Vai al contenuto

il Farinotti

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Pino Farinotti

il Farinotti, dizionario enciclopedico dei film.

Citazioni

[modifica]
  • Ermanno Olmi ritrova fiato ed estro poetico mettendo in immagini le storie contadine dei suoi nonni. [...] molte le scene indimenticabili (come la semina sotto la prima nevicata, un gesto consumato come in una sacra funzione). (L'albero degli zoccoli, p. 51)
  • La forza del film è nei personaggi strampalati e nel gusto per le cose folli. Carroll descrive un mondo tanto eccentrico e privo di logica quanto divertente e ameno. Ma è un mondo che non può funzionare proprio per la mancanza completa di logica. Nel film questo messaggio risulta un po' sfocato ma alcuni dei personaggi che compaiono sono talmente indovinati da far dimenticare l'originale: un numero enorme di figure sfilano durante la visione e nessuna, in fondo, ha una vera storia da raccontare. Alla sua uscita il film lasciò perplessi per la struttura anarcoide che lo rende frammentario e quasi privo di trama. La follia elevata a protagonista non riesce sempre ad essere convincente. In fondo il personaggio di Alice non ha la forza innata comune alla eroine disneyane, la loro credibilità, la loro vita. Alla fine degli anni Sessanta questo film fantastico e strampalato fu amato moltissimo dalla generazione dei "figli dei fiori", che nelle gag, nel ritmo indiavolato e proprio nell'illogico che impregna il film trovarono il loro mondo ideale. (Alice nel Paese delle Meraviglie, pp. 58-59)
  • Il grande realismo e l'assoluta attenzione alla verità ne fanno un film di sapore europeo. In questo caso è un grande valore aggiunto. (All'ovest niente di nuovo, p. 71)
  • Il tenue filo che lega i nove episodi del film è costituito da un rivenditore di libri usati che presenta alcuni volumi. Per ognuno Blasetti ha saputo trovare la giusta chiave narrativa, ben sostenuto da un gruppo di attori di prim'ordine. (Altri tempi, p. 77)
  • Un tipico prodotto hollywoodiano, confezionato per infondere fiducia nel domani. La storia narrata da Dieterle non si discosta molto da quella di decine di altri film: lui e lei, afflitti da guai e problemi non da poco, si incontrano per caso e trovano, insieme, la forza di andare avanti. (Al tuo ritorno, p. 78)
  • Eccessivamente patinato e raffinato, il film però perde di vista il calore emotivo del rapporto d'amore presente nel romanzo della Duras. (L'amante, p. 80)
  • Il film è del 1930. È il grande momento della Germania, della Repubblica di Weimar che rappresenta la più alta manifestazione culturale del nostro secolo. Un vero fenomeno, una sorta di Rinascimento del diciannovesimo secolo. Letteratura, teatro, pittura, design, scienze, cinema: Weimar detta nuove regole al mondo. Sono invenzioni fondamentali i cui segni rimangono vivi e attivi anche nel nostro tempo. Una delle parole chiave è "espressionismo". Un gruppo di autori di lingua tedesca come Lang, Murnau e von Sternberg trova questa nuova forma, mediata dalle arti figurative, importantissima, decisiva. Molti di questi autori, dopo il 1933, con l'avvento di Hitler, abbandoneranno il loro paese portando la corrente in tutto il mondo civile, soprattutto in America. Marlene Dietrich arrivava nel momento più opportuno, a rappresentare qualcosa di ben più vasto di una parte in un film. Catalizzava fisicamente quella tendenza. Ne era, forse inconsapevolmente, una sorta di sintesi. Veniva da ruoli insignificanti e si trovò titolare di un personaggio, Lola Lola, che avrebbe costruito un precedente imprescindibile tramandato per decenni dalla stessa Dietrich e imitato con assoluta trasparenza. I grandi segni erano: cappello a cilindro, calze e giarrettiere nere, boa di piume. Di suo l'attrice ci mise una voce roca e profonda, una carnagione bianchissima di contrasto e due gambe notevoli. [...] Fra le tante imitazioni di Lola Lola una in particolare si fa ricordare: quella di Liza Minnelli in Cabaret. Emigrata in America, insieme al suo scopritore Sternberg, Marlene divenne (come la Garbo e la Bergman) una delle grandi conquistatrici europee di Hollywood, partner dei massimi divi dell'epoca. Quasi sessantenne, mostrava ancore quelle gambe. (L'angelo azzurro, p. 133)
  • [...] Bette Davis qui in una (anzi in due) delle sue più belle interpretazioni. (L'anima e il volto, p. 137)
  • Nonostante la biografia del Santo sia circoscritta agli ultimi anni della sua vita e alcuni elementi della trattazione siano dichiaratamente inventati, piace l'approccio scelto dal regista: invece di cedere alla facile tentazione di spettacolarizzare la figura, proponendolo come mero "miracle maker", con tutto quello che avrebbe potuto conseguirne, Belluco sceglie di focalizzare l'attenzione sull'umanità, i sentimenti, le paure e le emozioni provate dal protagonista, che appare assai fragile, tormentato e realistico. (Antonio, guerriero di Dio, p. 149)
  • Il film di Ichikawa stempera le visioni degli orrori della guerra in una sorta di contemplazione assorta e ieratica. È forse il film più pacifista sul conflitto mondiale degli ultimi quarant'anni, venato di una tristezza infinita che accomuna cristianamente amici e nemici. (L'arpa birmana, p. 169)
  • Un gruppo impressionante di attori e di mezzi per questo film [...]. Anche il più bravo giallista non potrebbe alla fine trovare il colpevole. C'è davvero una grossa sorpresa. Albert Finney, ancora giovane e aitante, cerca disperatamente di stringersi e invecchiarsi per entrare nei panni dell'ispettore Poirot. A parte questo, Finney è bravissimo. Un film estremamente divertente. (Assassinio sull'Orient Express, p. 181)
  • Un film che ha rivelato qualità davvero particolari, tanto da diventare un campione di incassi valorizzato anche dalla critica. Certo, Babe è un magnifico esempio; attraverso la sua vicenda e quella della fattoria emerge un modo positivo, forte, a volte anche eroico di affrontare la vita: la famiglia è visitata anche da avversità e dolori, ma tutto viene accettato, con coraggio e dignità. (Babe - Maialino coraggioso, p. 218)
  • In attesa dei più che buoni ascolti televisivi, Panariello si cuce addosso un film di serie B che non va al di là di una serie di sketch. (Bagnomaria, p. 225)
  • Diciamolo subito, questo "caso" è un film porno, né più né meno. La qualità delle "attrici" è quella – se avessero miglior qualità farebbero film migliori […]. (Baise moi - Scopami, p. 225)
  • Discreto film di Brooks, che non ha più il genio degli esordi, ma comunque molto mestiere. (Balle spaziali, p. 230)
  • È un segnale significativo e disgraziato dello stato del nostro Paese negli anni Novanta. Io che scrivo dico che mai sono uscito da una sala con un malessere così profondo. E confesso il grande disagio perché sono costretto a scrivere, e lungamente, di questo "film", diventando a mia volta involontario complice dell'associazione a delinquere. (Bambola, p. 232)
  • Splendidamente diretto da Kazan questo film è uno dei primi esempi di quel genere che negli anni Cinquanta avrebbe fatto epoca e dato capolavori come Un tram che si chiama desiderio, Viva Zapata e Fronte del porto, tutti diretti dallo stesso regista. (Bandiera gialla, p. 237)
  • La scrittrice, con istinti omicidi e con una sessualità al calor bianco (tanto esibita quanto gelida), è tornata. (Basic Instinct 2, p. 246)
  • Sorprendente caso di promozione internettiana per un superindipendente che ha sbancato, dando vita anche a un sequel. Il fenomeno principale del nuovo cinema, girato come real fiction. Si finge il ritrovamento di videocamere in un bosco dove è successo qualcosa, qualcosa di terribile. Che cosa? Non interessa né agli autori né agli spettatori. Quel che conta è il clima, l'atmosfera. È come vendere al prezzo di un Van Gogh una cornice. Impresa geniale, no? (The Blair Witch Project, p. 286)
  • Un film tendenzialmente idiota con molti videoclip pseudo-erotici. Di trasgressivo proprio nulla. [...] Sia Kim Basinger, finita in tribunale per rottura di contratto, che Madonna si sono rifiutate di interpretare la parte di Sherilyn Fenn. Non si può far altro che dar loro ragione. (Boxing Helena, p. 302)
  • [...] imprevedibile, ma non troppo. (Caccia al ladro, p. 327)
  • Ricavato da un romanzo di Delfino Cinelli, il film pretende di nobilitare il melodramma di fondo (un famoso pittore diviene l'amante d'una ragazza che potrà sposare, riunendosi a lei e al bambino nato nel frattempo, solo dopo essere stato ferito in guerra) indugiando in particolari descrittivi. (Calafuria, p. 335)
  • Al suo secondo film, Fabrizi – dopo il tranviere – impersona un pescivendolo, cioè ancora un personaggio di immediata e schietta estrazione popolare. Stesso l'ambito produttivo di Avanti c'è posto, stesso il regista, stessa la matrice bozzettistica (ma tra i collaboratori figura Fellini). Da una vicenda tutta prevedibile e in parte melensa (il protagonista s'invaghisce d'una signora della buona società, ma ne resterà deluso e accetterà il legame con una impetuosa fruttivendola) emergono alcune sequenze di brulicante umanità. (Campo de' fiori, p. 345)
  • Hanks guarda dritto l'obiettivo mentre finisce il film. Chissà quale sarà il destino. Se c'è una metafora è proprio questa: si può ricominciare. E c'è dell'altro: l'isola solitaria non è un paradiso perduto, è un inferno. Valgono di più i rapporti. Meglio se si trasformano in sentimenti forti. Ed è questa la differenza con Robinson Crusoe, che trecento anni prima lasciava la sua isola, dopo ventotto anni, a malincuore. Spaventoso (dunque magnifico) l'incidente aereo. E quell'isola sempre grigia, sempre tempestosa. Hanks, come e più di sempre, straordinario. (Cast Away, p. 386)
  • Il genio ha colpito ancora. Dopo più di vent'anni di carriera c'è veramente da togliersi il cappello davanti ad un uomo, prima ancora che regista, capace come nessuno mai prima nel campo del cinema d'animazione (e non solo) di riuscire a centrare sempre e comunque l'obbiettivo che ogni cineasta dovrebbe avere come scopo unico: emozionare. E di emozioni, quest'opera di Hayao Miyazaki ne offre davvero. Howl's Moving Castle è un ulteriore tassello nel mosaico che il regista giapponese sta componendo col passare degli anni, che mescola l'attenzione alle tematiche ambientali, all'utilizzo malsano della tecnologia, che propone esseri umani calati in universi fantastici ed immaginari, dove creature soprannaturali insegnano all'uomo come vivere e quali valori seguire e difendere. (Il castello errante di Howl, pp. 387-388)
  • [...] il film venne maltrattato alla prima uscita dalla critica, che lo considerò troppo sentimentale, troppo inferiore al precedente Massacro di Fort Apache. Oggi ci appare come uno splendido racconto d'avventure con un John Wayne quarantenne che fa ottimamente il sessantenne. (I cavalieri del Nord Ovest, p. 397)
  • Avanza la ferrovia che unirà le due coste degli Stati Uniti. Nel campionario umano composto da fuorilegge, avventurieri e ambiziosi uomini d'affari, emergono le figure di un meticcio, che insegue l'uomo che gli ha ucciso il padre, e di una giovane vedova, che rappresenterà il futuro di una società che cancella per sempre i suoi eroi. Questa la succinta trama di un film che ne ha più di una. Sergio Leone, dotato di una certa muscolarità espressiva, ha i suoi limiti nel manierismo che accompagna ogni suo film. Cinismo, violenza e autocompiacimento sono conditi dalla musica ingombrante del suo omologo in campo musicale, Ennio Morricone. Ogni soluzione è affidata al sensazionalismo. Il montaggio è solo un espediente per le anime semplici. Quello che si può ottimisticamente definire neo-espressionismo è mutuato dal cinema russo e, perché no?, da Orson Welles. Ma è solo un metodo applicato a una causa sbagliata. E tutti questi supposti valori si sciolgono come neve al sole di fronte a un B-movie western, realizzato però negli States. Certi temi, vedi il western, sono congeniti e appartengono alla memoria storica di una nazione. Nel caso di C'era una volta il West, fino ad allora l'opera più ambiziosa di Leone, il mix di tutti gli ingredienti della sua cucina risultano indigesti a causa dell'insopportabile sentimentalismo che inonda la pellicola, con la complicità della troppo lodata Claudia Cardinale. Non basta andare in America e relegare Henry Fonda nel ruolo del cattivo. E con Dario Argento tra gli sceneggiatori non si va lontano. Paolo Stoppa è il più incredibile trapper della storia del west cinematografico. È come fare l'Amleto con John Goodman. Sequenze famose come quella finale, presa pari pari da Duello al sole di Vidor, sembrano un furto più che un omaggio. C'era una volta il West ha i titoli più lunghi della storia del cinema. Diciassette minuti di narcisismo registico, con notevoli caratteristi americani a fare da manichini per i giochini grafici della fotografia di Delli Colli. Una gamba in primissimo piano e l'antagonista sul fondo, nello spazio amatoriale concesso dal cinemascope. L'epica scriteriata del film ha l'anima intinta nei sobborghi romani. Un cult movie per ragionieri in vena di poesia. (C'era una volta il West, p. 405)
  • Un attore minore, Jason Evers, recita, produce, dirige, sceneggia (le ultime tre cose sotto pseudonimo) questo horror che tratta in modo triviale un'idea discreta. (Il cervello che non voleva morire, p. 410)
  • Grande successo all'epoca e grande interpretazione di Stewart, che si apprestava a fare il gran salto da giovane ingenuo "alla Capra" a uomo del West. Gli ultimi dieci minuti del film sono entusiamanti. (Chiamate Nord 777, p. 420)
  • Solo Dashiell Hammett, autore del romanzo e padre del poliziesco hard-boiled, poteva descrivere senza mezzi termini il mondo in putrefazione del potere. Solo lui poteva concepire un eroe che si mantenesse così leale al valore dell'amicizia di fronte alle tentazioni del denaro e del successo. Beaumont è più simile al Sam Spade de Il falcone maltese, avvezzo alla falsità ma fedele al proprio codice etico, che all'ironico Nick Charles de L'uomo ombra, entrato col matrimonio in una classe sociale superiore. Qui, senza perdere il gusto della narrazione, il giallo diventa specchio di quella società che Hammett aveva esplorato nel suo lavoro di investigatore. E, come i suoi personaggi, durante il maccartismo Hammett si manterrà fedele ai suoi princìpi, pagando con il carcere il diritto di denunciare ipocrisia e corruzione. Pochi come il romanziere Jonathan Latimer, abile nel portare opere altrui sullo schermo, potevano scrivere una simile sceneggiatura senza tradire il soggetto. Anche il pestaggio di Ed viene presentato con una durezza che soltanto Sergio Leone nel suo primo western (costruito sulla trama di Piombo e sangue di Hammett) oserà rappresentare al cinema. L'unico spazio al sentimento è aperto dalla collaudata coppia Ladd-Lake, cui è affidato il compito di chiudere con un lieto fine. (La chiave di vetro, p. 421)
  • Il film è diventato un vero fenomeno di incassi, record italiano assoluto, ma non solo. Ha confermato la prevalenza dell'idioma toscano nel nostro cinema (I Cecchi Gori c'entreranno pure qualcosa) e riconfermato il precedente Laureati di Pieraccioni. Questo successo abnorme ha comunque delle spiegazioni. Una è il naturale "volano" del film (che ha tenuto le sale per un anno), che a un certo punto "deve" essere visto da tutti perché fa moda. Poi naturalmente c'è la grana della regia e della storia. Si può parlare di film medio che manca al nostro cinema, di sapori di commedia all'italiana eccetera, ma in questo caso c'è una ragione "tattile", immediata, che capiscono tutti subito: è un film pulito, fuori dai contesti grigi, tristi, omologati, spesso malamente sociali del cinema nostrano. Presenta qualcosa che non si vedeva dai tempi di Poveri ma belli: la felicità di vivere. Una felicità, che non sarà aderente al nostro momento storico, ma è una bella fortuna che qualcuno ce la descriva almeno nella finzione. Certo, come rovescio della medaglia abbiamo dovuto affrontare il potente riflusso-marketing con la Estrada che ci ha assediato dalle tv, dai manifesti e dalle passerelle di moda, ma tant'è, certe vie sono obbligate. (Il ciclone, p. 432)
  • Tratto da un romanzo di Richard Llewellyn e indubbiamente migliorato da Ford, il film rappresenta, insieme a Furore e a Un uomo tranquillo, il momento più alto della storia (non-western) del regista. Con tutte le tematiche rese nobili dalla felicità del racconto. Vi sono istantanee di grande efficacia poetica, come quando la famiglia scende a casa dalle miniere cantando e la madre raccoglie in un grembiule il guadagno della giornata, o la lezione di boxe data al cattivo insegnante del ragazzo, o la purissima storia d'amore del pastore protestante con Maureen O'Hara. La famiglia, la disciplina, il senso religioso, e poi l'inevitabile evoluzione che tutto trasforma e tutto conduce a termine. Una parabola sulla fatica, il dolore e la rinuncia. Il mondo degli adulti ossevato dal ragazzo nel suo angolo, con l'ingenuità nella quale Ford si è sempre riconosciuto e che, nel tempo, gli è stata persino rimproverata da una certa critica. Ford faceva discorsi semplici, ma colti ed efficaci. Il vecchio patriarca Morgan non sopporta le astruse dottrine socialiste che hanno fatto presa sui figli, e li lascia partire. Ford venne subito accusato di fascismo, ma il regista ci rideva sopra. In quel contesto era buon senso, così com'era buon senso il populismo in Furore. (Com'era verde la mia valle, pp. 480-481)
  • Ponderoso dramma storico allestito con grandi mezzi, ma con minimi risultati artistici. I due personaggi principali non sono (per diverse ragioni) granché simpatici e nemmeno i due divi girano al meglio: forse perché litigarono ferocemente fra una scena e l'altra (il dongiovanni Flynn non considerava la Davis donna appetibile e lo dava a vedere fin troppo chiaramente). (Il conte di Essex, p. 504)
  • Uno dei classici del famoso genere noir. Film di ottima atmosfera grazie anche all'intervento di Raymond Chandler, il grande giallista padre del detective Marlowe. Ma soprattutto grazie alla bravura di Alan Ladd, un attore le cui attitudini non sono mai state riconosciute. La sceneggiatura di Chandler dava alla storia svolte imprevedibili e al dialogo un colore particolare. Funzionale era anche la presenza di Veronica Lake, triste e misteriosa come il suo partner. Da ricordare infine la prova di William Bendix, presente in molti noir dell'epoca, un grande caratterista. La dalia azzurra, girato senza grande profusione di mezzi, vive di pura storia e di interpretazioni, un piccolo capolavoro costruito con grande intelligenza e piccolo budget. (La dalia azzurra, p. 556)
  • Sicuramente film d'attori, tutti al massimo delle loro possibilità con stili a confronto. Clift, con la tensione interna di matrice Actor's Studio, Sinatra, letteralmente miracolato da questo ruolo che lo rilanciò dopo un brutto periodo, Deborah Kerr, attrice e diva inglese affascinante e morbosa, e soprattutto Lancaster, capace di esprimersi nell'azione esattamente come in tutti gli altri esercizi di attore. Fra le tante sequenze che si ricordano una fa parte della più bella mitologia: la scena fra Lancaster e Kerr che si baciano nella risacca. (Da qui all'eternità, p. 564)
  • Caratteristica fondamentale di questo quarto lungometraggio di Sam Raimi è la contaminazione di generi. Oltre al fantastico e all'horror, troviamo infatti l'avventura, il sentimento, la commedia e il poliziesco. I riferimenti cinematografici si sprecano, come pure le citazioni. Non manca neppure l'ironia de La casa 2 e I criminali più pazzi del mondo (sceneggiato dai fratelli Coen). La bravura tecnica ed espressiva di questo talento della nuova generazione è fuori discussione e il personaggio di Peyton, anche grazie all'interpretazione di Neeson, ha una profondità notevole. (Darkman, p. 565)
  • Il dèjà vu è un mero pretesto per raggiungere l'happy end sentimentale. (Déjà vu - Corsa contro il tempo, p. 574)
  • […] è uno splendido poema epico sulla sintonia dell'uomo con la natura. Una scena in particolare (quella della tormenta) fa ormai testo. (Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure, p. 586)
  • Cecil Blount De Mille è un regista che ha firmato opere di grandissima popolarità che, paradossalmente, non sono le sue migliori. Tutti ricordano i suoi "colossi" come Sansone e Dalila, ma personalmente ritengo che De Mille abbia dato il meglio nei western, dove aveva una sua misura particolare e grande riconoscibilità. Basta ricordare La conquista del West, un western del '36 già perfettamente adulto, tre anni prima di Ombre rosse [...]. Tuttavia dicendo De Mille si dice Dieci comandamenti, che è un'opera meritevolissima, beninteso, un titolo che non ha mai trovato posto in nessuna delle classifiche nobili, proprio per le sue caratteristiche di troppa spettacolarità, popolarità, artificio. De Mille voleva soltanto piacere al pubblico, dargli ciò che voleva. John Ford riconosceva questa sua capacità, e in un certo senso gliela invidiava. Nei Dieci comandamenti tutto è perfetto: l'aspetto degli attori, i costumi, le armi, la natura, gli edifici, i trucchi, la musica, le inquadrature. È tutto così stilizzato e calligrafico da far invidia al più avanzato dei registi pubblicitari. [...] La saga e il racconto sono grandissimi. Si rimprovera al regista una certa prolissità (quasi quattro ore la durata del film), ma ci sono momenti di alto significato, sul piano delle immagini (Mosè che chiede l'aiuto di Dio nella tempesta, l'incisione delle tavole, le scene d'esodo). Ci sono anche tratti di grande forza, quasi da tragedia greca, seppur fortemente hollywoodiani. De Mille era un fervente cattolico e attribuiva ai suoi film un preciso valore in quel senso. Ci fu chi disse che il regista era stato un paladino della fede più del papa. (I dieci comandamenti, p. 604)
  • Uno dei capolavori assoluti del cinema di tutti i tempi. Il rigore nella ricerca delle immagini (ispirata alla grande pittura fiamminga), la fotografia del paesaggio, la forza e l'intelligenza delle idee espresse dall'autore fanno di Dies Irae un film memorabile. (Dies irae, p. 607)
  • Titolo fondamentale del cinema italiano e del mondo. Dopo una serie di film che possiamo definire di "perfezionamento e ricerca", Fellini rappresenta il dolore con segnali universali. Le sue angosce in prima persona trovano manifestazioni simboliche che si trasferiscono a tutti. Il caos, la vita "arruffata", il tentativo di integrarsi in qualche modo con gli altri, la tensione di fare qualcosa che non è mai chiara ma che va fatta, la pigrizia per la consapevolezza che anche centrando l'obiettivo... l'obiettivo alla fine non c'è. Il mito ha poi rilanciato ogni sequenza del film in tutto il mondo dando del nostro cinema e indirettamente del nostro paese un quadro diverso rispetto a quello della stagione del neorealismo. (La dolce vita, p. 628)
  • È il primo film del genere "spiaggia", poi ripreso (anche troppo) negli anni Sessanta. Ma qui c'è molto di più: i toni del neorealismo sono ancora vigorosi e attendibili, i ritmi del racconto straordinariamente equilibrati. Da ricordare l'interpretazione di Emilio Cigoli, il grande doppiatore, nella parte del papà affettuoso. (Domenica d'agosto, p. 631)
  • Pellicola cannata da Grimaldi. Giulia (la Cannata, appunto) diventa licantropa e, nottetempo, cerca vittime maschili. Le vere vittime sono gli spettatori. (La donna lupo, p. 645)
  • È probabilmente il più significativo lavoro di Capra e uno degli indiscussi capolavori del cinema americano. Mr. Deeds rappresenta l'americano buono e semplice ma capace di farsi rispettare, colui che da solo combatte contro un sistema palesemente ingiusto, lontano da tutti i valori umani. Memorabile l'interpretazione di Gary Cooper. (È arrivata la felicità, p. 690)
  • Sean Connery è un anziano scassinatore, che diventa socio di una giovane ladra che ha rubato un Rembrandt superando un complicato sistema di allarme. Tra i colpi di scena e doppi giochi i due realizzano un'operazione del valore di molti miliardi di dollari. Il regista di Sommersby e Copycat torna con un film a metà strada tra Mission Impossible e Topkapi. Catherine Zeta-Jones si era fatta notare, prima di questo film, nell'ultima versione di Zorro con Banderas e Hopkins. (Entrapment - In trappola, p. 708)
  • Prequel dell'illustre capostipite, avvalendosi di qualche spunto originale risulta a conti fatti il più riuscito tra i mediocri tentativi di replicare le atmosfere del primo episodio. (L'esorcista - La genesi, p. 721)
  • Tratto dal romanzo di Balzac, questo film non concede nulla allo spettacolo. È scarno e pulito, si preoccupa solo di raccontare la verità. I protagonisti sono misurati e rigorosi. La straordinaria analisi di Balzac sull'avarizia di papà Grandet viene tradotta in pellicola con acume ed efficacia. È l'esemplare lavoro di un regista la cui bravura non è mai stata riconosciuta in giusta misura. (Eugenia Grandet, p. 729)
  • Picchiarsi per stare meglio: questo l'assunto del film. Dopo il successo, in parte inaspettato, di Seven, Fincher ripercorre e perfeziona la violenza. Pitt è semplicemente il diavolo: forte, astuto, bello e violento. Norton ne rimane sedotto. Nota di costume sulla pratica di scaricamento delle tensioni con scarico di pugni. Machismo imperante. Suggestioni da palestra di pugilato. Ideologia atta a suscitare polemiche. Ben diretto e ben interpretato. (Fight Club, p. 773)
  • La nascita nella grotta di Betlemme, la predicazione, il martirio di Gesù Cristo narrati con discreta dignità artistica. (Il figlio dell'uomo, p. 780)
  • È un'espressione esemplare del grande cinema di mestiere hollywoodiano. Un grande romanzo, di un grande scrittore, tradotto secondo le regole del grande cinema. La voce fuori campo rappresenta un altro esercizio strano e splendido. Il fraseggio della scrittura viene ridotto allo spazio della necessità del film, un'operazione che solo apparentemente è blasfema. La sintesi che ne risulta, rispetto al racconto, spesso è più efficace del romanzo stesso. (Il filo del rasoio, p. 783)
  • Non molto adatto per un dramma, il comico Bill Murray, pur mettendocela tutta, non può in nessun modo emulare, anche se non era nelle intenzioni, il grande Tyrone. La migliore sul campo è Theresa Russell. (Il filo del rasoio, p. 783)
  • Quando Sakaguchi è comparso sul palco della Piazza Grande di Locarno più d'uno ha desiderato che fosse un essere virtuale. Invece no. È reale ed è pronto a regalarci nuove virtualità senza virtù. (Final Fantasy: The Spirits Within, p. 784)
  • Il regista Mayo riuscì a mantenere intatte le caratteristiche teatrali dell'opera (il film è tratto dall'omonimo lavoro di Sherwood). Bogart, quasi agli esordi, fu efficacissimo, anche se poi dovette aspettare una decina d'anni per affermarsi del tutto. (La foresta pietrificata, p. 803)
  • Pecoreccio e insulso. (Fotografando Patrizia, p. 809)
  • La storia di San Francesco reinterpretata da Franco Zeffirelli vuole essere una sorta di allegoria della contestazione giovanile dei nostri anni. Francesco ricorda molto gli hippies di Hair ed è quasi obbligatorio ripensare a Jesus Christ Superstar. (Fratello sole, sorella luna, p. 818)
  • Un altro film senza il quale il cinema non sarebbe il cinema. Tratto dal romanzo di John Steinbeck viene portato sullo schermo da un regista di pari grandezza e prestigio. Il film è rigorosissimo culturalmente e formalmente: sembra di guardare le vecchie foto dell'epoca. Il regista ha puntato sul particolare, sui piccoli discorsi di miseria visibile, lasciando che i grandi temi ne venissero di conseguenza. Il cinema accoglie nel suo mito alcune situazioni tanto forti e perfette da non essere ripetibili, come la sepoltura del vecchio nonno, oppure l'immagine del camion-casa nelle strade delle infinite pianure, il ballo di Fonda con la madre (Darwell, premio Oscar), o la scena finale di Tom che percorre la collina andandosene, mentre il sole sta nascendo. Furore non è un documento del cinema, è un documento generale di storia. Con questo film Ford vinse l'Oscar e si pose come uno dei massimi autori assoluti. Quando una certa critica ha tacciato, durante la sua lunga e articolata attività, il regista di faziosità, manicheismo, persino fascismo, sarebbe bastato ricordare Furore, grandissimo manifesto populista. Ford non era fascista e non era comunista, stava dalla parte di quella che riteneva la giustizia, si fidava del proprio buon senso e giudizio. La sua apparente semplicità era ricchezza. Anche adesso il suo mondo è condivisibile e non è mai lontano. Quanto manca Ford. (Furore, p. 839)
  • Un film commovente e poetico, di grande tensione drammatica soprattutto nel finale. Era il primo ruolo "serio" di De Sica, che ne aveva paura. L'attore superò la prova benissimo grazie anche alla mano esperta di Rossellini. (Il generale Della Rovere, p. 851)
  • Una scelta coraggiosa e per nulla commerciale quella di Olmi. Evitando i classici metodi di epicità, attraverso i quali la Sacra Bibbia è sempre stata rappresentata, cerca di entrare in un'atmosfera ascetica. Essendo un libro trasmesso oralmente di generazione in generazione, il regista dà molto spazio alla voce narrante, con una musica etnica che ricorda le atmosfere new-age e la colonna sonora di L'ultima tentazione di Cristo di Peter Gabriel, nei momenti più tenui. Parte dalla creazione, come testimonia il titolo, e arriva a Noè, interpretato da Antonutti. Un'operazione particolare che può anche deludere ma che va rispettata. (Genesi: La creazione e il diluvio, p. 852)
  • È un raccontino molto modesto che svolge in immagini mai suggestive la vicenda biblica. (Giacobbe, l'uomo che lottò con Dio, p. 859)
  • La vita di Gesù fino all'età adulta. Gira il mondo (?), beve e balla (?), stupisce i saggi. Conosce la vita. Una buona idea per una realizzazione piatta e povera. Luoghi comuni, una letteratura banale con grandi citazioni astratte, e invenzioni che dovrebbero stupire invece sono pallidi tentativi di demagogia. Stuart intenso ma troppo frenetico e sanguigno. Non si hanno grandi informazioni, ma Gesù era certamente molto diverso da lui. (I giardini dell'Eden, p. 861)
  • Raccontino edificante, girato con tocchi imprevedibilmente felici da Ralph Nelson. (I gigli del campo, p. 865)
  • Come spesso succede, i film di culto, questo compreso, hanno un plot mélo, banale e scontato. Bisogna dunque pensare che questa sia una delle chiavi del successo. Baci e schiaffi (reciproci) famosi; frasi come: «... ti amo tanto che un giorno ne morirò, Johnny», abiti da sera e tango, feste in maschera, roulette e passione: erano ingredienti conosciuti, portatori di mito. E in più lei, Rita. Basta ricordarla cantare Amado mio per capire tutto. Per anni, le orchestre nelle sale da ballo di tutto il mondo aprirono e chiusero il repertorio con quella canzone. Rita è un'altra delle immagini chiave del Novecento. Perfetta, irripetibile e non ricostruibile. Ci vorrebbe ancora lei. E ci vorrebbe il cinema di quegli anni freschi di dopoguerra. (Gilda, p. 866)
  • Una storiella discreta appesantita da troppi artifici alla Lee e dalla presenza, ormai obbligatoria, e stucchevole, del cameo di Tarantino. (Girl 6 - Sesso in linea, p. 884)
  • Superproduzione coi suoi bravi messaggi ecologici. Grandi incassi negli USA. Ma che barba... (Godzilla, p. 897)
  • Ben Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa, riesce a distinguersi, mostrando buona attitudine nelle parti d'azione e una certa capacità di leggere i sentimenti. (Gone Baby Gone, p. 899)
  • Campione di incassi in Germania. Che fare quando la storia va avanti per tenere tranquilli coloro i quali credevano di essere nel giusto? Raccontargli menzogne come gli venivano raccontate prima. Satira ben calibrata che i tedeschi (e in particolare i berlinesi) hanno gradito moltissimo. (Good Bye, Lenin!, p. 900)
  • Grandissimo film, il più significativo di Antonioni insieme all'Avventura. Esemplare la rappresentazione della natura mai così protagonista: Aldo, con la sua giacca sdrucita, con la sua bambina che gli trotterella dietro, cammina nelle terre del Po, fra i filari, sull'argine, nel fango, lontano ci sono i paesi. Incontra la gente e ogni incontro è una nuova direzione. Tutto è determinato dal caso. Gli amori sono piccoli e tristi, e mai scelti. Ciò che sarebbe vitale sfugge, non è recuperabile. E c'è il vento, c'è la pioggia, tutto è difficile. E il caso, sempre, sovrintende. Lo stile, scarno ed essenziale, di lucida pulizia, trasmette il mondo di Antonioni attraverso parole e rapporti di una semplicità assoluta, non ci sono quasi discorsi, ci sono risposte e ci sono le azioni che tutto spiegano. E comunque niente serve, ognuno rimane dentro se stesso, i tentativi non approdano a nulla. Non ci si fa capire e le cose dipendono sempre dagli altri. E agli altri non importa della tua felicità. La caduta e la morte finale di Aldo forse sono sproporzionate al resto della storia, che non prende mai una via perentoria. Ma può essere la memoria di un certo cinema francese al quale alcuni nostri autori, almeno all'inizio, non hanno saputo sottrarsi. [...] Il grido mantiene ottima vedibilità a oltre cinquant'anni di distanza e vale come manifestazione di come eravamo in una stagione di cambiamenti ed espressione di smarrimento e di angoscia che valgono adesso come allora. (Il grido, pp. 921-922)
  • Psycho più Dieci piccoli indiani più Seven più I soliti sospetti. (Identità, p. 969)
  • Film intelligente, anticonformista ma tutt'altro che blasfemo. (L'inchiesta, p. 984)
  • È uno dei grandi film della cinematografia russa e del mondo. Un'opera d'arte pittorica di altissima "espressione". Eisenstein trasferiva in questo lavoro, dal sapore di tragedia greca e anche shakespeariana, tutto il suo bagaglio di uomo di cinema e di immagine tout court. Alcune sequenze fanno storia del cinema, come l'incoronazione di Ivan, con le monete d'oro che gli scivolano addosso per un tempo che sembra infinito. (Ivan il Terribile, pp. 1039-1040)
  • Il miglior Zeffirelli da decenni. Pulito, non ridondante, essenziale. Aderisce al tradizionale testo della Brönte persino con modestia. Il resto lo fanno la campagna, i castelli inglesi e William Hurt. (Jane Eyre, p. 1044)
  • Un film in origine a colori che arrivò da noi in bianco e nero. In America è considerato un capolavoro, in Italia è rimasto nei confini dell'ordinaria amministrazione. Henry Fonda (nella parte di Frank, fratello maggiore di Jess) diede un'interpretazione da antologia. (Jess il bandito, p. 1048)
  • Si raccontano le storie di sfortunate persone che entrano in contatto con una casa su cui aleggia una maledizione, legata a tragici eventi consumatisi in essa. La struttura in capitoli scandisce le vittime della maledizione e contribuisce a creare una funzionale atmosfera cadenzata. (Ju-on, p. 1057)
  • Ci fu una stagione in cui le classifiche nobili del cinema ponevano questo film al secondo posto a pari merito con La Febbre dell'oro, dietro l'immancabile Potemkin. Negli anni successivi, il suo fascino "populista" venne considerato suggestione e la verità venne considerata poesia. Poi venne "corretta" l'interpretazione di ciò che il film rappresentava, anche fuori dal nostro paese, con un'istantanea dell'Italia del dopoguerra ritenuta misera, persino squallida. Dunque nelle classifiche di volta in volta compilate il film scendeva continuamente. Era responsabilità di gran parte della critica che ha giudicato i film secondo il momento politico. Per molto tempo il sentimento è stato una sorta di veleno per la pellicola. Ora, al di là di tutto, Ladri di biciclette rimane un lavoro di bellezza assoluta, come manifesto sociale nel quadro del suo tempo, come opera cinematografica e come monumento della storia dell'arte generale. [...] In sostanza il film è davvero un mito generale, fa parte di tutte le memorie di comunicazione. Le scene da ricordare sono praticamente tutte quelle del film: dalla ricerca fra migliaia di biciclette di Porta Portese, al pasto di padre e figlio nella trattoria fino alla sequenza finale del bambino che tiene la mano del padre. (Ladri di biciclette, p. 1078)
  • Grosso successo commerciale (dovuto più che altro alle esibizioni dei giovani protagonisti in costume adamitico). (Laguna blu, p. 1082)
  • [Zhāng Yìmóu] Un regista [...] che può essere confrontato, pur non essendo giapponese, al grande Akira Kurosawa. [...] Il film è da ritenersi un capolavoro soprattutto formale. Le riprese sono simmetriche, secondo lo stile dei grandi fotografi, quale, appunto, il regista è stato. (Lanterne rosse, p. 1085)
  • Ispirato a Swift e a Verne, il primo lungometraggio prodotto dallo Studio Ghibli (nato per volontà dello stesso Miyazaki e punto di riferimento per tutti gli appassionati di animazione del mondo) narra la vicenda di due ragazzi (Pazu e Sheeta) e della loro ricerca dell'isola/fortezza volante di Laputa. [...] Nonostante l'ambientazione tecnologica e avventurosa, anche in Laputa il tema ambientalista è dominante: la fortezza resta disabitata e accoglie al suo interno una natura selvaggia e incontaminata ed i cattivi di turno fanno una brutta fine. Come in tutti i film del regista colpisce l'approfondimento psicologico dei personaggi, la sublime tecnica realizzativa e l'abilità di Miyazaki nell'alternare scene drammatiche e momenti leggeri e divertenti. Il protagonista maschile è ricalcato sia nei tratti somatici che in quelli caratteriali sull'immagine di un altro eroe miyazakiano, Conan [...]. (Laputa - Castello nel cielo, pp. 1085-1086)
  • C'era una volta Stephen Frears, regista capace di raccontare in modo scanzonato, ma mai banale, le vicende di nuclei familiari un po' sui generis. La vita, insomma. Si ha l'impressione che si sia perso un talento e sia rimasto solo un professionista di qualità. (Liam, p. 1106)
  • Con La lingua del santo Mazzacurati ci dimostra come si possa fare cinema in Italia a partire dalla tradizione ma guardando in avanti. La commedia? C'è: sia nel ritratto della provincia veneta, che nei volti dei due protagonisti, Willy/Fabrizio Bentivoglio e Antonio/Antonio Albanese. La comicità amara di tanto cinema italiano passato? C'è pure quella: in Italia non siamo mai riusciti a riderci addosso senza (anche) piangerci addosso. Il tutto si fonde bene perché ci sono due nuovi elementi, sempre più presenti nel (futuro del) cinema italiano d'oggi: il gusto del grottesco e la voglia di comunicare sentimenti autentici, senza più nascondersi dietro le maschere di tanti passati cliché. Ed allora il road-car&bike-movie che i due protagonisti effettuano a partire dalla città di Padova, per poi finire nella collina veneta, ed infine nella laguna veneziana ci racconta sia il contesto fuori che quello dentro. Che è condensato nei volti di due simpatici falliti che, fra un furtarello e l'altro, un giorno si trovano quasi per caso a rubare un'importante reliquia, la lingua del santo. (La lingua del santo, pp. 1110-1111)
  • Il romanzo di Nabokov ridotto in immagini sontuose, ma non sempre ispirate, da Stanley Kubrick. È forse l'opera meno interessante dell'autore di 2001 Odissea nello spazio, ridotto a fare l'illustratore, ancorché prestigioso. (Lolita, p. 1115)
  • Il film racconta la storia di quattro giovani vittime e sono, purtroppo, storie vere. Peter Mullan, dopo un film sopra le righe come Orphans, sceglie un registro molto più realistico e ci parla di ognuna di loro con lo stile di una camera a mano che rende ogni inquadratura cruda e dolorosa. Lo fa con la sensibilità e la partecipazione a un destino segnato dalle convenzioni sociali e morali che negano il rispetto, la fede e la libertà. (Magdalene, p. 1143)
  • Adattamento del romanzo di Antonio Fogazzaro con un cast di eccezione e una misurata e sapiente regia dello scrittore torinese Mario Soldati. Soldati riesce a ricreare magistralmente il crepuscolarismo di Fogazzaro tingendolo di sfumature surreali che imprimono al film un misterioso incanto, determinato anche dalla continue citazioni alla figurazione impressionista e macchiaola. Vetta indiscussa del cinema di Soldati che reinterpeta il grande cinema europeo di Feyder. (Malombra, p. 1156)
  • Rappresentava una svolta del cinema americano, attento a un certo realismo e a una fascia popolare e piccolo borghese fino allora tagliata fuori dalle storie raccontate nei film. (Marty, vita di un timido, p. 1181)
  • È considerato uno dei capolavori western di Ford, superato forse soltanto da Ombre rosse e da Sfida infernale. Henry Fonda fa il colonnello e toglie quasi tutto lo spazio a Wayne, relegato in una parte quasi da caratterista. Ruolo determinante ha invece la famosa "Valle dei monumenti". (Il massacro di Fort Apache, p. 1186)
  • Chi ha più di trent'anni fatica ad entrare nella "logica" del film. Chi ne ha meno replica: «è la logica del computer». Inserita in un mixer abilmente shakerato di filosofia orientale e arti marziali, di mitologia e di science fiction in cui il percorso che condurrà "oltre lo specchio" vede in Neo (vistoso anagramma di One) la neo-Alice travestita da Ulisse. Chi non ama gli effetti speciali ne trova troppi in questo film. Cinema patchwork quello dei Wachowski? Forse. Ma anche cinema capace di rappresentare un futuro che è già presente nella sua mescolanza (che non è amalgama) di dati, di esperienza e di cultura lontanissimi tra loro. Con un solo difetto di fondo. L'inevitabile, annunciato seguito di un'opera che dovrebbe invece restare un unicum. (Matrix, p. 1193)
  • Il regista Zinnemann non era uno specialista del genere e infatti Mezzogiorno non è una normale storia di frontiera, la sua è una comunicazione (senza indiani, senza praterie, senza cavalli) che potremmo definire "intellettuale". (Mezzogiorno di fuoco, p. 1211)
  • Film determinante e riformatore: girava la pagina della guerra. Il problema dei reduci era colossale. I giovani tornavano dal Pacifico e dall'Europa e portavano cambiamenti. Avevano visto cose diverse e rientravano in un paese diverso. Il reinserimento era difficile, per i soldati e per chi era rimasto a casa. Il produttore Samuel Goldwyn, attentissimo ai grandi fatti, e il regista William Wyler, la firma più sicura di Hollywood, affrontarono un tema davvero ricco: i milioni di storie individuali, vere e proprie sceneggiature bell'e pronte, e il grande desiderio di cambiamento che si porta una guerra. Lavorando febbrilmente per non farsi sorpassare dai fatti reali, e prendendo spunto da un libro di Mackinley Kantor non eccelso, la produzione costruì un film che rappresentò quel problema come nessun altro titolo sarebbe mai riuscito a fare. [...] Il romanzo di Kantor non prevedeva il lieto fine e Wyler era orientato ad aderire allo storia originale, ma, come spesso accadeva, da Washington arrivò l'invito per il lieto fine: non era davvero il caso di demoralizzare ulteriormente tutti quei giovani già carichi di problemi. Inaspettatamente l'ottimista e spensierata Hollywood si trovava immersa in problemi veri e dolorosi. Il cinema stava per diventare qualcosa di più di una spensierata evasione. (I migliori anni della nostra vita, pp. 1219-1220)
  • Delicata storia di due poco più che adolescenti, raccontata con garbo da Pawlikovsky, senza smarrire una certa originalità né una controllata dose di "disturbo". Le due ragazze sono molto brave, mai eccessive, e tengono i ruoli-tipo: Tamsin è leggiadra menzogna, Mona è tragica verità. Possono davvero amarsi le due cose? Forse sì, o forse è tutta una finzione, che lascia dietro di sé il più innocente dei cadaveri: la giovinezza. (My Summer of Love, p. 1292)
  • Sembra la favola di Cenerentola, ma il cosiddetto principe azzurro si rivela uno psicolabile. Per fortuna della sua signora, si toglie di mezzo da solo, facendosi schiacciare dal flipper. La vedova nel frattempo s'è già consolata con un dottore. Max Ophüls, in esilio a Hollywood, si prende una piccola vendetta con il big che gli aveva rotto l'anima, Howard Hughes (a cui allude neanche troppo velatamente). (Nella morsa, p. 1307)
  • Si tratta di un film molto importante e molto mirato. Hollywood accoglieva spesso le direttive di propaganda governative e quelli erano gli anni del terrore del comunismo. L'America era letteralmente invasa dalla sindrome della rivoluzione. Greta Garbo col suo immenso appeal fu efficacissima in quel senso. Ninotchka che beve champagne e si prova un incredibile cappellino, e poi, tornata a Mosca, divide casa (e gabinetto) con altre due famiglie, valeva molto più dei discorsi dei politici e dei proclami dell'intelligenza schierata. Il comunismo veniva ridicolizzato, e anche esorcizzato. Far politica divertendo, secondo quel genio di Lubitsch. Un'altra possibilità del cinema. La propaganda ebbe ancora bisogno di Ninotchka quando, esplosa la guerra fredda fra la fine degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta, si trattò di dare una rispolverata all'immagine povera, cattiva e prepotente del comunismo. Il film era sempre vedibile. E lo è ancora. E... non c'è più il comunismo. (Ninotchka, p. 1327)
  • Seguito di un famoso horror degli anni Settanta, con troppi urli ed effettacci per riuscire veramente terrificante. (Non aprite quella porta - Parte II, p. 1334)
  • Un film patinato, raffinato e furbetto, da gustare e rivivere a casa: sono entrate nella leggenda, ormai, le sequenze del ghiaccio, delle ciliegie, del miele e dello spogliarello di Kim Basinger in contro luce al suono della voce roca di Joe Cocker. Perfettamente in ruolo i due protagonisti, ottima la scelta delle musiche che ne ritmano e sottolineano le fatiche, splendida (e un po' ruffiana) la fotografia. (9 settimane e ½, p. 1363)
  • Sequel di un successo di nicchia, questo film inutile racconta lo scontro tra due gang di tatuati in Nuova Zelanda. (Once Were Warriors 2 - Cinque anni dopo, p. 1394)
  • Lo squallore di questo film è direttamente proporzionale alla sua inutilità. Eppure ha avuto un grande successo, specie in Italia, forse perché si tratta di una telenovela, hard-core ma non troppo, trasposta al cinema. (Orchidea selvaggia, p. 1405)
  • Tratto dal romanzo dell'americano James Cain, ripetutamente tradotto in film, è la prima opera di Visconti, da molti ritenuta la sua più importante e una delle maggiori del cinema italiano. Lavoro di straordinaria felicità a cominciare dalla secchezza dello stile, davvero inusitato allora, e dal realismo. Visconti, uomo di cultura, conoscenze e curiosità molto vaste, aveva appena finito la sua stagione di "apprendistato" presso Jean Renoir, maestro francese, ed era anche grande appassionato di "americanismo". Dunque Ossessione arriva dalla cultura francese, intellettuale e non prevedibile, da quella americana efficace e senza fronzoli, unita a quella italiana mediatrice e "drammaticamente equilibrata". Massimo Girotti, appena ventiquattrenne, e Clara Calamai (che sostituì all'ultimo momento Anna Magnani incinta) che camminano, scuri e infelici sulla riva del Po, fanno parte della liturgia del nostro cinema. (Ossessione, p. 1417)
  • Nicole Kidman è ormai un'attrice per tutte le stagioni. Non c'è ruolo, non c'è film che non la vedano protagonista efficace e versatile, capace di reggere sceneggiature d'autore così come film commerciali. È il caso di quest'opera che vuole consolidare il suo status di Grace Kelly degli anni Novanta, tenendo presente il bisogno di non far adagiare troppo a lungo il pubblico in poltrona. Brividi e colpo di scena non mancano. (The Others, p. 1419)
  • Gli episodi reali e quelli della memoria si alternano in una vetrina di caratteri che davvero non si possono dimenticare: il papà nel sogno, l'amico con l'amante giovane, la maga che gli legge nel pensiero la formula "Asa nisi masa". Infine ecco il grande girotondo da fiera, con tutti i personaggi che si tengono per mano, che gli girano intorno: tutto continua ed è vitale, ed è inutile drammatizzare sul grande palcoscenico della vita. è da molti ritenuto la più alta espressione di Fellini, più ancora della Dolce vita. Qui tutto si compie, tutti i misteri vengono identificati. Il mondo del regista si evolve da (più o meno) reale che era, sale di dimensione per diventare tutto. Tutto incredibilmente nella sua "prima persona", come una sorta di paradiso e inferno efficacissimi, onnicomprensivi: il cinema di Fellini è complice, misterioso e ruffiano, blasfemo e religioso, è puttaniere e crea disagio, è eroico e vigliacco, è uomo e donna, qualunquista, apolitico, periferico, olimpico e provinciale. Ma la soglia di fantasia, magia e sortilegio è altissima, raggiungibile solo da Fellini. (, p. 1421)
  • Un film non-biografico, come il regista ha voluto che fosse, in perenne equilibrio tra l'aspirazione a focalizzare la parola come momento di riflessione e comprensione, la stessa cui è stata sottratta forza comunicativa, ed un'impostazione visiva da cui è bandita ogni superficiale ricostruzione d'epoca. Palavra e utopia è una sfida ulteriore nella carriera del regista portoghese che tenta qui di registrare il pensiero nell'istante in cui si forma e seguirlo nel suo sviluppo successivo. Il cinema di de Oliveira è difficile, mai immediato ma neanche contorto né sterile. (Parole e utopia, p. 1446)
  • Il film di natale di Pieraccioni è l'ennesima variazione sul tema "coppia sì-coppia no", sul quale il comico toscano ha costruito la carriera. L'originalità, però, ormai latita. Unica nota positiva la presenza di Angie Cepeda, star delle telenovelas colombiane, di buona caratura e di statuaria bellezza. (Il paradiso all'improvviso, p. 1439)
  • Un gran bel film, tra le cose più intelligenti di fine secolo in Urss. (Pentimento, p. 1472)
Maila Nurmi in Plan 9 from Outer Space
  • Uno degli anti-capolavori di Ed Wood, il "peggior regista del mondo". Per utilizzare una breve sequenza con Bela Lugosi, deceduto prima della lavorazione, ha fatto recitare una sua controfigura. È il suo film più famoso, anche se Glen or Glenda è il vero capolavoro della risata involontaria. Trash-cult. (Plan 9 from Outer Space, p. 1520)
  • [I Pokémon] Sono 150 personaggi, piccoli mostri, ciascuno con poteri particolari. [...] Sono aggressivi e sempre pronti ad attaccare. (Pokémon, p. 1523)
  • Contro il riduzionismo che colpisce tutto il cinema di animazione, definito sbrigativamente dai senza anima "cartoni animati", si leva in alto e sopra e sotto la superficie del mare Ponyo on the Cliff by the Sea di Hayao Miyazaki. Mai rassegnato all'impiego della tecnologia digitale, il regista nipponico "sospende" la computer graphic e restituisce la complessità salata del mare con la matita e settanta artisti che hanno realizzato a mano centosettantamila disegni. (Ponyo sulla scogliera, p. 1532)
  • Amore, umorismo, scene di volo spettacolari ed un pizzico di nonsense (in una scena di duello aereo due rivali, esauriti i proiettili, cominciano a tirarsi chiavi inglesi e altri oggetti da un aereo all'altro): ecco gli ingredienti del film di Miyazaki più divertente e spensierato. La cura maniacale messa da Miyazaki nella ricostruzione del territorio italiano è quasi fotorealistica e le scene di combattimento aereo lasciano senza fiato. Singolare a tal proposito il momento in cui Porco decolla col suo idrovolante dal naviglio grande di Milano. Osannato in Francia dove il famoso attore Jean Reno ha doppiato il protagonista, Porco Rosso è stato distribuito in tutto il mondo, ovviamente Italia esclusa. (Porco Rosso, p. 1533)
  • Dunque Hollywood come girone dell'inferno, tanto per cambiare. Spacey sempre più cattivo. (Il prezzo di Hollywood, p. 1551)
  • Dopo i remake dei film francesi ora gli americani hanno deciso di metter mano anche alle sceneggiature italiane. Questo film è infatti tratto, come l'omonimo film di Dino Risi, da Il buio e il miele di Giovanni Arpino. Solo che l'ambiente è New York. [...] E se nel film di Risi è l'amore che gli fa cambiare idea, qui è il senso di protezione per il ragazzo, che difende davanti al preside del college. Grande interpretazione di Pacino, anche se piuttosto marcata, premiato con l'Oscar. (Profumo di donna, p. 1574)
  • La fantascienza fa ormai il verso a se stessa. Il genere deve "riposare", o reinventarsi. (Punto di non ritorno, p. 1587)
Nerone (P. Ustinov) in una scena di Quo vadis?
  • Il film è stato sempre giudicato un polpettone colossal per il grande budget, il colore, lo sfarzo, la ricostruzione spettacolare, i divi e i costumi. In realtà proprio per queste caratteristiche Quo Vadis?, nel tempo, si è rivelato un capolavoro: da quando il cinema, appunto, ha messo a fuoco i suoi significati, liberandosi dall'obbligo di appartenenza alle arti nobili e privilegiando i valori spettacolari e di evasione per cui era nato. Aggiungiamo poi il grande successo di pubblico, la certosina ricerca storica (con interventi di grandi specialisti della romanità), la straordinaria colonna di Miklos Rozsa (che ha letteralmente inventato il "suono" della Roma antica, creando un precedente imprescindibile per tutti) ed ecco che il film può far parte a buon diritto della categoria dei titoli fondamentali nel filone avventura-storia. (Quo vadis?, p. 1628)
  • Film decisivo per la storia del cinema. Arrivò sconosciuto a Venezia e divenne subito leggenda. Aprì la via al cinema d'oriente fino a quel momento pressoché ignorato. E fece conoscere uno dei massimi maestri di ogni tempo. (Rashomon, p. 1659)
  • La vita di Gesù in una pellicola spettacolare e non priva di poesia. (Il re dei re, p. 1665)
  • Dignitosa ma scialba versione del romanzo tolstoiano. (Resurrezione, p. 1679)
  • Gabriele Muccino ricomincia dall'America, lasciando a casa il suo cinema d'interni, di famiglie borghesi in crisi e di dialoghi urlati, accelerati e quasi sempre travolti dalla musica. Il film promette all'inizio ma non mantiene cammin facendo. Ripetitivo e prevedibile. (La ricerca della felicità, p. 1685)
  • Esistono due tipi di sequel: quelli che hanno senso di esistere e quelli che non lo hanno. Visto il meritato successo del primo Ringu (condizione necessaria ma non sufficiente) prendiamo per buono che questo sequel abbia senso di esistere. Anche tra i sequel che hanno senso di esistere esistono due tipi di sequel: quelli che cercano di vivacchiare di rendita dall'episodio precedente e quelli che stanno in piedi da soli. Ringu 2 appartiene alla prima categoria. Ma tra i sequel che provano a vivere di rendita esistono ancora altri due tipi di sequel: quelli che onestamente si limitano a vivere di rendita e quelli che cercano di non farsi "beccare". Ringu 2 appartiene alla seconda categoria. (Ring 2, p. 1691)
  • Terzo film della Trilogia della cavalleria di Ford. Nonostante alcuni lo ritengano il meno riuscito, costituisce un'indimenticabile rassegna di personaggi e un'ottima ricreazione dell'atmosfera militare come era stata dipinta dal pittore Frederic Remington. (Rio Bravo, p. 1692)
  • Roma era appena stata liberata e Roberto Rossellini diresse questo film con pochi mezzi. Il regista perfezionava il neorealismo, quel modo di narrare che doveva essere tanto vicino alla realtà da confondersi con essa. Nei contenuti e nelle immagini. I tedeschi che radunano i prigionieri, spingendoli coi fucili, la gente per strada, i gruppi di bambini, la scena della morte della Magnani sembrano istantanee della guerra. La drammaticità, la verità della ricostruzione hanno l'effetto di rilanciare il dramma e il coinvolgimento. Da questo film usciva un'immagine del popolo italiano ben diversa da quella accreditata fino ad allora: gente passiva, capace soltanto di obbedire allo scomodissimo alleato tedesco e di tradirlo al momento opportuno. Cinquant'anni dopo Steven Spielberg nel suo Schindler's List cerca di infondere nelle scene la drammaticità e la verità del realismo alla Rossellini. Gli è riuscita la drammaticità, non la verità. (Roma città aperta, p. 1717)
  • Dovrebbe essere una satira televisiva. Non merita altre parole questa fesseria con l'attore più "idiota" della storia del cinema. E gli hanno dato venti milioni di dollari per fare questo film. (Il rompiscatole, p. 1721)
  • Il sogno americano vince ancora una volta sullo schermo con un film sul mondo dello sport realizzato con attenzione ai particolari. (Rudy - Il successo di un sogno, p. 1730)
  • Il primo capolavoro di De Sica divenuto successo oltre confine, premiato con un Oscar. Lo sguardo è per i ragazzi, un tema carissimo al regista che aveva già firmato I bambini ci guardano. Nel 1948, con Ladri di biciclette, De Sica finiva la sua trilogia dei bambini. Registriamo la magnifica performance di Franco Interlenghi che sarebbe diventato un volto indispensabile di quel cinema. Sciuscià è uno dei titoli che hanno costruito la leggenda del cinema italiano di quella stagione, leggenda per il mondo. Apriva una strada che sarebbe rimasta solo nostra. (Sciuscià, p. 1772)
  • Gus Van Sant mantiene fermo il proprio sguardo sugli individui al margine e sulle età di passaggio. Questa volta lo fa con alle spalle un produttore/attore decisamente straordinario: Sean Connery. Il regista non solo non esaspera i toni ma sottolinea la propria continuità autoriale con un cameo affidato a Matt Damon. (Scoprendo Forrester, p. 1776)
  • Sam Neill interpreta un tipico eroe carpenteriano, tormentato dal sospetto che tutto possa essere frutto di una sua allucinazione. (Il seme della follia, p. 1801)
  • Hollywood, che ne aveva costruito il personaggio con molta attenzione, nel 1940 attribuì a Gary Cooper (su precisa disposizione di Washington) un ruolo decisamente importante, quello del leggendario sergente Alvyn York, che era stato il massimo eroe americano della prima guerra mondiale. Il fatto non era solo cinematografico, l'America era sul punto di entrare in guerra, ma una gran parte del governo premeva per il non intervento, la stessa opinione pubblica era confusa. La storia di York era straordinariamente esemplare: era un contadino del Tennessee che non voleva combattere per motivi religiosi. Lo fece soltanto quando capì che combattere avrebbe contribuito a salvare altre vite, e la libertà. Diretto da Hawks, un grande autore, oltre che narratore, Cooper fu magnifico. Le sequenze in cui cattura un'intera compagnia, il suo dolore consapevole, il ritorno a casa, il matrimonio con la fidanzata che l'ha aspettato paziente contribuirono a convincere gli americani più di tutti i proclami e le propagande. La missione era dunque compiuta. Certo, il film aveva grandi qualità, con un'attenzione quasi europea al realismo e al rigore e diede modo a Cooper di vincere il suo primo Oscar. Un attore, dunque, può contribuire a vincere la guerra. Se è Gary Cooper. (Il sergente York, p. 1815)
  • [...] il film è assolutamente anomalo rispetto al cinema italiano, davvero qualcosa di esportabile, per il mondo. Una grande sorpresa Ward, che regge una storia tutta sulle sue spalle. Impressionante Alessandro Etrusco, il Gesù più "Gesù" del cinema. (7 km da Gerusalemme, p. 1823)
  • È un western molto bello, un classico e il più accorato di Ford. I personaggi esprimono una sorta di "gentilezza dei prodi" e vivono nell'atmosfera d'una canzone di gesta carica di nostalgia. Ford è imbevuto dello spirito reale della vita di frontiera, riproduce fedelmente lo stile con cui cowboy e fuorilegge rischiavano l'esistenza in un crogiuolo arroventato come Tombstone. E il film è la più esatta – se non storicamente, come spirito – ricostruzione tra le molte che sono state fatte sull'episodio. Henry Fonda interpreta Wyatt Earp come un classico westerner onesto e crepuscolare: un personaggio quasi timido, il pistolero convertitosi in tutore della legge. La sua figura suggerisce i momenti più distesi del racconto: il riposo con un piede sulla seggiola inclinata e l'altro sulla balaustra della veranda, i colloqui intensi con Clementine, la memorabile scena del ballo. Ma la grande figura del film, un epico signore della frontiera degno di Francis Bret Harte, è "Doc" Holliday: un sorprendentemente bravo Victor Mature, medico con vocazione alla pistola, tubercolotico come nella miglior tradizione romantica, poeta maledetto che sa a memoria Shakespeare e che completa il monologo dell'Amleto azzoppato dal patetico vuoto di memoria del vecchio attore. E deliziose, anche se un po' in ombra, sono le figurine femminili: l'impetuosa, ardente Chihuahua di Linda Darnell, una sanguemisto dalla scollatura densa di profumo, e la magica Clementine, preziosa nella sua sommessa malinconia, tutta giocata su toni grigi poetici. Come quasi sempre in Ford la leggenda del West approda alla poesia e sfavilla in momenti di grande forza, anche se l'azione spesso cede alla descrizione lirico-nostalgica. Tra la storia e la leggenda Ford anche questa volta ha stampato la leggenda. Ma il vigore del sentimento dei personaggi, i personaggi disegnati a tutto tondo, la ricchezza del racconto e la splendida descrizione dei paesaggi magistralmente fotografati nell'amata Monument Valley danno al film il tocco più prezioso dell'autenticità. (Sfida infernale, p. 1832)
  • Film minore di Welles, che forse aveva bisogno di soldi. Il sapore è quello del tradizionale noir con tanto di voce narrante in prima persona. Il regista era sposato con la Hayworth, ma il matrimonio aveva i giorni contati. Si dice che Welles, sadico e vendicativo, imbruttisse quanto più poteva la diva. Indimenticabile la sequenza finale dove si arriva alla resa dei conti, col famoso gioco di specchi che impedisce la visione della realtà. (La signora di Shanghai, p. 1848)
  • Solo due ore è ricco di cliché e luoghi comuni, compreso un finale troppo dolciastro, ma la confezione è impeccabile, ci sono dei bei momenti di cinema (le sequenze all'interno dell'autobus; i duetti verbali tra il protagonista e il ciarliero Mos Def, vera rivelazione del film) e Donner aggiunge il suo innegabile talento e mestiere. (Solo due ore, p. 1885)
  • Si tratta di un autentico cult movie, tra i pochi che può vantare il cinema italiano del dopoguerra. Un'intuizione geniale è all'origine del film, che può essere definito un road movie; il confronto di due generazioni nel territorio neutro di una giornata di vacanza. La complementarietà dei caratteri dei due protagonisti è un supporto dalle solide basi. La sceneggiatura di Scola, Risi e Maccari è in perfetto equilibrio tra la commedia all'italiana e il dramma sociale, questo appena accennato con alcune allarmanti sequenze disseminate nel film e concluso nell'impietoso finale. Il cialtronesco Gassman, finalmente libero, come lui stesso ammette, dai vincoli delle caratterizzazioni, dai ghigni classicheggianti, esprime in alcune sequenze la sua dirompente fisicità. Distrugge con l'intuizione del superficiale i luoghi comuni che lo studente Trintignant si era costruito in un'intera vita, sui suoi parenti. Libera lo charme opaco di una zia del suo amico. In ogni spostamento, dalla Roma deserta del mattino di Ferragosto e lungo le strade della Versilia fino alla Costa Azzurra, si gioca la sua dignità e persino la figura di padre. La partita a ping-pong con Gora è al riguardo esemplare. L'attonito Trintignant in questa scuola dei dritti è infatti l'unico a soccombere, emblematicamente. Non pochi hanno lamentato il cambio di atmosfera dell'epilogo: un brusco risveglio dalla partitura scoppiettante di una pellicola che sembrava dover dispensare un eclettico piacere a fior di pelle. Come in La grande guerra e Una vita difficile il cinema italiano aveva trovato, se non un vero e proprio stile, un equilibrio basato su una precisa rappresentazione della società italiana, senza dover ricorrere ai macchiettoni che il depravato cinema d'oggi mostra con lugubre allegria. Il rimpianto di quel cinema è presente in ogni spettatore che abbia solo visto quei film pur non facendo parte di quella generazione. Ed ecco allora la Lancia Aurelia Sport diventare un oggetto mitico. Così come alcune battute di questi film vengono tramandate con puntuale approssimazione, ma con sincera partecipazione. Il sorpasso, al suo apparire quasi snobbato dalla critica, si è ritagliato col tempo uno spazio che appartiene di diritto alle grandi memorie del cinema. (Il sorpasso, p. 1892)
  • Clint Eastwood continua il suo percorso di rivisitazione dei miti del cinema americano. La sua però non è l'opera di un iconoclasta. Clint ama ciò che fa e ama il western. Quando ci mostra i quattro vecchietti che si preparano ad andare nello spazio lo fa con grande ironia ma anche con grande affetto. La frontiera, il nemico da sconfiggere, stanno lassù? Ecco allora i Nostri pronti a partire, con quel mix di individualismo e di spirito di squadra che costituisce la formula vincente. Il finale celebra un sacrificio ma non cerca l'applauso. (Space Cowboys, p. 1904)
  • Stealth fa parte di quella lunga fila di pellicole gradevoli solo se viste senza pretese, col cervello staccato, una gigantesca confezione di pop-corn in mano e una buona dose di autoironia. (Stealth - Arma suprema, p. 1937)
  • Film ipercitazionista che parla ai ragazzini con un linguaggio che ben conoscono. (Super Mario Bros, p. 1973)
  • Grandi interpreti femminili per un difficile affresco storico. (Un tè con Mussolini, p. 1996)
  • Incastro di flashback uniti dall'ossessiva presenza del telefono, il film copre quasi puntualmente l'arco di novanta minuti in cui si svolge la trama. Nella sceneggiatura, l'autrice Lucille Fletcher sfrutta appieno la possibilità di abbinare immagini al proprio testo radiofonico: prendono vita non solo le sequenze retrospettive, ma anche gli ambienti che fanno da sfondo al disperato scambio di chiamate. La storia, venata di amara ironia, racconta di come una serie di messaggi vengano trascurati o fraintesi. L'impossibilità di comunicare resta il motore di un meccanismo che produce angoscia. Anche se fin dalle prime inquadrature la protagonista appare insopportabile (Barbara Stanwyck è perfetta in parti di questo genere), alla fine lo spettatore non può fare a meno di identificarsi con lei, trascinato da un crescendo di suspense abilmente orchestrato. (Il terrore corre sul filo, p. 2015)
  • Dopo Stigmate di Rupert Wainwright, film gnostico contro la Chiesa, la Holland accantona ogni effetto speciale, rinuncia ad esorcismi e a scene di possessione, per penetrare nel profondo dell'animo di un prete e restituirci il suo umano dramma interiore. Il film della Holland non manca di sollevare interrogativi inquietanti, inducendoci a riflettere sul concetto di santità e sul dogma della castità. (Il terzo miracolo, p. 2019)
  • Il richiamo è un po' quello della fuga e della ricerca. Un po' alla Salvatores prima maniera. I due "figli di" ci riprovano e qualche bella suggestione, grazie alla location eccetera, ci scappa pure. (Teste di cocco, p. 2023)
  • La vigilia di Natale, un pugno di terroristi irrompe in un grattacielo, sede di una multinazionale, e prende in ostaggio trenta impiegati. Ma il marito di una dirigente, un poliziotto, sfugge alla cattura e inizia una sua guerriglia personale all'interno del grattacielo. Ottima suspense, efficacemente ambientato, con avvincenti scene d'azione. Funziona persino lo scialbo Bruce Willis. (Trappola di cristallo, p. 2061)
  • Un tale cerca di ritrovare, molti anni dopo, un amore, non consumato, del liceo. Lui è brutto e maldestro, lei è Cameron Diaz. Nel frattempo assistiamo a un pene che rimane incastrato in una lampo, a uno schizzo di sperma spalmato come un gel sui capelli. Si è cercato di far passare un film quasi inesistente per il nuovo manifesto giovanile, trasgressivo e liberatorio. Invece è solo banale e senza invenzioni. (Tutti pazzi per Mary, p. 2098)
  • Un film interessante, non eccezionale; ma nient'affatto blasfemo, come vorrebbero i bigotti che hanno disturbato le proiezioni in Francia e Usa. (L'ultima tentazione di Cristo, p. 2121)
  • The Last Samurai porta la firma di Tom Cruise più che del suo regista, Zwick, che si conferma un discreto mestierante: la sua è una regia senza impennate né cadute, prevedibile ma godibilissima. Nel complesso il film è molto curato e la minuziosa rappresentazione di una cultura da noi così lontana tiene alta l'attenzione fino alla fine, nonostante le due ore e mezzo di durata complessiva. (L'ultimo samurai, p. 2112)
  • Scritto e prodotto dai registi di Matrix, V for vendetta è un cocktail "esplosivo" che unisce effetti speciali ad un ritmo incalzante non privo di efficacia. Come può accadere per i film tratti da opere letterarie e fumetti, resta il dubbio che il testo di partenza sia stato interpretato più o meno correttamente. Lasciamo agli esperti di fumetto l'ardua sentenza. (V per Vendetta, p. 2245)
  • Il Vangelo di Pasolini non intendeva mettere in discussione dogmatismi o miti, quanto far emergere l'idea della morte, uno dei temi fondamentali della sua poetica. Come negli altri film, il regista si affida a un linguaggio sonoro ricercato per didascalizzare alcune delle vicende più significative. Ecco dunque la Passione secondo Matteo di Bach e soprattutto La musica funebre massonica di Mozart – che accompagna tutta la passione di Gesù – a suggellare la propria immagine della morte: un evento necessario, per niente eroico e soprattutto ineluttabile. Il Vangelo, come quello di Matteo, disegna una figura di Cristo più umana che divina, un uomo con moltissimi tratti di dolcezza e mitezza, che però reagisce con rabbia all'ipocrisia e alla falsità. Si tratta di un Cristo motivato dalla volontà di redenzione per coloro che subiscono le conseguenze dell'istituzionalizzazione della religione operata dai farisei che ne hanno fatto uno strumento di dominio politico e sociale. È un Cristo rivoluzionario che è venuto a portare la spada piuttosto che la pace. (Il Vangelo secondo Matteo, p. 2173)
  • La presenza di Redford divora quella della Lopez, il cui successo è il più inspiegabile mistero del cinema moderno. Jennifer è sempre l'anello debole del film, insieme alle esplicite didascalie su temi come la morte, la solitudine, il perdono. (Il vento del perdono, p. 2189)
  • Ambizioso film di Bellocchio, pienamente risolto solo sul piano figurativo. (La visione del sabba, p. 2218)
  • Il vecchio leone torna a graffiare. Alla faccia dei critici cipigliosi. Ecco l'ennesima prostituta, figura portante di un film. Per narrarci le sue disavventure Ken Russell la fa parlare direttamente con noi, stile Godard o cinema verità. Ne vediamo di belle e di brutte e la protagonista rischia di finire male. Ma c'è un angelo custode di colore che veglia su di lei. Theresa Russell è brava a trasmettere la sua rassegnazione, ma anche la desolazione dell'ambiente in cui vive. Siamo abituati a vedere la vita di una prostituta cinematograficamente, ma anche se le situazioni sono sempre le stesse qui c'è qualcosa di più. C'è lo squallore della sopravvivenza. (Whore (puttana), p. 2255)

Bibliografia

[modifica]
  • Pino e Rossella Farinotti, il Farinotti 2010: Dizionario di tutti i film, con la collaborazione di Giancarlo Zappoli e Bartolomeo Corsini, Newton Compton editori, Roma, 2009. ISBN 978-88-541-1555-2

Voci correlate

[modifica]

Altri progetti

[modifica]