortemente [...]. (VI; 1972, p. 1353)
  • La forza e la libertà fanno gli eccellenti uomini; la debolezza e la schiavitù non hanno mai fatto che dei malvagi. (VI; 1972, p. 1355)
  • Colui che mette la sua potenza al disopra dell'uomo ha da essere al disopra delle debolezze umane, altrimenti quell'eccesso di forza non serve effettivamente che a metterlo al di sotto degli altri e di quello che sarebbe stato egli stesso, rimasto un loro eguale. (VI; 1972, p. 1356)
  • Non ho mai pensato che la libertà dell'uomo consista nel fare quello che vuole, ma piuttosto nel non fare mai quello che non vuole. (VI; 1972, p. 1356)
  • La fantasticheria mi riposa e mi diverte, la riflessione mi affatica e rattrista. Pensare fu sempre per me un'occupazione penosa, senza incanto. Le mie fantasie finiscono talvolta con la meditazione, ma le mie meditazioni finiscono sovente con le fantasie; in questi smarrimenti la mia anima erra, vola, alta nell'universo, sulle ali dell'immaginazione, in estasi che superano ogni gioia. (VII; 1972, p. 1358)
  • Gli alberi, gli arbusti, le piante, sono gli ornamenti, la veste della terra. Nulla è triste come l'aspetto d'una campagna nuda e brulla, che non offre ai nostri occhi se non pietre, mota e sabbia; ma ravvivata dalla natura e rivestita del suo abito nuziale, in mezzo ai corsi di acqua e al canto degli uccelli, la terra dona all'uomo, nell'armonia dei tre regni, uno spettacolo pieno di vita, d'interesse, d'incanto: il solo spettacolo al mondo di cui i suoi occhi e il suo cuore mai si stanchino. (VII; 1972, p. 1358)
  • No, nulla di personale, nulla che tocchi l'interesse del mio corpo riesce veramente a occuparmi l'anima. Non medito, non sogno mai sì deliziosamente come quando dimentico me stesso. Provo estasi, rapimenti inesprimibili nel fondermi, direi quasi, col sistema degli esseri, nell'identificarmi con tutta la natura. (VII; 1972, p. 1360)
  • La botanica è lo studio di un solitario pigro ed ozioso; qualcosa di aguzzo e un microscopio son tutti gli arnesi di cui ha bisogno per il suo esame. Egli passeggia, gira liberamente da una cosa all'altra, passa in rassegna ogni fiore con interesse e curiosità, e non appena incomincia ad afferrar le leggi della loro struttura, prova nell'osservarle, un piacere scevro di affanno, altrettanto vivo che se gliene costasse molto. C'è in questa occupazione inutile un fascino che noi possiamo provare soltanto quando le passioni tacciono completamente, ma che da solo basta per rendere la vita dolce e felice; ma appena vi si mescola un motivo d'interesse o di vanità, sia per occupar dei posti o per scrivere libri, appena si vuole imparare con l'unico scopo di istruire, o si erborizza per diventare autore o professore, si dilegua tutto quel dolce fascino; nelle piante non vediamo più che gli strumenti delle nostre passioni, nello studiarle non gustiamo più alcun piacere vero; non vogliamo più sapere, ma mostrare agli altri di sapere, e siamo nei boschi come alla ribalta del mondo, preoccupati di farci ammirare; oppure limitandoci tutt'al più alla botanica da gabinetto e da giardino, invece d'osservare i vegetali nella natura, non ci si occupa che di sistemi e di metodi, eterno argomento di discussione, che non fa conoscere una pianta di più, e non getta nessuna luce vera sulla storia naturale e il regno vegetale. (VII; 1939, p. 144)
  • Salgo su per le rocce e le montagne, m'inoltro nelle valli, nei boschi, per sottrarmi, quanto possibile, al ricordo degli uomini e agli attacchi dei malvagi. Mi sembra che sotto le ombre d'una foresta io sono dimenticato, libero, tranquillo, come se non avessi nemici, o come se il fogliame dei boschi dovesse preservarmi dai loro attacchi come li allontana dal mio ricordo [...]. (VII; 1972, p. 1362)
  • I diversi intervalli di brevi periodi prosperi non mi hanno lasciato quasi nessun piacevole ricordo della maniera intima e durevole con cui ne fui beneficiato, e all'incontrario, in tutte le miserie della vita mi sentivo costantemente pieno di sentimenti teneri, commossi, deliziosi, che versando un balsamo salutare sulle piaghe del mio cuore sembravano convertirne il dolore in gioia, e il cui gradito ricordo mi ritorna solo, sciolto da quello dei mali che pativo nello stesso tempo. (VIII; 1972, p. 1364)
  • A questo ritorno su noi stessi ci costringe la sventura: il che forse la rende sì insopportabile alla maggior parte degli uomini. (VIII; 1972, p. 1365)
  • Premuto da ogni parte, mi mantengo in equilibrio: non mi afferro a nulla, non mi appoggio che su me stesso. (VIII; 1972, p. 1366)
  • Si vuole essere stimati dalla gente che si stima [...]. (VIII; 1972, p. 1366)
  • Di tutt'i mali che ci accadono, noi consideriamo piuttosto le intenzioni che gli effetti: una tegola caduta da un tetto potrebbe causarci una ferita maggiore, ma non ci addolora quanto una pietra lanciata a bell'apposta da una mano malevola; talvolta il colpo va a vuoto, ma l'intenzione non manca mai il bersaglio. (VIII; 1972, p. 1367)
  • [...] quando gli sventurati non sanno con chi prendersela per i loro mali, se la prendono col destino che personificano e a cui imprestano occhi e intelligenza per tormentarli a bell'apposta. (VIII; 1972, p. 1367)
  • La stima di se stessi fa da massimo impulso alle anime fiere; l'amor proprio, fertile d'illusioni, si trucca e si fa passare per questa stima; ma quando infine la frode sia scoperta e l'amor proprio non possa nascondersi, allora non vi ha nulla da temere, e quantunque lo si soffochi con fatica, lo si soggioga almeno con agevolezza. (VIII; 1972, p. 1367)
  • I mali non sono nulla per colui che non ci pensa. (VIII; 1972, p. 1368)
  • I casi in cui il vero bisogno si fa sentire sono sempre rari: la previdenza e l'immaginazione li moltiplicano, e proprio per questa catena di sentimenti ci si preoccupa, ci si rende infelici. Per me, se anche sappia bene di dover soffrire domani, mi basta di non soffrire oggi per essere tranquillo; non mi affliggo del male che prevedo, ma soltanto di quello che sento, il che lo riduce a ben poca cosa. (VIII; 1972, p. 1368)
  • Rendendomi insensibile alla sventura, [i miei nemici] mi hanno fatto un bene maggiore che se me ne avessero risparmiato gli attacchi; non provandola, potevo sempre temerla; e invece, avendola soggiogata, ormai non la temo. (VIII; 1972, p. 1368)
  • [...] a ogni attacco, lascio che il sangue si accenda, che la collera e l'indignazione si impadroniscano dei miei sensi; cedo alla natura questa prima esplosione che tutte le mie forze non potrebbero né fermare né sospendere. [...] Ma dopo aver lasciato fare alla natura la prima esplosione, possiamo ridiventare padroni di noi stessi, riprendendo a poco a poco il dominio dei sensi [...]. (VIII; 1972, p. 1370)
  • [...] la mia natura ardente mi agita, la mia natura indolente mi acquieta. (VIII; 1972, p. 1370)
  • Non mi sembra che la felicità, stato durevole, sia fatta per l'uomo, sulla terra: qui, tutto si trova in un continuo flusso che non permette a nulla di assumervi una forma costante. Tutto cambia intorno a noi. Noi stessi mutiamo, e nessuno potrebbe essere sicuro di amare domani quello che oggi ama. Similmente, tutt'i nostri disegni di felicità per questa vita sono chimere. Approfittiamo della gioia dello spirito quando viene, evitiamo di allontanarla per colpa nostra, ma non facciamo disegni per incatenarla: tali disegni sono pure pazzie. (IX; 1972, p. 1370)
  • A tutto vi ha compenso: se i miei piaceri sono rari e brevi, li gusto, quando vengono, con maggiore vivezza che se mi fossero familiari; li rumino, direi quasi, con frequenti ricordi, e per quanto rari siano, se fossero puri e incontaminati, sarei forse felice meglio che nei tempi prosperi. (IX; 1972, p. 1373)
  • C'è da meravigliarsi se amo la solitudine? Sul volto degli uomini non scorgo che odio, mentre la natura mi sorride sempre. (IX; 1939, p. 175)

Citazioni su Jean Jacques Rousseau[modifica]

  • Ahi Rousseau, «di quanto mal fu madre» la tua conversione alla dea Natura! (Mario Praz)
  • Autore di una sconvolgente introduzione di errori. [...] Ispirarsi oggi a Rousseau può non essere culturalmente – per tanti versi – molto illuminante. (Giulio Andreotti)
  • C'è in Rousseau qualcosa di malsano, qualcosa che sa di dente marcio e latte inacidito. (Henry de Montherlant)
  • Dal momento in cui mi trovai in condizione di poter leggere da me stesso i libri di Rousseau, ho sentito per lui la più viva ammirazione. È a mio giudizio l'uomo che più ha cercato di rialzare la dignità umana, spesso avvilita nella società dei secoli trascorsi. La sua voce eloquente ha più di ogni altra contribuito a fissarmi nel partito del progresso e della emancipazione sociale. (Camillo Benso, conte di Cavour)
  • È stato soltanto dopo l'epoca di Rousseau, a partire dalla quale va fatto risalire il grande movimento umanitario del secolo passato, che il vegetarianismo ha cominciato a definirsi come sistema, come appello ragionato all'abbandono della carne come cibo. (Henry Stephens Salt)
  • Gian Giacomo Rousseau col suo modo di fare esasperato ed esasperante ha imposto il problema all'umanità. Il Rousseau alla domanda se il progresso delle arti e delle scienze contribuisce alla felicità umana, con logica stringente ed appassionata rispondeva di no. (Felice Momigliano)
  • Il rispetto altrui conosce un solo fondamento naturale [...] che Rousseau scorge, nell'uomo, in «una ripugnanza innata a veder soffrire il suo simile» [...]. Infatti l'unica speranza, per ognuno di noi, di non essere trattato da bestia dai suoi simili, sta nel fatto che tutti i suoi simili, e lui per primo, si colgano immediatamente come esseri sofferenti, e coltivino nell'intimo quella attitudine alla pietà che, nello stato di natura, tiene luogo «di legge, di costumi, e di virtù», e senza il cui esercizio cominciamo a capire che, nello stato di società, non può esserci né legge, né costumi, né virtù.
    Lungi dall'offrirsi all'uomo come un nostalgico rifugio, l'identificazione a tutte le forme della vita, a cominciare dalle più umili, propone dunque all'umanità d'oggi, per bocca di Rousseau, il principio di ogni saggezza e di ogni azione collettiva. (Claude Lévi-Strauss)
  • Jean-Jacques diceva che entrava in un caffè non senza una certa emozione. Per una natura timida , un controllo dei biglietti a teatro somiglia un poco al tribunale degli Inferi. (Charles Baudelaire)
  • La bianca, e silenziosa neve, che ricoprendo le orride rupi di Meillerie nel più rigido inverno, accresceva il pacifico riposo della solitudine, ed il languido lume della fredda Luna sul placido Lago di Ginevra, animarono la fervida penna di Gian Giacomo, ond'egli scrivendo vivamente dipinse le passioni, e rappresentando la natura ne superò le bellezze. (Domenico Cirillo)
  • La enorme influenza e popolarità di Rousseau oltreché all'originalità del suo pensiero fu dovuta al profondo calore di sentimento che anima tutte le sue pagine.
  • La grande sventura ha avuto inizio nel secolo scorso, principalmente per opera di Rousseau, con la sua teoria della bontà della natura umana. La plebe e gli intellettuali ne hanno distillato la dottrina di un'età dell'oro, che non avrebbe mancato di giungere, sol che si fosse lasciato dominare l'elemento nobile dell'umanità. Come sanno anche i bambini, la conseguenza fu una completa dissoluzione del concetto di autorità nelle menti dei comuni mortali, e si è periodicamente caduti preda della violenza pura. Negli strati intellettuali delle nazioni occidentali, frattanto, l'idea della bontà naturale si era trasformata in quella del progresso, ossia del guadagno e del comfort assoluto, pacificando la coscienza con la filantropia. (Jacob Burckhardt)
  • Montaigne, un saggio, non ha avuto posterità; Rousseau, un isterico odioso, continua ad avere discepoli. (Emil Cioran)
  • Per contro, la mia motivazione trova in suo favore l'autorità del più grande moralista di tutta l'epoca moderna: poiché questo è senza alcun dubbio Jean-Jacques Rousseau, il profondo conoscitore del cuore umano, che attinse la sua sapienza non dai libri, ma dalla vita e destinò la sua dottrina non alla cattedra, bensì all'umanità, nemico com'era dei pregiudizi, alunno della natura che a lui solo conferì il dono di predicare la morale senza diventare noioso, perché colpiva la verità e toccava i cuori. (Arthur Schopenhauer)
  • Prima di Marx, Rousseau aveva argomentato l'idea che il cristiano fosse un cattivo cittadino, poiché, essendo ossessionato dall'idea dell'aldilà, era incline a disinteressarsi dell'organizzazione della società. Rousseau censurava tale atteggiamento poiché rafforzava l'ingiustizia esistente. (Luigi Fenizi)
  • Rousseau: adotta l'Umanità, abbandona i propri cinque figli all'orfanatrofio o brefotrofio di Parigi, anni dopo ribadisce con entusiasmo «lo rifarei»; e meno male, l'autore dell'Emilio sarebbe stato, credo, un pessimo educatore. (Sergio Ricossa)
  • Rousseau, che è un Diogene raffinato, afferma anche che il nostro volere sarebbe buono per natura, ma che noi lo corromperemmo di continuo; che la natura ci avrebbe provvisto di tutto e che saremmo noi a crearci dei bisogni; egli richiede anche che l'educazione dei fanciulli sia soltanto negativa. (Immanuel Kant)
  • Rousseau, lo leggevo sonnecchiando, e io voglio sopprimere in me tutto ciò che di lui mi faceva sonnecchiare. (Jules Renard)
  • Secondo Rousseau gli esseri umani sono buoni per natura. Se fossimo lasciati a noi stessi nel mezzo di una foresta, non daremmo molti problemi. Se però veniamo sottratti allo stato di natura e portati nelle città, le cose prendono un'altra piega: iniziamo a desiderare di avere la meglio sugli altri e di attrarre la loro attenzione. Questo atteggiamento competitivo ha effetti psicologici terribili, e l'invenzione del denaro non può che peggiorare la situazione. (Nigel Warburton)
  • Se vi accontentate di cento, cominciate a insistere per avere mille; se comincerete col chiedere cento, otterrete soltanto dieci. Il povero Jean Jacques Rousseau si procurò tanti dolori proprio per non aver seguito questo semplice piano. Aveva stabilito che il massimo della felicità terrestre consisteva in un orticello, una donna amabile e una mucca, e non giunse mai nemmeno a sfiorarli. Arrivò fino all'orticello, ma la donna non era amabile e si portò dietro la propria madre: in compenso la mucca non c'era. (Jerome K. Jerome)
  • Tra i seguaci entusiasti di Tissot incontriamo Rousseau e Kant, per i quali chi si masturba non è dissimile dal "suicida" che distrugge con un gesto la vita che il masturbatore sacrifica nel tempo. (Umberto Galimberti)
  • Un uomo o una donna che scrivessero la verità sulla propria vita farebbero una grande opera. Ma nessuno l'ha osato. Jean-Jacques Rousseau ha fatto per l'umanità questo supremo sacrificio; ha svelato il vero della propria anima, le sue azioni e i suoi pensieri più intimi. Il risultato ne fu un gran libro. (Isadora Duncan)
  • Una delle fallacità più pericolose che ha influenzato molti ragionamenti politici e filosofici è che l'uomo sia essenzialmente buono e che sia la società a renderlo cattivo. [...] Rousseau ha trasferito il peccato originale dall'uomo alla società e questa visione ha contribuito in modo rilevante a quella che io ritengo sia una premessa incorretta su cui basare una filosofia politica e morale. (Stanley Kubrick)
  • Uno dei fondamentali principî della educazione naturale è espresso, in Rousseau, dalla richiesta di porre attenzione massima alla differenza di sesso sin dalle prime età. La natura dei due sessi è sostanzialmente diversa e ciò rende necessaria una corrispondente differenziazione nell'educazione. (William Boyd)
  • Uomo destinato a errare nella procella e crear del dolore, in lotta aperta col suo secolo, Rousseau portava nel suo fatidico seno tutte le tempeste della imminente Rivoluzione, insieme alle tempeste del suo proprio cuore. La sua influenza è durata fino a oggi, e forse è interrotta, ma non cessata. Tutti, o quasi tutti i grandi scrittori, chi più, chi meno, ne hanno subito il magnetico incanto. (Enrico Nencioni)

Note[modifica]

  1. Da Correspondance
  2. a b c Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Ettore Barelli e Sergio Pennacchietti, BUR, 2013.
  3. Da Saggio sull'origine delle lingue, p. 83.
  4. Citato in Charles Burney, Viaggio musicale in Italia, 1770, traduzione di Virginia Attanasio, Remo Sandron Editore, 1921, p. 199
  5. Citato in AA.VV., Il libro della filosofia, traduzione di Daniele Ballarini e Anna Carbone, Gribaudo, 2018, p. 159. ISBN 9788858014165
  6. Da Lettr à d'Alembert; citato in Ian Watt, Le origini del romanzo borghese (The Rise Of The Novel), traduzione di Luigi Del Grosso Destrieri, Bompiani, Milano, 1985.
  7. Citato in Tex N. 48 (2a di copertina).
  8. Citato in AA.VV., Il libro della politica, traduzione di Sonia Sferzi, Gribaudo, 2018, p. 103. ISBN 9788858019429
  9. Da Saggio sull'origine delle lingue, p. 59, nota.
  10. Citato in AA.VV., Il libro della filosofia, traduzione di Daniele Ballarini e Anna Carbone, Gribaudo, 2018, p. 158. ISBN 9788858014165
  11. Citato in James Boswell, Visita a Rosseau e a Voltaire, traduzione di Bruno Fonzi, Adelphi Edizioni, 1993, pp. 72-73.
  12. Da Jean-Jacques giudice di Rousseau.
  13. Citato in Gino Ditadi, I filosofi e gli animali, vol. 2, Isonomia editrice, Este, 1994, p. 707. ISBN 88-85944-12-4
  14. È accennata la critica alla forza come criterio di legittimazione dell'ordine politico, che sarà argomentata poi nel capitolo 3 di questo Libro I. Vedi anche DIscours sul l'inégalité, in O.C., III, p. 191: «il Despota è il Padrone solo finché è il più forte, e [...] appena si può cacciarlo, non è in condizione di reclamare nulla contro la violenza. La sommossa che finisce per strangolare o detronizzare un Sultano è un atto giuridico alla stessa stregua di quelli mediante i quali egli disponeva fino al giorno prima delle vite e dei beni dei suoi Sudditi».
  15. Citato in Come funziona la filosofia, a cura di Marcus Weeks, traduzione di Daniele Ballarini, Gribaudo, 2020, p. 206. ISBN 9788858025598
  16. Da Del contratto sociale, in Opere, p. 298.
  17. Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 881714603X
  18. Da Del contratto sociale, in Opere, p. 322.
  19. «Dentro e sotto la pelle»: Aulo Persio Flacco, Satire, III, 30.
  20. Gian Giacomo Rousseau, Le confessioni, prefazione di Olindo Guerrini, Sonzogno, Milano, s.d., p. 171.
  21. Citato in Emma Nardi, Oltre l'Emilio: scritti di Rousseau sull'educazione, FrancoAngeli, Milano, 2005, p. 67. ISBN 88-464-6331-5
  22. Citato in Elena Spagnol, Enciclopedia delle citazioni, Garzanti, Milano, 2009. ISBN 9788811504894
  23. Cfr. VI (1972, p. 1352): «[...] so come il solo bene che ormai resti in mio potere sia quello di astenermi dall'azione, per paura di fare il male senza volerlo.»

Bibliografia[modifica]

  • Jean Jacques Rousseau, Confessioni, traduzione di Felice Filippini, Rizzoli, 1996. ISBN 88-17-17123-9
  • Jean Jacques Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza, in Scritti politici, vol. 1, a cura di Maria Garin, Laterza, Bari, 1971.
  • Jean Jacques Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza, in Scritti politici, vol. 1, a cura di Maria Garin, Laterza, Bari, 1994. ISBN 88-420-4368-0
  • Jean-Jacques Rousseau, Emilio, a cura di Antonio Banfi, A. Mondadori, 1942.
  • Jean-Jacques Rousseau, Emilio o dell'educazione, traduzione di Paolo Massimi, Armando editore, Roma, 1994. ISBN 88-7144-053-6 (Anteprima su Google Libri)
  • Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, traduzione di Piero Bianconi, Rizzoli, Milano, 1964.
  • Jean Jacques Rousseau, Il contratto sociale, a cura di Roberto Gatti, RCS Quotidiani, 2010.
  • Jean Jacques Rousseau, Le confessioni, traduzione di Giorgio Cesarano, Garzanti, 2006. ISBN 978-88-11-36154-1
  • Jean Jacques Rousseau, Le confessioni, traduzione di Valentina Valente, EDIPEM, 1973.
  • Jean Jacques Rousseau, Le confessioni, traduzione di Valentina Valente, Mondadori, 1990.
  • Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del pensatore solitario, a cura di Zino Zini, UTET, 1939.
  • Jean-Jacques Rousseau, Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni, 1972.
    • Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza, Del contratto sociale, traduzione di Rodolfo Mondolfo.
    • Emilio, traduzione di Luigi De Anna.
    • Le confessioni, traduzione di V. Sottile Scaduto.
    • Le passeggiate solitarie, traduzione di Beniamino Dal Fabbro.
  • Jean Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, traduzione e cura di Giulio Preti, Feltrinelli, Milano, 2004. ISBN 88-07-82043-9
  • Jean Jacques Rousseau, Saggio sull'origine delle lingue, a cura di Paola Bora, Einaudi, Torino, 1989. ISBN 880611526X

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